CINQUE ANNI PRIMA
Claudia è una donna carina, niente di più. I suoi capelli sono lisci e neri, un perfetto Pantone Nero C, un sogno sivigliano. Il viso è lungo e sottile e finisce con il mento a punta, come una strega. Ha le orecchie leggermente a sventola e la bocca stretta, l’ho notato subito la prima volta che ci siamo baciati. Dico che è carina perché per restare oggettivo devo aggrapparmi al giudizio originale, quello di quando ci siamo incontrati, prima che i sentimenti lo annebbiassero. All’epoca facevo il copywriter in un’agenzia pubblicitaria di Bologna in cui ero finito per caso. A mia madre commissionavano traduzioni dall’italiano all’inglese (allo scozzese, mi correggerebbe) e parlò di me al direttore, gli disse che facevo un master in marketing in una «prestigiosa» università inglese, che ero madrelingua inglese e che al liceo prendevo sempre otto in letteratura. Il direttore mi propose uno stage non retribuito e il primo giorno di lavoro dovetti solo chiedere quale era la mia sedia. Scrissi qualche brochure e al capo il mio stile non dispiacque, ero metodico e affidabile, e tenevo i contatti con i creativi della rete internazionale. I miei slogan non impennavano le vendite e non venivano ripetuti dagli adolescenti, ma furono sufficienti a farmi passare inosservato per un paio di anni, durante i quali conobbi Claudia, che era appena arrivata dalla Sardegna. Ce la presentarono come una giovane e talentuosa art di-
rector appena diplomata, ma forse non aveva impressionato così tanto, dal momento che la misero a lavorare con me. Fu un disastro. Si aspettava testi sagaci, pungenti, che facessero voltare le teste e ribollire gli spiriti, qualcosa di controverso, che generasse scandalo, provocasse dibattito, e io, invece, avevo uno stile pacato, didascalico. Non me l’ha mai detto, ma il suo sguardo aveva una sincerità ammirevole: senza un copywriter all’altezza sentiva che i suoi lavori perdevano slancio. Invece al direttore creativo la dissonanza dei nostri stili piaceva, quindi ci lasciò insieme. Lavorammo in coppia per un mese, poi un venerdì sera facemmo tardi per consegnare la campagna di una catena di negozi di biancheria e la invitai a mangiare qualcosa. A Bologna non conosceva nessuno, dunque, nonostante la scarsa sintonia al lavoro, accettò e cadde nella rete. La portai dal Nonno, sui colli di Bologna, ad assaggiare i piatti tipici, crescentina e affettati, e ci sbronzammo un po’. Mentre era in bagno trovai nove chiamate e tre messaggi di un amico sul cellulare, infuriato perché gli avevo dato buca senza avvertirlo. La stavo riaccompagnando a casa, i portici di via San Felice ci sfilavano ai lati. Mi indicò di svoltare in via Riva di Reno. Le chiesi se era mai stata in piazza Santo Stefano la notte e lei mi chiese «Perché, cosa c’è in piazza Santo Stefano la notte?» e io tirai dritto fino in fondo a via San Felice. Bevemmo una bottiglia di vino bianco seduti sotto i portici, fra le belle luci delle Sette Chiese, i colori caldi della Bologna medioevale, i cani dei punkabbestia che scorrazzavano e gli Erasmus che facevano festa. Mi raccontò che temeva l’inverno a Bologna perché era abituata al clima della Sardegna, che andava matta per le lasagne e che veniva da una famiglia della piccola nobiltà di Cagliari, decaduta. Suo padre, il marchese, gestiva un
negozietto di alimentari bio e nessuno lo chiamava «signor marchese» per la strada togliendosi il cappello come facevano con il nonno di Claudia. Dopo un mese in cui ci eravamo scambiati opinioni solo su foto di modelle in biancheria intima e sugli slogan per attirare le cougar nei negozi del nostro cliente, si aprì, ma era già mezza ubriaca. Mi raccontò che a diciotto anni sognava in grande. Dopo generazioni di marchesi adagiati sul patrimonio familiare, prima dell’esame di quinta superiore già sfogliava brochure universitarie per studiare grafica pubblicitaria a Londra o New York. Aveva anche vinto una borsa di studio, ma improvvisamente sua sorella si ammalò di un tumore al seno. Non se la sentì di allontanarsi dalla famiglia, rimase sull’isola e nascose i suoi sogni in un’università privata di Cagliari. Anni dopo, mi confessò, si era resa conto che quella decisione poteva costarle la carriera. L’inizio è la tappa più delicata, sulla griglia di partenza si è in tanti, ma solo pochi arriveranno al traguardo. Rischiava di essere travolta dalla mischia e mi confidò di non essere più pronta a mettere in pericolo i propri sogni per i bisogni degli altri. La invitai a un concerto jazz alla Cantina Bentivoglio. Non vado pazzo per il jazz ma fa sempre colpo. Una donna che, invece di andare a casa, ti segue in un altro bar, ti vuole. Le lasciai scegliere il vino senza polemizzare sul giovane Sangiovese barricato, e verso le due salimmo nel mio appartamento nella strada accanto. Ci svegliammo insieme il sabato, prendemmo il caffè, facemmo l’amore di nuovo, senza chiedermelo scelse una camicia dal mio armadio, la portai a mangiare le lasagne verdi alla Drogheria delle Rose e si fermò da me anche la seconda notte. Domenica mattina passò a indossare anche la
mia biancheria intima, prima del giro turistico della Bologna medioevale. Alla fine della giornata volle assaggiare la mia cucina, di cui mi vantavo tanto. Le impastai gli gnocchi di patate davanti agli occhi e glieli feci al gorgonzola, mandorle e radicchio, gratinati al parmigiano. Alla fine della serata non avevamo voglia di uscire dal calduccio delle coperte e si fermò a dormire da me per la terza notte consecutiva. Il lunedì mattina si vestì con un paio dei miei boxer, una mia camicia, un paio dei miei jeans risvoltati sia in fondo che in vita, andammo in ufficio insieme e lei chiese al direttore di separarci come team creativo perché stavamo assieme, adesso. Normalmente un’affermazione così sarebbe affrettata ma, paradossalmente, l’assertività con cui lo disse mi rilassò, ed ero stato talmente bene durante il weekend che decisi di non pensarci troppo. Due anni dopo condividevamo il mio bilocale in via Mascarella ed eravamo felici. Era una notte di «inizio secolo», come le chiamavamo noi. Con il linguaggio segreto di una coppia ci dicevamo: «Serata di inizio secolo?» Sapevamo entrambi a quale secolo ci stessimo riferendo: niente televisione, niente giornali, niente internet, niente luci elettriche, al massimo un po’ di musica, ma tanto vecchia da sembrare un carillon. Stasera si cena al nostro ritmo, e poi è naturale fare l’amore quando il mondo non ti interrompe. Quella domenica avevo trascorso il pomeriggio a farle le lasagne e un riso al latte con caramello, pinoli e mandorle grigliate per dessert; lei leggeva sul divano, ogni tanto mi mandava un bacio e quando vedeva che ero più infarinato che mai rideva dicendo che sembravo un pupazzo di neve. Avevamo finito di cenare e mi fissava maliziosa ruotando il dito sul bordo del calice. Credevo che avesse bevuto un po’ e si sentisse arrapata.
Le passai dietro e le accarezzai il seno mentre camminavo verso il divano. Mi distesi supino, lei mi raggiunse, piegò le ginocchia per mettersi al mio livello, mi prese il viso fra le mani e mi baciò. «Ti amo così tanto», mi disse. «Dimostramelo», risposi invitandola a gesti a saltarmi addosso. Lei rise ma non si lasciò distrarre. «Vuoi sposarmi?» sussurrò. Panico. Mi svegliai di soprassalto nel mondo degli adulti. La risposta era «Sì», accidenti, «SÌ!» Però c’era qualcosa che stonava, qualcosa che non era stato fatto come doveva essere fatto. «Oddio, avrei dovuto essere io a…» la frase mi morì in gola. «E poi non ho neanche un anello…» «C’è tempo, amore, intanto pensiamo a questo», mi interruppe. «Però lo voglio, l’anello», aggiunse, facendo finta di scherzare. L’anello lo ebbe il giorno dopo, perché erano mesi che giravo per gioiellerie, antiquari e siti internet per trovare il pezzo giusto con cui farle la proposta. Avevo ormai una cultura semiprofessionale di scale di purezza del diamante e densità dell’oro, ma non riuscivo a decidermi e finalizzare. Tuttavia, siccome ero già stato abbastanza ridicolo a farmi chiedere la mano, andai risoluto nella gioielleria più vicina e mi feci abbindolare dalla commessa a comprare un solitario più caro di quello che mi sarei potuto permettere. «È bellissimo», disse Claudia quando aprì la scatolina e gli occhi le si inumidirono. «Ero sicuro che ti sarebbe piaciuto.» Capito? Si-cu-ro.
Un anno dopo ci sposammo e come viaggio di nozze ci trasferimmo a Londra dove l’agenzia pubblicitaria Ogilvy le aveva fatto un’offerta di lavoro.
IL TRITTICO
Cinque anni dopo festeggiamo l’anniversario di matrimonio al ristorante Saint Paul di Bruges, in Belgio, litigando a bassa voce in mezzo agli altri tavoli. «È un colabrodo.» «Claudia, è impossibile che non ci siano allarmi…» «Si vedrebbero. La serratura ha duecento anni. La porta viene giù con calcio.» «Ma che cosa stai dicendo? Per favore, ma come…» «Anche a te piaceva quel quadro!» «Anche La Dama con l’ermellino mi piace ma non è che…» «Se vuoi qualcosa, prendilo!» mima con la mano il gesto di afferrare qualcosa. «Claudia, parla piano… Stai scherzando, vero?» Prego che scoppi a ridere perché ci sono cascato. «Devi smettere di preoccuparti di tutto», dice. «È… è… un’avventura, un’avventura insieme. Siamo sempre stati alle regole, per una volta…» «Ma ci pensi ai nostri genitori quando gli dicono che siamo stati arrestati a Bruges? In ufficio cosa gli dici?» «Uno», alza il pollice destro e lo scuote, «non ci scoprono. Lo mettiamo in un deposito e fra un anno veniamo a riprendercelo. Non era nemmeno nella guida, non lo cercherà nessuno. Giusto?» Un secondo di silenzio di assestamento. «Giusto», si conferma. «Due», si stira l’indice della mano
destra all’indietro, «la vita è la nostra e la viviamo come ci pare!» «Sei fuori di testa.» «E tu te la fai nelle mutande.» L’umiliazione della propria moglie che ti dichiara vigliacco innesca un ingranaggio corporeo inarrestabile in cui la mandibola si contrae, l’adrenalina pompa, i pensieri vorticano e la carne suda. «Godiamoci il weekend, è il nostro anniversario», dico disperato, ma lei non mi asseconda. «Ti rendi conto di quello che stai dicendo?» ora ringhio anch’io, ma mi controllo. È veramente dura litigare a bassa voce. «Vuoi rubare un dipinto del Cinquecento da una chiesa, porca puttana!» «Non siamo ladri, mica lo rivendiamo. Siamo… siamo… appassionati.» Stiamo parlando di un trittico che raffigura il calvario di Cristo e che misura più o meno un metro quadrato, custodito nella chiesa di Gerusalemme di Bruges e opera di un anonimo maestro del Rinascimento fiammingo. La chiesa fu costruita nel Sedicesimo secolo da Jacques Adorno, esponente di una famiglia di mercanti delle Fiandre di origine genovese, nonché incluso nel trittico. Jacques aveva fatto un pellegrinaggio a Gerusalemme e, una volta tornato a Bruges e avendo soldi a palate, aveva commissionato una replica perfetta, di dimensioni più piccole, del Sepolcro di Gerusalemme. Claudia e io, lo ricordo, di lavoro facciamo i creativi pubblicitari. La spiegazione è per contestualizzare e chiarificare, al riparo da ogni ragionevole dubbio, che è lei la pazza scatenata. Finiamo la cena in silenzio, ascoltando lo stridio dei coltelli contro la ceramica dei piatti e il rumore della nostra masticazione.
«Torniamo in hotel?» dico. Sotto il tavolo le accarezzo il ginocchio. Facendo l’amore le passerà. Mette la carta di credito nel piattino, paga, la aiuto a indossare il cappotto e usciamo. In un secolo più rispettoso della mascolinità lei mi avrebbe allungato delle banconote sotto il tavolo e io le avrei consegnate al cameriere. Arrivati davanti alla macchina presa a nolo vado verso lo sportello del conducente quando lei mi acchiappa il braccio. «Guido io. Con te ci superano anche i pedoni.» Trattengo il sangue nelle vene, stringo i pugni e chiudo gli occhi. Quando li riapro il mondo riparte senza che abbia detto o fatto nulla di cui pentirmi. Saliamo in macchina, lei guida nervosamente e non mi chiede mai la direzione. «Lo so dove stai andando», dico. «Che ore sono?» «L’ora di andare in hotel.» «Che ore sono?» «Le undici e mezzo.» «Troppo presto, facciamo un giro.» «Torniamo in hotel, ci mettiamo sotto le coperte…» «Hai paura di tutto, cazzo! Se vuoi qualcosa, prendilo!» Se vuoi qualcosa, prendilo è il corso motivazionale che Claudia ha fatto in prospettiva di promozioni lavorative e che poi ha imposto anche a me. Lo dice in continuazione. Prendere senza chiedere il permesso è maleducazione, ecco perché quelli di successo sembrano anche degli zotici. «Va bene, torniamo in hotel», sibila. In camera si spoglia, entra in bagno e apre il rubinetto della doccia. Faccio finta di leggere una rivista e, quando il rumore dell’acqua cessa, la trovo davanti allo specchio con un asciugamano avvolto sulla testa a turbante; metto il den-
tifricio sugli spazzolini, le faccio un sorriso dallo specchio allungandole il suo, mi avvicino e abbracciandola da dietro le slego il nodo dell’accappatoio. «Sono stanca», mi afferra il polso, mi spinge via ed esce dal bagno. Decido di non rivolgerle più la parola per rappresaglia, ma non ho modo di farle pesare il mio silenzio, perché va a letto subito. La mattina dopo ci svegliamo verso le nove. Durante la colazione chiacchieriamo affettuosamente nonostante le parli con un tono prudente per verificare che il cattivo karma sia evaporato. Sorride, spennella di marmellata una fetta di pane e mi chiede se posso portarle un altro croissant mentre ricarico la tazza di caffè. Quando le lascio il croissant sul piatto mi attira dolcemente a sé, mi prende la nuca e mi bacia. Si è resa conto di essersi comportata da pazza ieri notte, e questo è il suo modo di chiedere scusa. La bacio ma preferirei una scusa in parole, vorrei che venisse a patti con il proprio orgoglio, almeno qualche volta. Non è vero che un gesto vale più di mille parole, ogni tanto una parola sofferta varrebbe più di mille baci facili. Finita la colazione torniamo in camera per lavarci i denti e ci attardiamo perché troviamo la schiuma del dentifricio ai lati della bocca molto erotica. Passiamo una splendida giornata, forse un po’ fredda, nonostante sia solo settembre, nel centro di Bruges. Pranziamo in un piccolo pub molto antico, la guida dice che è il più antico di Bruges, tutto in legno, con decorazioni dorate e appesi alle pareti grandi dipinti cinquecenteschi che Claudia non chiede di rubare per il nostro salotto. Scegliamo entrambi la stessa birra artigianale, spumosa, densa, saporita,
e una zuppa di patate e asparagi per riscaldarci, e ci sediamo nell’angolo di un lungo tavolo di legno massiccio scuro. Il sole cala tardi in settembre ma impallidisce presto e verso le cinque propongo di finire la giornata in un pub che ha una romantica terrazza su un incrocio di canali, a goderci altre birre belghe. Lei mi sorride, accetta, ma chiede di tornare alla chiesa di Gerusalemme per vedere un’ultima volta il trittico per cui abbiamo litigato ieri. Andiamo, penso, digli addio a quel trittico. Le regalerò un bel quadro appena tornati a Londra. È l’ora di chiusura, la bigliettaia chiude a chiave la finestrella dopo averci dato il resto. All’ingresso cediamo il passo a due coppie anziane che escono facendo attenzione a non inciampare sul gradino della porta. Appena dentro si piazza davanti al trittico e annuisce da sola, come ipnotizzata. Le sono accanto. «È meraviglioso», sussurra. «Davvero molto bello», lo sventurato rispose. Continuo la visita della chiesa. Il guardiano è uscito per l’ultima ispezione del giardino. Claudia mi raggiunge a passi veloci. «Vieni all’una», sussurra mentre mi marcia di fianco e poi vira verso un camino, sposta la grata di metallo che ne copre l’imboccatura, si stende per terra e se la tira contro per nascondersi. «Che cosa…?» sibilo. «The church is now closed. Please make your way to the exit.» Si sente l’accento fiammingo della voce del guardiano all’entrata. «Ti prego vieni fuori», dico con voce più bassa. «All’una.» La decisione giusta sarebbe quella di spostare la grata e
tirare fuori Claudia di forza. Scoppierebbe un casino, forse il guardiano si accontenterebbe di darci una strigliata, forse finiremmo alla stazione di polizia, ma almeno non avremmo ancora rubato niente. Prendo un lungo respiro e cammino lentamente verso l’uscita. Fisso il guardiano negli occhi per molti secondi, sperando si ricordi che ero in compagnia, mi chieda dove è Claudia e perlustri approfonditamente la chiesa. Ma non succede. Prima di varcare la soglia studio il catenaccio della porta che può essere chiuso dall’esterno e facilmente aperto dall’interno. Mentre io ammiravo le finestre decorate, Claudia esaminava le serrature. Una volta che mi hanno chiuso il cancello del giardino della chiesa in faccia mi nascondo in un pub. Mi scolo due pinte in mezz’ora e penso che sto valicando quel limite in cui vorrò sempre di più alcol e mi scorderò dell’esigenza di restare lucido. Come quando mi riprometto di tornare a casa presto perché la mattina ho una riunione importante e dopo tre mojito l’importanza della riunione si affievolisce. Claudia è sempre analitica e ha certamente considerato la possibilità che non assecondi il suo piano e non mi presenti. E l’ha scartata. Devo immaginarmi cosa farei io se fossi in lei. Ecco quello che farei: non mi nasconderei dentro un camino. Giro in macchina sperando di guadagnarmi una multa, essere arrestato e non dovere rubare un trittico. Poi mi accorgo che si sta avvicinando l’ora dell’appuntamento con Claudia, quindi rallento, e inizio a guidare verso la chiesa di Gerusalemme, parcheggiando a ottanta centimetri dal muro di cinta laterale. A mezzanotte e mezzo esco dalla macchina. Piove ancora la stessa brezza umida e costante. Come capirò quando Claudia si farà viva? Forse spunterà semplicemente dal muro di cinta con il trittico sottobraccio, sgommeremo via e saremo felici
per sempre, noi e il nostro trittico, anche se in salotto non c’è spazio. Se resto troppo a lungo sotto la pioggia, posso destare sospetti, magari qualcuno dalle finestre del palazzo di fronte mi sta seguendo con lo sguardo. Devo evitare di dare nell’occhio. Mi nascondo fra la macchina e il muro di cinta e spero che, se qualcuno mi noterà, creda che sono solo un tossico. Resto in quella posizione scomoda fino all’una meno dieci, quando sento dei passi in lontananza. In fondo alla strada un gruppo di ragazzi cammina schierato e bevendo a collo dalle bottiglie. Sono bloccato fra la macchina e il muro. Man mano che si avvicinano, implodo fino a stendermi sull’asfalto bagnato e fangoso e a strisciare sotto la macchina. Mi hanno visto e mi indicano parlando in fiammingo. All’inizio sono gentili, credo che mi offrano aiuto perché pensano che non stia bene, ma poi si mettono a ridere e a darmi dei calcetti nei polpacci. Con un urlo strozzato dico «Go, go away!» ma loro non demordono e si mettono a chiamarmi come si farebbe con un cagnolino per farmi uscire dal mio nascondiglio. «Go, go away!» sibilo, e alla fine si annoiano e se ne vanno. Riemergo e cerco di ripulirmi dal fango. All’una e cinque dei fruscii provengono dall’interno del giardino della chiesa. In cima al muro di cinta spunta il viso di Claudia. «Sono qui. Ho bisogno d’aiuto», sussurra. «Ma sei scema? Vieni fuori», rispondo, ma è già scomparsa dietro il muro. Aspetto. Passano due minuti e lei riappare. «Vieni!» dice, e scompare di nuovo. «Torna qui», supplico soffocando la voce.