Futebol

PREFAZIONE

di Sócrates Brasileiro

Sono assolutamente incantato – in tutte le accezioni della parola – dalla passione. È lei a guidarci attraverso l’ignoto come un comandante esperto; i mari in burrasca non ci fanno paura se li affrontiamo con la follia dell’amore. Di tutti i popoli della Terra, nessuno ama e si innamora quanto il mio. Siamo circondati dall’eccesso, dalla felicità, dalla spontaneità e dalla creazione. L’espressione di speranza sul volto è il nostro segno caratteristico, anche di chi nella vita non ha mai ricevuto il minimo vantaggio dalla società. Siamo fermamente convinti che costruiremo un mondo nuovo e una umanità meravigliosa, senza museruole che possano portarci via la libertà e senza fruste che cerchino di spaventarci. E senza ignoranza, che ci farebbe diventare gusci vuoti immersi nel torpore.

Il nostro popolo è nato schiavo e si libera ogni giorno levando in alto la propria voce in cerca della verità. La sua verità. Verità che trova la propria forza in una cultura incancellabile, poiché nasce dall’anima, dall’aura, dal sorriso, e nella quale bianchi e indigeni, neri e poveri, giovani e immigrati si deliziano dei piaceri della vita. E quali piaceri! Un popolo che sa cosa vuole anche se non sa come ottenerlo. O invece sì?

Le risposte che cerchiamo richiedono una cura e una attenzione speciali Siamo un popolo fatto di migliaia di volti e migliaia di gesti. Un popolo che combatte per preservare la propria sto9

ria contro tutto e contro tutti. Un popolo furbo, vanitoso e felice che, con la naturalezza di chi è spensierato, sa fare un ottimo uso delle meraviglie naturali che gli stanno intorno.

Un popolo che ama tutto ciò che lo circonda e che da ogni secondo sa trarre la saggezza di una vita intera. Un popolo che ama il calcio.

Il calcio è uno sport fatto di spontaneità e acume, opulenza e libertà, e sono convinto che faccia parte del nostro patrimonio genetico come la danza. Ma anche il calcio dovrebbe essere una danza. Una dose di pace.

Alex Bellos, con la pazienza propria del saggio e l’affascinata curiosità dello scienziato, ci mostra, con una chiarezza incontestabile, il nostro volto e la nostra anima. Proprio come in un «teatro della vita», nel quale osserviamo e discutiamo la nostra quotidianità senza farci coinvolgere dai suoi aspetti banali, questo «neobrasiliano» – incantato e incantatore – viaggia attraverso la nostra immensità per scoprire chi siamo e perché. E raggiunge l’obiettivo, con sagacia e una sensibilità rara.

São Paulo, 2003

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INTRODUZIONE

Il calcio approdò in Brasile nel 1894. Il «rude sport inglese» ottenne un successo inaspettato. Nel giro di qualche decennio diventò il più forte simbolo di identità brasiliana. La Nazionale, come si sa, ha vinto più Coppe del Mondo di qualunque altra squadra. Questo Paese ha anche prodotto Pelé, il più grande giocatore di tutti i tempi. Ma soprattutto, i brasiliani hanno inventato uno stile vivace e armonioso che ha fissato un traguardo irraggiungibile per il resto del mondo. Gli inglesi lo chiamano «il bel gioco». I brasiliani lo chiamano «l’arte del calcio» o «il calcio artistico». Qualunque termini si usi, nel panorama sportivo internazionale non c’è nulla di così affascinante.

Arrivai in Brasile nel 1998. Non mi andò poi tanto male.

Diventai un cronista sportivo. Era un lavoro che avevo sempre desiderato fare e, dal punto di vista giornalistico, il Brasile è irresistibile. È un Paese colorito e vario. Fra i suoi 170 milioni di abitanti ci sono più neri che in qualunque altro Paese eccetto la Nigeria, più giapponesi che altrove al di fuori del Giappone, come pure 350.000 indios, comprese forse una dozzina di tribù con le quali non siamo ancora entrati in contatto. Il Brasile è il più grande produttore al mondo di succo di arancia, caffè e zucchero. È anche una nazione industrializzata. Curiosamente, è uno dei principali costruttori di aeroplani e vanta una tradizione artistica impressionante, 11

specialmente in fatto di musica e di danza e, naturalmente, hanno un gran calcio.

Al mio arrivo andai subito a veder giocare la Nazionale.

Giocava al Maracanã, la casa spirituale del calcio brasiliano, ergo mondiale. Quando i giocatori uscirono in fila sul campo, balzammo in piedi a fare il tifo. Il rumore assomigliava a una tempesta elettrica, un coro entusiasmante di petardi, un rullo di tamburi e di grida sincronizzate. Fu la conferma di ciò che avevo sempre saputo, che il calcio brasiliano è molto di più di un «bel gioco». Il Brasile lo si ama per lo spettacolo. Per i loro tifosi così spensieratamente felici. Perché chiamiamo i loro fuoriclasse con il nome di battesimo – come se fossero amici nostri. Perché vedere la Nazionale trasmette un senso di armonia razziale che sembra utopia. E per il mitico giallo oro delle loro magliette.

Amiamo il Brasile perché è il Braziiiiiiiiiil.

Essendo un fanatico dello sport, cominciai immediatamente a interessarmi alle società nazionali. Leggevo le pagine sportive, andavo regolarmente alle partite e scelsi la mia squadra. Credo che seguire il calcio sia il modo più efficace per integrarsi nella società brasiliana. Come giornalista, ero sempre più affascinato dal modo in cui il calcio influenzava lo stile di vita. E se è vero che il calcio riflette la cultura, e io penso di sì, allora cosa ci sarà mai in Brasile che rende i suoi giocatori e i suoi tifosi così tanto… brasiliani?

Sarà l’argomento di questo libro.

Per cominciare volevo sapere come aveva fatto un gioco inglese in poco più di un secolo a plasmare così decisamente le sorti di una nazione tropicale. Qualcosa nato giusto come gioco di squadra, come aveva potuto diventare il principale fattore unificante della quinta nazione al mondo per grandezza? Che cosa intendono dire i brasiliani quando 12

affermano, con orgoglio sciovinista, che loro vivono nel «Paese del calcio»?

Se è vero che il calcio è lo sport più popolare al mondo, e se il Brasile è la nazione calcistica più forte, allora vuol dire che una reputazione del genere ha conseguenze uniche e di vasta portata. Credo che nessun altro Paese venga associato a uno sport come il Brasile al calcio.

La ricerca mi ha portato via un anno. Ho percorso, entro i confini nazionali, una distanza equivalente alla circonferenza della Terra. Ho intervistato centinaia di persone. Per primi, i «soliti noti»: giocatori ed ex giocatori, presidenti di società, arbitri, osservatori, giornalisti, storici e tifosi. Poi, nel momento in cui ho voluto davvero scavare sotto la superficie: preti, politici, travestiti, musicisti, giudici, antropologi, tribù indie e reginette di bellezza. Sono arrivato a intervistare un uomo che si guadagna da vivere facendo la lettura della palla, stelle del rodeo che giocano a calcio con i tori, un fan dall’aspetto così singolare che vende spazi pubblicitari sulla sua maglietta, e ho scoperto un complotto segreto in cui erano coinvolti Sócrates e il colonnello libico Muammar Gheddafi.

Non mi interessavano i «fatti», tipo i risultati o le formazioni di gioco. Del resto il Brasile non si spreca con i fatti; è un Paese costruito sui racconti, i miti e le dicerie. Si fa più affidamento sulla parola data che su quella scritta (una delle loro abitudini che ti fa più infuriare, specialmente se sei un giornalista). Mi interessavano le vite delle persone e le loro storie.

Il risultato, mi auguro, è un ritratto contemporaneo del più grande Paese latino-americano visto attraverso la sua passione per il calcio.

Il Brasile è il Paese dove gli impresari di pompe funebri propongono bare con stemmi calcistici, dove le piattaforme 13

petrolifere sono provviste di campi di calcetto e dove una società calcistica ti può far eleggere in Parlamento.

Ho cominciato la mia ricerca a metà del 2000, esattamente mezzo secolo dopo che in Brasile si era giocata la Coppa del Mondo e trenta anni dopo che il Brasile aveva vinto, in modo così spettacolare, il titolo per la terza volta. Un buon punto di partenza per una riflessione sul retaggio dell’«arte calcistica».

Non dico che sia stata colpa mia, ma nel giro di poche settimane il calcio brasiliano precipitava nella sua più seria crisi di sempre. La Nazionale perse una serie di partite e il Parlamento avviò due inchieste.

La situazione andava di male in peggio. Il Brasile continuava a perdere e i parlamentari gettavano luce su un mondo sommerso corrotto. Per un momento sembrò che potesse davvero accadere l’inimmaginabile – che il Brasile non si qualificasse per i Mondiali.

Mi spiego la crisi come il riflesso di tensioni più generali.

A partire dagli anni Cinquanta, quando cominciò a giocare Pelé, il Brasile si era trasformato da Paese prettamente rurale e analfabeta in Paese urbano e alfabetizzato. Era passato attraverso vent’anni di dittatura e stava imparando, anche duramente, come creare una nuova società.

Nel frattempo, il mondo è cambiato. Anche il calcio è cambiato. L’unico punto fermo sembra essere la magia che noi attribuiamo ancora alle maglie giallo oro del Brasile.

Ho seguito da vicino le inchieste parlamentari. Volai a Brasilia per ascoltare le udienze. Mi trovavo lì quando Ronaldo fu chiamato a testimoniare. Fu interrogato per spiegare ai deputati come mai il Brasile fosse arrivato soltanto secondo ai Mondiali del ’98. Il giocatore aveva risposto a chi lo interrogava «ci sono molte verità». Disse che avrebbe detto «la sua» e che sperava di accontentarli. Ma se poi quella fosse o 14

meno «la vera verità», be’, spettava a loro stabilirlo. Lo scarabocchiai immediatamente sul mio taccuino. Pensai che si trattasse della più straordinaria osservazione che un giocatore avesse mai fatto senza rendersene conto.

Il Brasile ha molte «verità». Questo libro è la mia ricerca della «vera verità» del calcio brasiliano. Mi auguro che vi accontenti.

Alex Bellos Rio de Janeiro

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