Una generazione esagerata

Andrea Branzi

Una generazione esagerata Dai Radical italiani alla crisi della globalizzazione Con un’Appendice di testi di riferimento dal periodo radical ad oggi a cura di Francesca Balena Arista

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L’«esagerazione» è stata una condizione caratteristica della generazione a cui appartengo, almeno quelli nati intorno all’inizio degli anni Quaranta; una esagerazione indispensabile per reagire a una borghesia modesta, esagerata nel suo moralismo, nella mediocrità culturale, nel perbenismo. Sotto questo pesante cappello ognuno avvertiva, in forme diverse, la propria diversità e ambizione e l’unica maniera fu quella di reagire con «esagerazione» alle «esagerazioni» circostanti…

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Personalmente posso testimoniare che la mia inadeguatezza aveva dei motivi oggettivi; sono nato il 30 novembre del 1938, appena in tempo per assistere all’inizio della seconda guerra mondiale. Il giorno del battesimo presi una gravissima polmonite che mi portò in punto di morte. Per questo motivo sono cresciuto esile, con una salute cagionevole; bronchiti, tonsilliti, qualche polmonite, curate con lunghe degenze e interminabili convalescenze. Sotto le esagerate protezioni materne sono diventato un bambino timido, con la sensazione di essere diverso e più fragile dei fratelli e degli altri bambini…

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Ultimo di sette fratelli di una famiglia di lontanissima origine ebraica ma fervente cattolica, sono cresciuto frequentando la parrocchia e recitando quotidianamente il rosario, attorno a cui la numerosa famiglia alla sera si riuniva. PiÚ grandi di me vi erano tre sorelle, e quindi ancora piÚ grandi tre fratelli; per questo motivo ho imparato a giocare da solo e questa solitudine ha sviluppato molto la mia fantasia e anche una esagerata autonomia mentale‌ Mio padre era una figura importante dell’antifascismo cattolico, coraggioso, sereno, intransigente verso se stesso prima che verso gli altri; successivamente ha rivestito cariche nazionali di grande importanza. Questa figura autorevole ma non autoritaria, in qualche modo ha condizionato me e tutta la famiglia; i miei fratelli

La famiglia Branzi, 1958

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non sono mai usciti dalla sua ombra, anche se in maniera ormai più formale che reale…

I miei primi ricordi sono ricordi di guerra; bombardamenti, allarmi, rifugi, tutti eventi più grandi della comprensione di un bambino; ne opprimevano la libertà, ma in qualche modo paradossale rendevano la sua infanzia non banale. Con la fine della guerra arrivarono i film di Walt Disney: Biancaneve e i 7 nani, Pinocchio, lo stucchevole Dumbo e soprattutto Cenerentola dove si ascoltava il primo manifesto sonoro dell’arrivo della civiltà dei consumi «Tutti i sogni son desideri…»

L’inizio del «miracolo economico» però stava trasformando l’Italia in un Paese confuso, provinciale, mediocre, schiacciato dalla Guerra Fredda, iper-politicizzato ma paralizzato dagli epigoni del fascismo e dell’anti-fascismo. Un Paese privo delle sue radici, ambizioso ma dove si viveva male, si vestiva e si mangiava male; la mediocrità costituiva l’habitat di una società frustrata, divisa, isterica, ma esageratamente desiderosa di una modernità almeno superficiale. Devo dire che io avvertivo tutto questo e sentivo crescere un complesso di inferiorità…

Invece di iscrivermi a una scuola pubblica i miei genitori decisero di farmi fare le elementari in casa; questa decisione ebbe gravi conseguenze. Quando nel 1950 fui iscritto a una scuola dei Padri Scolopi, non sapevo studiare, avevo paura degli altri bambini e dei maestri. Ben presto si manifestarono gravi disturbi di dislessia con

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difficoltà a scrivere e a leggere, accompagnati da «crisi ontologiche» consistenti nella angosciante sensazione di «non esistere» (come se fossi separato dagli altri da una lastra si cristallo) e da forti dolori di natura psicosomatica. Quando ero ancora più piccolo avevo delle lunghe e inspiegabili crisi di pianto…

A quei tempi la psichiatria infantile non esisteva per cui istintivamente iniziai una terapia dedicandomi a una ininterrotta attività di disegno, sui quaderni, sui libri, sui banchi; diventai così una sorta di bambino prodigio e questa abilità mi riscattava, in qualche modo, dall’essere sempre l’ultimo della classe. La mia carriera scolastica fu infatti disastrosa e fino al 1960, quando finalmente mi iscrissi all’Università, ripetei quattro anni scolastici. Così più passava il tempo più le mie «lacune» aumentavano e l’assenza di «basi» diventava abissale…

Branzi studente (il primo da sx) davanti al liceo Dante; sulla lambretta Claudio Greppi. Firenze, 1959 A. Branzi in Normandia, 1961

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Per i professori ero un enigma, perché scrivevo bene, avevo attitudine per la Storia dell’Arte, ero spiritoso e simpatico a tutti i compagni del liceo Dante, ma sempre distratto e un vero disastro in tutte le materie; le mie vacanze consistevano in una ininterrotta serie di ripetizioni, che invece di aiutarmi rendevano sempre più astratta la mia formazione scolastica, trasformandola in una sorta di pratica patibolare a cui non sapevo più come mettere riparo.

Quando nel 2008 ricevetti la Laurea Honoris Causa all’Università della Sapienza di Roma, ebbi la sensazione di essere il vendicatore di tutti gli «ultimi della classe»…

Ma non posso dire che la mia infanzia sia stata triste, semmai direi incosciente, troppo fantasiosa, molto distratta ; la famiglia mi proteggeva, i miei genitori mi stimavano, i compagni mi volevano bene (particolarmente i primi della classe) ma la distanza tra me e la «normalità» cresceva. Molti ragazzi della mia età vivevano la loro «normalità» in maniera del tutto spontanea, ma i più sensibili cominciavano a irridere con ironia sia i professori che il mondo familiare…

In forme diverse la mia generazione cominciava quindi a sentirsi diversa dalla mediocrità del mondo circostante e cominciò a dichiararsene del tutto estranea; non in maniera ostile, violenta, ma più arguta e intelligente. Se un tempo essere normali costituiva un traguardo sociale, adesso il traguardo era superare la grigia normalità dei vicini di pianerottolo, dei condomini, dei professionisti di successo, dei professori frustrati. Il seme della «generazione esage-

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rata» cominciò a germogliare all’inizio degli anni Sessanta fino a diventare un fenomeno che affondava le sue radici nella storia di questo Paese, dove l’«esagerazione» è sempre stata l’unica maniera per sopravvivere…

L’Italia infatti è l’unico Paese europeo che non ha mai fatto una Rivoluzione; per questo motivo ha maturato una grande abilità nell’arte di gestire le proprie contraddizioni, senza risolverle mai completamente. Per questo motivo la categoria dell’«esagerazione» è diventata una strategia utile a dilatare, senza arrivare mai al punto di rottura, la convivenza conflittuale tra le parti sociali, tra la propria storia e il proprio presente, tra i suoi meriti e i suoi difetti; secondo la sapiente tradizione elastica e cattolica che al peccato fa sempre seguire il perdono. Un Paese, il nostro,

A. Branzi a Interlaken, foto E. Sottsass 1968 Ritratto ad occhi chiusi, foto G. Basilico 1973 La pila di volta

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che è stato in grado, a cominciare dai Futuristi, di immaginare una modernità diversa perché nei fatti la modernità reale non vi si è mai realizzata; capace di recuperare il proprio ritardo rispetto agli altri Paesi portandosi improvvisamente avanti a loro, senza mai essere uguale a loro…

Gli eventi di cui questo libro tratta forse non sono sufficienti a spiegare in maniera completa quello che è successo in Italia a partire dall’inizio degli anni Sessanta, quando la mia generazione aveva vent’anni e si è formata e deformata in quella stagione di cambiamento, che noi ritenevamo definitivo ma che forse non lo era.

Come nella «teoria delle Catastrofi» di René Thom, le tensioni ambientali possono crescere all’infinito, ma basta un micro-evento imprevisto per scatenare una fase tumultuosa, un uragano, una rivolta, un orgasmo; oppure una «esagerazione terapeutica», unica operazione possibile per creare attraverso una eresia imprevista o una profezia geniale uno smottamento salutare in un Paese pigro e fragile…

A queste catastrofi (che non sono Rivoluzioni) segue sempre il sereno, come una scarica temporanea di un sur-plus di energia; ma forse è vero che sono proprio i cicli di queste crisi, mai mortali, che fanno sviluppare il mondo. Elaborando, come direbbe Edgar Morin, paradigmi che «prescrivono» e insieme «proscrivono», o come le Pile di Volta che producono un campo magnetico attivo grazie al semplice contatto tra due materiali diversi: lo zinco e il rame…

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