E venne il sabato

JULIO

Finse di non aver visto in tempo le quattro case della frazione.

Come la corriera le ebbe superate, si alzò di scatto chiedendo all’autista di fermarsi.

– Per favore – si scusò – ero distratto…

– Sta bene, ma un’altra volta… – brontolò l’autista.

– Grazie, grazie!

Si incamminò verso le case, ma appena la corriera scomparve dietro la prima curva, s’affrettò a cambiarsi d’abito infilando l’altro nello zainetto. Poi, afferrata la valigia, a passo svelto s’incamminò verso Pura, la cittadina dove era diretto.

Un’ora più tardi, dall’alto della collina, la vide. Pura lambiva un orlo frastagliato dell’oceano verde che invadeva tutto lo spazio fino a dissolversi all’orizzonte: la foresta.

Infilò una stradina di terra battuta e prese a discendere; avvicinandosi alle prime case la strada si allargò. Fu accolto dal latrare fastidioso e petulante di due, tre cani bassi, affamati, che erano cani solo perché abbaiavano da cani, altrimenti potevano essere presi per mostriciattoli deambulanti su zampette da gioco.

S’inoltrò per una via ampia, diritta che terminava in una grande piazza. Lesse il nome solo per curiosità; già sapeva che non poteva essere altro che Plaza de Armas e, come tutte le «Plaza de Armas» di tutte le cittadine, era enorme, spaziosa. Le case che le facevano corona avevano un balla23

toio esterno di legno, un lungo balcone che allacciava ogni edificio e che consentiva di poter vedere dall’alto tutta la piazza e, a chi era sui marciapiedi – gli unici in tutta la città – di stare all’ombra. Aveva il ballatoio, ma di mattoni questa volta, anche il grosso palazzo che occupava tutto un lato della piazza. L’unico palazzo a tre piani. Poliziotti vicino al grande portone, finestre con le sbarre, stemma e bandiera sulla facciata, indicavano che quello era il Palazzo del Governo. Di fronte a questo c’era un’altra grossa costruzione a due piani. E il bar. Vi si diresse.

– Dove potrei trovare una stanza per una notte? – domandò entrando.

Il locale era bar, merceria, negozio di generi alimentari, un po’ di tutto. C’erano alcune donne che compravano piccole cose e un paio di soldati che ridendo bevevano una birra.

– Una stanza?! – ripeté il proprietario del bar aguzzando gli occhi per vedere bene in faccia lo sconosciuto. – Vuole… vuole dormire a Pura?

– Non si può?…

Anche le donne si girarono per osservarlo. I soldati smisero di ridere.

– Un’ora di tempo e gliela preparo. Ho due stanze al piano di sopra, ma devo sgombrarle.

– Non ho fretta. Dove posso mettermi?

– Ora, un attimo… un attimo… – Uscì affrettatamente da dietro il bancone, afferrò un tavolino, lo portò fuori, vicino all’ingresso, lo pulì con uno strofinaccio lurido, prese una sedia e: – Ecco, può aspettare qui, mentre le faccio sgombrare la stanza. Beve una birra, vero?

– Certo – sorrise il forestiero sedendosi.

Il proprietario rientrò per comparire subito dopo con birra e bicchiere.

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– Se occorre altro, mi chiami.

Il forestiero fece cenno di sì. Pulì con il fazzoletto il bicchiere e vi versò un po’ di birra. Ne bevve una sorsata, poi si accomodò meglio sulla sedia guardandosi attorno.

Seguendo il perimetro della piazza, all’ombra del lungo balcone, stavano dei vecchi seduti in terra, con le spalle appoggiate al muro. Vide che anche vicino a lui c’erano dei vecchi accovacciati in terra. Li salutò con un cenno della mano. Risposero con un cenno della testa.

L’albergatore venne a dirgli che la stanza era pronta.

Lo seguì sulla traballante scaletta di legno che portava al piano superiore. Una ragazza india stava terminando di riassettare il letto.

– Certo non è il grand hotel – commentò scherzosamente il proprietario prevenendo la battuta che si aspettava – ma per Pura…

La stanza, due metri per tre, sembrava voler soffocare le persone.

– C’è un poncho sul letto – chiarì l’oste. – La notte fa fresco, qui. E stia attento agli insetti, ce ne sono…

– Li conosco.

L’uomo guardò il forestiero. Stava chiedendosi da dove poteva venire; aveva più l’aria di un impiegato che quella di un uomo abituato a vivere ai confini della civiltà. Anzi, a guardarlo bene, magrolino, asciutto, poteva passare per un tipo insignificante se non fosse stato per gli occhi vivi, penetranti.

– Se conosce gli insetti – mormorò il proprietario proseguendo a guardarlo di sottecchi – saprà che…

– Non sono un impiegato dello Stato – rispose come se avesse letto il pensiero dell’uomo. Questi emise un sospiro di sollievo.

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– È già stato nella foresta? – domandò. E la sua voce aveva un tono diverso.

– Ci sono stato per diversi anni – fu la risposta.

Lo straniero non aveva voglia di sbottonarsi, era chiaro.

– Bene, signore. Se le occorre qualcosa, chiami pure.

– Grazie… E per mangiare, dove posso andare?

– Potrei farle preparare qualcosa anch’io, se si accontenta.

– Per me va bene. Vado a fare due passi per conoscere la città.

– Se ora si ferma in piazza, potrà assistere alla pesata. Viene fatta solo il sabato.

– Che cos’è, una festa?

– No, i caucheros tornano dalla selva e qui, in piazza, la Compagnia controlla il peso del caucciù raccolto. Un po’ di movimento…

Il forestiero tornò a centellinare la birra. I vecchi che gli erano vicini non alzarono nemmeno lo sguardo.

Silenzio. Afa e silenzio. Solo le mosche e il loro ronzio.

Dopo una mezz’ora alcune jeep irruppero nella piazza sollevando polvere e, dopo un paio di giri veloci, s’arrestarono con stridio di freni. Una quindicina di uomini balzarono fuori dalle vetture e andarono a mettersi agli angoli della piazza, nei punti in cui confluivano le strade.

– Chi sono? – domandò il forestiero al vecchio più vicino.

– Gringos.

– Non mi sembrano stranieri. Mi sembrano…

– Non conta quel che sembrano. Sono della Compagnia. – La risposta sembrava uscire dalle rughe che solcavano il volto. – Mangiano bene, loro – proseguì senza far un solo movimento.

– Mangiano bene… Si riconoscono per questo – commentò dopo alcuni istanti di silenzio.

Si riconoscevano anche per altre cose che l’occhio attento 26

del forestiero aveva già notato, come lo strano rigonfiamento della camicia vicino all’ascella sinistra, l’aria spavalda la disinvoltura con la quale facevano ruotare gli sfollagente.

– Già, sembrano gringos…

Il vecchio annuì, guardandolo per la prima volta in faccia.

Poi il suo sguardo tornò a perdersi nel vuoto, assente.

Le jeep vuote si allontanarono.

Silenzio. Silenzio rotto solo dal ronzio delle mosche.

Improvvisamente tutti i vecchi, che parevano addormentati, sollevarono la testa, fissando tutti lo stesso punto. Anche il forestiero guardò nella loro direzione, pur non avendo udito un rumore, nulla che potesse far capire che da quel punto sarebbe sopraggiunto qualcuno o qualcosa.

Poi, nel silenzio che incombeva sulla piazza, s’udì, distinto, anche se lontano, lo scalpiccio di molti passi. E apparvero: una lunga fila di uomini e donne che avanzavano al piccolo trotto, con un grosso rotolo di gomma sulle spalle. La fila girò lungo i bordi della piazza, si dispose su più righe, tutte rivolte verso il Palazzo del Governo. Immobili malgrado le mosche che infierivano sui corpi grondanti sudore; immobili e in silenzio.

Tutto era strano. Cercò di contarli. La piazza era piena: dovevano essere alcune centinaia di persone. Notò che una sessantina, tra uomini e donne, vestivano una specie di divisa.

Lurida, strappata in più punti, ma sempre divisa.

Due impiegati uscirono dal Palazzo del Governo portando una grossa bilancia a gancio che sistemarono a pochi metri dal portone dal quale uscì, quasi trotterellando, un ometto con un grosso blocco tra le mani. Abbozzò un mezzo sorriso alla folla, un sorriso che voleva essere accattivante, e andò a fermarsi vicino alla bilancia. In silenzio anche lui.

Qualcuno portò un palchetto alto tanto quanto bastava per 27

dominare la piazza. E su questa specie di podio prese posto un uomo di media statura, ma imponente, riverito da tutti, guardie e impiegati. In silenzio anche lui, però.

E il silenzio proseguì a incombere sulla piazza.

Finalmente delle voci. Ridenti, forti, robuste.

Il forestiero guardò in direzione delle voci. Lui solo, però; gli altri non sollevarono nemmeno il capo. Sul balcone del Palazzo del Governo erano apparsi due personaggi vestiti in nero, solenni: uno basso e magrolino, l’altro alto e grosso. Erano solo due, ma nel silenzio della piazza le loro voci davano l’impressione d’una moltitudine. Solo quando le voci tacquero, l’uomo sul palchetto alzò lo sguardo verso loro.

I «signori in nero» annuirono.

L’uomo fece un inchino, poi, rivolto all’impiegato dal grosso blocco, ordinò: – L’appello!

L’ometto dal blocco iniziò.

– Juan de lo Río.

Un uomo uscì dalla fila, si tolse dalle spalle il carico e lo consegnò all’impiegato che lo pesò, annotò sul blocco la cifra e disse: – Passa allo spaccio.

Juan de lo Río s’inchinò e rientrò nelle file. La stessa scena si ripeté per una decina di persone.

– Alejandro Surquillo – chiamò l’impiegato.

L’uomo tremava tutto. L’impiegato prese il rotolo e pesò.

– Quattro chilogrammi scarsi – annunciò.

Tutti gli occhi si puntarono su Alejandro Surquillo.

L’uomo si rivolse all’impiegato, senza guardare in faccia chi era sul palco.

– Sto male – mormorò. – Ho la febbre.

– Non ti è stato dato il chinino? – e l’impiegato controllò il registro.

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– Sì, mi è stato dato. Ma ho sempre la febbre. Non ce la faccio…

– Quattro chilogrammi? – interruppe l’uomo sul palchetto.

– Sì, signor sovrintendente. Quattro, scarsi.

Il sovrintendente si rivolse ad Alejandro.

– È la seconda settimana che porti meno di cinque chilogrammi.

– Sto male, eccellenza, sto male –. Più che una protesta, era un’implorazione.

Due guardie lo spinsero verso un’inferriata del Palazzo e ve lo legarono. Un robusto sorvegliante si avvicinò. La frusta sibilò dodici volte. Ma già al terzo colpo l’uomo chiamato Alejandro era svenuto.

L’appello riprese. Due, tre… il quarto fu frustato. Neanche lui era riuscito a raccogliere cinque chilogrammi di caucciù.

Ora erano sempre più numerosi i raccoglitori che non consegnavano la quantità richiesta. L’uomo che frustava era in un bagno di sudore.

E cominciarono a chiamare le donne.

– Rocío!… Quattro chilogrammi mezzo – annunciò l’impiegato dopo aver pesato il rotolo di gomma.

– Sei colpi. Sabato prossimo, se non porterai la quota richiesta, ti sarà tolta la casa.

La donna abbassò il capo mentre si avviava, sfinita, verso l’inferriata. Sei colpi, ma anche se fosse stato uno solo, la donna era già distrutta.

– Romina!

– Cinque chilogrammi.

– Antilina!

– Cinque chilogrammi.

– Edith!

– Cinque chilogrammi.

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– Ilquentio!

– Quattro chilogrammi.

– Sei colpi.

E di nuovo l’appello: sei, sette, otto… tutto normale: cinque chilogrammi. Perfetto.

– Herliane!

– Tre chilogrammi, signore… solo tre chili, però…

– Che ha? È malata anche questa?

– No, signore; però… sono già cinque settimane che non riesce a raggiungere il peso giusto.

– Cinque settimane?! – Il sovrintendente era esterrefatto.

– E io?…

– È stata punita ogni volta, signore, e l’ultima volta… – scartabellò tra i fogli – e l’ultima volta diciotto colpi, signore. È stata ricoverata in infermeria.

– Allora bisogna punirla in un’altra maniera.

– Sì, signore.

– Dove abita? Con chi vive?

L’uomo controllò il registro.

– Ha tre figli. Il marito è morto l’anno scorso. Rendeva molto bene alla Compagnia.

– Prendete il figlio più grande… Quanti anni ha?

L’impiegato controllò nuovamente.

– Sette anni, signore. Il più grande ha sette anni; poi ce n’è uno di cinque e uno di tre.

– Manda a prendere il bambino.

Lo portarono poco dopo. Rideva felice, il piccolo. Per la prima volta era salito su una macchina e il fatto gli era piaciuto. Lo avvicinarono all’inferriata e lo legarono. Il bambino si guardò attorno, incerto se ridere o avere paura. Pensava di partecipare a un gioco, un gioco strano, ma sempre un gioco.

Fu il silenzio della folla a impaurirlo. Scoppiò a piangere 30

invocando la mamma. Questa, sfinita, accosciata in terra, provò ad alzarsi, ma riuscì solo a tentennare la testa.

– Fatelo tacere! – ordinò il sovrintendente.

Gli misero un bavaglio.

La madre pareva morta, assente da tutto, indifferente a tutto.

– Sei colpi!

Per tutta la piazza si levò un mormorio di protesta. Tutti gli sguardi si fissarono sui due «signori in nero». Questi annuirono. E il sovrintendente ripeté l’ordine.

– Il ragazzo viene punito – precisò, non ebbe il coraggio di dire «bambino» – affinché sua madre ricordi che a nessuno è permesso di non rispettare il contratto firmato con la Compagnia. La Compagnia vi dà tutto, ma non potete abusare della sua bontà. Il vostro impegno è di consegnare cinque chili di prodotto ogni settimana e l’impegno deve essere rispettato.

Sei colpi, affinché e la madre e tutti voi ricordiate.

Non più un sussurro. Solo il ronzio delle mosche.

Il sorvegliante si preparò. Nello stesso momento un uomo scattò da un vicolo e come fulmine raggiunse il fustigatore, con un colpo lo fece cadere in terra e poi, con il suo corpo, fece scudo al bambino.

La gente guardava lui, solo lui. Il forestiero l’osservò con attenzione. Era un uomo alto, robusto.

Nella piazza si sentiva l’attesa. Tutti attendevano.

I poliziotti avevano estratto le pistole ma non sapevano che cosa fare. Anche il sorvegliante che si stava rialzando non sapeva se attaccare l’intruso o… Raccolse la frusta e guardò il sovrintendente.

– Togliti – ordinò questi all’intruso.

– Mi tolgo, ma con lui.

– Lui fa parte della Compagnia.

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– Da quando in qua la Compagnia ha aperto un collegio?

– Pensa ai fatti tuoi e lasciaci in pace.

– I fatti miei sono anche questi. Soprattutto questi.

– Bene – disse il sovrintendente – se i fatti tuoi sono anche questi, allora sei disposto a lavorare al posto del bambino e della madre?

– E tu lasci andare il piccolo?

– L’ho detto.

– Allora lavorerò una settimana per pagare il debito della madre verso la Compagnia, ma il bambino sarà lasciato in pace per sempre, chiaro?

– D’accordo. Per una settimana.

– Metti per iscritto il patto.

– Non ti fidi?

– Non mi fido.

– Eppure io mi fido di te. Non ti faccio prendere e legare per essere sicuro che lunedì mattina verrai a lavorare.

– Tu fai questo perché sai che puoi fidarti. Io invece so che non mi posso fidare né di te, né della Compagnia. Perciò tutto per iscritto.

– E se non scrivo?

– Non vengo.

– E il bambino?

– Lo porto via con me, ora.

Il sovrintendente stava per replicare, ma si trattenne. Era meglio troncare la discussione.

– Bene, scriverò il contratto. Ti aspetto nel mio ufficio. E ora riprendiamo l’appello.

L’impiegato, che fino allora aveva assistito all’incidente schiacciato in un angolo del portone, si fece avanti.

– Aldea!

La ragazza consegnò il suo rotolo di caucciù.

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– Cinque chilogrammi.

Intanto l’uomo aveva slegato il bambino.

– Corri a casa – gli ordinò – e non farti trovare in giro.

Il piccolo svanì.

– Tapeque!

La donna trascinò se stessa e il rotolo fino alla bilancia, ansimando.

– Tre chilogrammi mezzo… – l’impiegato guardò la donna.

Si volse verso il sovrintendente e: – …un momento, signore; forse mi sono sbagliato.

Controllò il peso. Erano proprio tre chilogrammi e mezzo.

Provò a dire: – Sono circa quattro chili, signore. Poco meno…

– E vada per quattro chili – commentò il sovrintendente.

– Sei colpi.

La donna si aggrappò all’inferriata. Il sorvegliante alzò la frusta, ma il suo sguardo incontrò quello dell’uomo che prima lo aveva scaraventato in terra.

– Dai! – esclamò ridendo. – Sei colpi soltanto! Che ci vuole?

Il sorvegliante alzò di nuovo la frusta, ma non riuscì a sferrare il colpo. Lo sguardo dell’uomo lo infastidiva. Si girò dall’altro lato alzando il braccio per colpire, ma nuovamente si trovò davanti l’uomo. Lanciò con gli occhi un appello al sovrintendente. Questi alzò una mano e dagli angoli delle strade che confluivano nella piazza, si mossero i guardiani.

Una decina. Si avvicinarono al sovrintendente e attesero la nuova mossa dell’uomo. Anche questi li aveva visti, ma non poteva, o non voleva, tirarsi indietro proprio ora.

Il forestiero, al bar, era salito sul tavolino per vedere meglio.

– Signore – mormorò – aiutalo tu, perché ora lo pesteranno come uva.

Uno dei guardiani si avvicinò all’uomo.

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– Ehi, se tu sei così… così…

Non riusciva a trovare la parola giusta e cominciò a confondersi. Voleva una scusa, una scusa valida di fronte alla gente, una scusa che gli consentisse di colpire con l’approvazione di tutti.

– …così cristiano – gli suggerì l’uomo sorridendo.

– Già, cristiano! – Il guardiano si riprese. – Allora, se sei cristiano dovresti porgere l’altra guancia…

Sghignazzò. Era felice di aver trovato una battuta così intelligente. L’uomo gli si avvicinò.

– Ecco la mia guancia – disse.

Il pugno lo fece traballare. Un filo di sangue cominciò a uscirgli da un angolo della bocca.

– Hai detto bene, fratello – disse a voce alta. – Cristo ha detto: porgi l’altra guancia. E io l’ho fatto. Ma mica ha detto: così la dai vinta a dei mascalzoni! Eh, no! Questo non l’ha detto, per cui…

Si scagliò con tutto il suo peso sull’uomo tempestandolo di pugni. La folla sembrò animarsi quando vide il guardiano crollare a terra. Gli altri sorveglianti accorsero, misero in mezzo il ribelle, qualche colpo di sfollagente e poi se lo passarono come un pallone, respingendolo ognuno verso l’altro con pugni e calci. L’uomo crollò a terra.

Il sovrintendente fece un cenno, poi dichiarò: – La Compagnia non può tollerare che qualcuno si intrometta con la violenza nel suo rapporto con i propri dipendenti. Chi lo fa, viene punito. Portatelo al campo. Ha detto che lavorerà una settimana per la Compagnia; l’ha detto davanti a tutti.

Voi siete testimoni… E riprendiamo: sei colpi di frusta a Tapeque… poi l’appello.

La gente abbassò il capo. Il vecchio vicino al forestiero mormorò: – E così sparirà anche lui.

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– Perché?

– Alla Compagnia non piace la gente come lui. Dà fastidio e loro sanno come liberarsene.

– Ma nessuno dice niente?

Il vecchio guardò per un attimo in viso il forestiero, poi, riabbassando la testa, mormorò: – E a chi?… A chi?

Per tre giorni il forestiero, così ormai lo chiamavano a Pura, gironzolò per la cittadina chiedendo del prete. Ma ogni volta la persona interrogata lo fissava stupita per un attimo, poi, abbassando il capo, farfugliava: – Non so… non so niente.

Non l’ho più visto.

Era chiaro che avevano paura, ma di chi? Andò al commissariato e domandò notizie del cura.

– Ha bisogno del prete? – chiese il sergente.

– Vorrei conoscere il cura, semplicemente.

– Provvisoriamente è fuori zona.

– Non sa dove è andato?

– Fuori zona… fuori zona… – il sergente aveva una voglia matta di fare lui delle domande e scoprire così chi fosse quel petulante forestiero che andava in giro a chiedere solo del cura. Ma, e se era un giornalista, come qualcuno mormorava? E se era un ispettore del governo mandato a controllare?

Meglio mostrarsi cortesi. Sperava di essere presto trasferito in una cittadina lontana parecchie miglia dalla foresta e non voleva perdere l’eventuale opportunità mostrandosi curioso o abusando della sua autorità. Tentò di aggirare l’ostacolo. – Se vuole, posso chiedere al commissario e…

– Oh, no, non disturbiamo chi è sicuramente oberato di lavoro – e così dicendo il forestiero si allontanò. Non voleva incontrarsi con il commissario. Questi poteva chiedergli i documenti e lui non voleva far saper che… Era stato inviato a indagare e per sapere la verità doveva rimanere il più possibile 35

in incognito. Rientrando in albergo, avvertì il padrone che si sarebbe fermato fino al sabato e poi avrebbe lasciato la stanza.

– Riparte? – domandò l’uomo che moriva dalla curiosità di saperne di più sul suo cliente. Aveva persino frugato con discrezione nella valigia del forestiero ma non aveva trovato altro che qualche capo di biancheria e alcuni libri, e questi scritti anche in una lingua straniera. Non aveva potuto frugare nello zainetto, perché l’uomo lo portava sempre con sé.

– Lascio la stanza – precisò il forestiero.

– Beato lei che se ne va da quest’inferno!

– Un inferno che le sta bene, però – commentò fissandolo negli occhi.

L’albergatore rimase un momento interdetto. Che cosa intendeva dire quell’uomo? Che cosa sapeva di lui? Si riprese e rispose: – Già… però, che vita! Sempre le stesse facce, le stesse donne… e questo odore di foresta che penetra ogni cosa. Caldo di giorno, freddo di notte…

– Ce n’è abbastanza per lamentarsi – l’interruppe il forestiero – Ma c’è chi sta peggio.

– Oh, certo! Ma se guardiamo chi sta peggio, non si cambia mai.

Il forestiero non rispose.

Il proprietario brontolò ancora un po’, poi, vista l’indifferenza dell’ospite, tacque. Ma quale fu la sua sorpresa quando la sera il forestiero lo invitò a cenare con lui.

– È mio ospite – precisò – per cui pagherò la sua consumazione.

Sedettero a tavola e, dopo aver brindato alla reciproca salute, i rapporti si fecero più cordiali.

– Come sai mi chiamo Julio. Ho bisogno di alcune informazioni. Devo fare un giro dentro la grande madre…

– La grande madre è enorme.

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– Sì, ma se sai dove ha la mano, non è poi difficile trovare il mignolo.

– Ora sì che ti riconosco! – esclamò l’oste soddisfatto. – Sei un cercatore. Ti chiedo scusa. Ho dubitato di te. Ho pensato che fossi un ispettore del governo, qui tutti lo pensano…

E dove hai trovato la prima pepita, Julio? Mi interessa, sai, mi interessa molto. Deve essere fantastico trovare l’oro così!

– La mia prima pepita… – sembrava che Julio pescasse i ricordi nel tempo lontano – …sì, era un bel sassetto… stavo nella zona dei Jíbaros, allora… lungo il fiume Napo…

– E poi?

– Mi sono imbattuto in una zona di ricerca della Compagnia e ho dovuto sgombrare. Loro non scherzano.

– Cercavano oro?

– Non credo. Petrolio, forse.

– Forse gomma. Loro ora sono interessati solo alla gomma… Il caucciù è il loro oro. E non fanno nemmeno fatica a trovarlo, tanto c’è sempre gente che lo cerca per loro e si ammazza di fatica gratis.

– Gratis?! Come sarebbe a dire?

– Sarebbe a dire che quando la Compagnia ha individuato una zona di raccolta chiede alla gente di andare a lavorare.

Dà forti anticipi… no, non soldi, ma merci, la casa, persino il frigorifero… Il tutto si paga lavorando. Il fatto è che più nessuno riesce a sdebitarsi; anzi, il debito aumenta sempre invece di diminuire.

– Come può aumentare? Se uno lavora…

– Pensaci bene: tu non ricevi mai denaro, puoi comprare allo spaccio, ma solo allo spaccio della Compagnia, con i buoni della Compagnia. E allo spaccio tutto costa di più, molto di più… così si va avanti fino a che ce la fai. Mica stupidi, quelli!

– E tu?

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– Io sono autorizzato da loro: gestisco lo spaccio.

– Perché non scappano?

– Scappare?! Una volta è successo che tutti gli uomini si ribellarono e al sabato non portarono un grammo di gomma.

Lo sai che fecero i due «becchini»?

– Chi sono?

Abbassò la voce, si guardò attorno e poi bisbigliò: – …I «signori in nero». Quelli prendono la percentuale dalla Compagnia, così più gomma estraggono, più incassano. E che vuoi che gli freghi delle donne, dei bambini… hanno bisogno di mano d’opera e che ognuno renda al massimo.

Inoltre lo Stato gli manda i prigionieri, per cui…

– Che fecero i due becchini?

– Sottovoce, amico, sottovoce! Gli uomini non portarono la gomma e loro fecero bruciare tutto il villaggio. Raso al suolo, così tutti i naturales furono costretti a venire a Pura, tutti a Pura. Da quella volta i due hanno stabilito la quota del villaggio: duemila chilogrammi alla settimana. Ora, fino a che i raccoglitori sono più di quattrocento, tutto funziona, ma quando il numero diminuisce, iniziano i guai. Oggi la situazione è abbastanza buona: sono arrivati molti prigionieri… li hai visti? quelli con il camisaccio grigio e gli zoccoli di legno… ma muoiono come mosche. Non sono abituati alla foresta. Così alla gente non viene perdonato il minimo scarto sul peso. Oggi come oggi, ogni cauchero deve portare cinque chili, se no…

– La frusta. Ma fin dove vanno a raccogliere? È questo che mi interessa.

– Non conosco i confini, ma te lo farò sapere. Ho amici tra i sorveglianti.

– Grazie… Lo sai che mi ha colpito di Pura?

– Non dirmi l’albergo! – rise il padrone.

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