Erano alla quattordicesima buca del Golf di Villa d’Este, a Montorfano. Giocavano a coppie, Andrea Broni e la sua fidanzata, Carlina Oggioni, contro Max Mealli e sua moglie Luisa, sorella di Andrea. Dalla tasca posteriore degli impeccabili calzoni scozzesi Max tolse il foglietto del punteggio e lo riassunse in una smorfia ironica. «È tardi. Viene freddo. Siete indietro una barca di punti. Non sarebbe meglio piantarla lì?» Carlina guardò Andrea, Andrea rivolse le sue attenzioni alla testa del bastone, la mosse contro i fili verdissimi del tee di partenza per iniziare il back swing. Max rise, buttò alle spalle lo score, mentre Carlina si toglieva via, diretta alla partenza delle donne. Luisa raccolse il foglietto per lisciarlo e riporlo nella sacca. «Fratellino», osservò, posando la mano sulla spalla di Andrea. «Fratellino, non fare così. Il soldato non è la fine del mondo.» Questa volta con gentilezza rassegnata, e con uno sguardo di disagio per la presenza del caddie, Andrea alzò le spalle. Riuscì addirittura a sorridere quando Luisa gli sfiorò la guancia con le unghie, un gesto di antica intimità, dei tempi della comune stanza dei giochi. Intenerito la seguì, giù per il sentiero, ravvisando nelle gambe dolcemente arcuate di lei, nelle spalle un po’ curve, i suoi stessi difetti. Sorrideva, quando sentì sovrapporsi al suo sguardo quello di Max. Un’occhiata critica, quasi malevola. 11
«Povero Andrea.» Il cognato aveva ripreso l’aria ironica che pareva accompagnare le sue relazioni con un mondo costituito da pochissimi eletti e un’infinita distesa di fuori casta. «Vedrai dopo. Da sposato. Il militare ti sembrerà just an holiday.» Ribatté, d’istinto: «E allora? perché un genio come te ci è cascato?» «Rozza domanda alla Pietro Broni.» Al di là dell’apparente goffaggine, si irritò Andrea, la domanda appariva più che giustificata da circostanze sociopolitiche, quali la disoccupazione del Principe Azzurro, già comandante di Brigata Garibaldi, l’epurazione del padre della sposa, il ricco industriale Pietro Broni, e infine l’inesperienza e la docilità della sposa stessa, Broni Luisa. Appoggiato alla vertiginosa altezza del suo driver, Max lo fissava con la benevolenza di un’aquila per un lombrico. «Tu avevi nove anni, nel ’45.» «E adesso, a ventiquattro capisco qualcosa in più, e non mi vanno un certo tipo di occhiate a mia sorella.» Soddisfatto che Max si limitasse a permanere nel suo atteggiamento di deplorazione, finì di osservare: «Quelle due si sono stufate di aspettarci». Come sempre prudente, Luisa si era accontentata di un legno 3 che aveva condotto la sua palla al centro della pista, lontana dalle insidie degli alberi. Con il driver Carlina stava frustando il primo colpo. Uscì bene d’anca, ma dovette spezzare un niente i polsi, a giudicare dalla traiettoria della pallina, molto lunga ma abbastanza snivola da finire nel rough. Disgustata, precedette Luisa e i due caddies, lesti nel raccogliere la mazza abbandonata come un vecchio straccio. Alla vista di simili bassezze, Max faticava a tenersi. Domandò ad Andrea se volesse «interessare il gioco», mentre lavava la sua palla tra le vecchie spazzole di saggina, sino a 12
renderla candida e stillante quasi fosse di cocco. Conclusero per un colpo a buca sulle ultime quattro e diecimila lire di scommessa: «un deca». Finalmente soddisfatto di avere ridato interesse a quel pianto di giornata, Max si piazzò, socchiuse un attimo gli occhi per poi fissarli lontani e ispirati, quasi fosse a St. Andrews. Lasciò scivolare di un inch la punta della scarpa sinistra, la ritrasse di mezzo pollice, l’allineò all’altra. Controllata la statuaria immobilità dei piedi, alzò la mazza, la calò decapitando un filo di timo a quattro dita dalla pallina, lasciò passare una vibrazione di finale assestamento lungo le gambe lunghissime, ancora alzò la mazza e colpì, per un istante immobile, quasi una statua appesa al legno, il legno avvitato al cielo grigio, mentre la pallina rimbalzava ormai ai bordi della piazzola, li superava, rotolava dolcemente per smorire vicinissima alla buca. Solo allora, memore della bassa umanità, si volse a constatare la presenza di Andrea. Andrea scelse un tee bianco, vi sistemò la pallina, assestò per bene i piedi, provò il movimento, e insoddisfatto si spostò, per rassegnarsi infine a riprender posizione. Mirò a lungo, sforzandosi di cancellare non solo i pensieri ma i sentimenti, addirittura i suoni, il suo stesso respiro. Dall’impatto uscì uno zirlo che gli parve un gemito, mentre la palla svariava a destra, s’inalberava per affondare dritta tra i cespugli di nocciòlo. «Se tu fossi più sicuro di te», ghignava Max e, quasi benevolo, «giocane un’altra. Se vuoi te la regalo.» Intento a scartocciare una nuova pallina, Andrea lo intravvide camminare via, strappando foglie ai nocciòli, canterellando, certo una delle sue maledette vecchie canzoni partigiane. Dai cespugli il suo caddie faceva gesti di comica impotenza. «Che cosa importa?» si domandò Andrea, pronto a innalzare quel piccolo fallimento a simbolo di tutta la sua vita, a proiezione dei prossimi diciotto mesi. 13
Rassegnato, piantò un altro tee, si accorse che era bianco e lo sostituì con uno rosso fiamma. Colpì senza riflettere, e in quel suo cedere ritrovò coordinazione, l’impatto riuscì ideale, la pallina si alzò e ricadde con parabola dolcissima, prossima a quella del campione. Pian piano si avviò a raggiungere gli altri. *** Le docce del Golf di Villa d’Este ricordavano, per l’ampiezza, la vecchiaia, l’incuria, quelle dei grandi palaces di SaintMoritz: aveva appena finito di imprecare all’acqua diaccia, Andrea, e già iniziava a scottarsi, che lo allontanò dal getto il richiamo di un amico, Cino Borgogna. Gli buttò il tubetto dello shampoo. Di sotto a un casco di spuma, Cino non tardò a chieder spiegazioni per l’aria cupa di Andrea: «Litigato con la Carla?» «Ho perso un deca col Mealli.» «Vai a metterti con quel pattatore lì!» E, in un dialogo in cui sottolineò l’impossibilità per un dilettante – handicap 18, d’accordo – per uno non allenato – giochi un po’ a tennis, d’accordo – ma soprattutto per un fresco laureato al termine di un ammirevole sprint – quattro fondamentali in sei mesi – ad opporsi a un professionista, Cino trovò il modo di riscaldare il cuore fin lì raggelato di Andrea. «Volevo finire in fretta, per non cominciare la vita a trent’anni», confessò, vedendosi costretto a specificare che i suoi ventiquattro, più i diciotto mesi di naja, più la gavetta aziendale, il matrimonio, la specializzazione e quant’altro, l’avrebbero fatalmente condotto a quella che gli appariva come l’inizio della fine. Di tutte quelle funeree prospettive, Cino parve ritenere soltanto la più prossima e, per lui, stupefacente: «Vuoi mica dirmi che vai a soldato?» indagò.
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«Domani.» E dove lo affrontava, il corso? Il CAR? Ma scherzava o era semplicemente matto, nell’accennare al soldato semplice? «Mio padre», spiegò Andrea, insaponandosi per la seconda volta il petto. Suo padre, continuò, affermava che non si poteva sottrarsi, nella loro posizione: «Nella nostra posizione», recitò irridendo, «si è sulla bocca di tutti». Forse per lo shampoo, Cino non avvertì l’evidente ironia. «Anche lui, dal suo punto di vista non ha tutti i torti», parve ammettere, suscitando il furore di Andrea. Parlasse per sé il Borgogna. Per i Moratti, i Pirelli, i Crespi, i Visconti e insomma per tutti gli aristocratici del sangue e del lavoro. Ma chi li conosceva, i Broni di Cadorago, milanesi da mezza generazione, stemma di dubbia moralità ottenuto grazie a stracciatissima ricerca postale? Ormai ripulito dallo shampoo Cino non pareva d’accordo. «Ti conoscono tutti quelli che leggono le tasse sul “Giorno”, i palchettisti della Scala, i soci del Giardino, le troie di Vito Emanuel e soprattutto quelli che soffrono con su le tue scarpe, quelle finto inglesi del tuo rinomato scarpificio.» Ma, alla fine di quella convincente elencazione, Cino si bloccò da solo, nuovamente incredulo. «Quel soldato semplice, non lo capisco.» E subito riprese. «Se il soldato ti tocca, per ragioni che dopo tutto ti fanno onore, allora mi parrebbe logico arrivare sino alla fine, rappresentare sino in fondo una classe dirigente che ha ormai ripreso in mano il paese. Voglio dire», aggiunse bonario, sulla grinta ironica di Andrea, «voglio dire che se dobbiamo, dovremo comandare, allora tanto vale farlo subito, farlo anche lì.» E, poiché Andrea lo osservava senza forze, le braccia ciondoloni, in uno slancio di amicizia Cino finì per ammettere: «Ma sì, lo so che hai ragione tu. Io difatti l’ho schivato. Sostegno del nonno. Proprio non ce l’avevi un nonno da sostenere?» 15
Finalmente a suo agio, in quella confessione tra uomini nudi, Andrea ritrovò un filo di buonumore: «Siamo una famiglia di patrioti, noi Broni. I soldi li abbiamo fatti calzando due generazioni di poveri fanti». Le mani alzate all’ultimo tocco di una splendida banana, Cino non l’ascoltava più. «Ci vediamo stasera dai Moneta», affermò, ancor più che chiedere. «Sì, forse sì», mormorò Andrea. *** Carlina lo aspettava al bar. Si lagnò per il suo ritardo, obiettò che un Martini le pareva meno adatto di un tè a concludere una simile giornata, convinse lo scettico barman che un sacchettino di Twinings era sufficiente per tutti e due, bastava un secondo bricco di acqua bollente. «Troppo latte», si ribellava debolmente Andrea, e Carlina allora lo investì, non gliene andava bene nessuna, era riuscito a rovinare a tutti il pomeriggio, e, già che c’erano, «a un certo punto dovrai convincerti che se una cosa è sgradevole ma obbligatoria dobbiamo farla.» «Vieni anche tu, a soldato?» Finalmente Carlina sorrise, trattandolo da scemo. Il suo caro scemo, continuò, doveva capire che le loro vite erano ormai tanto intimamente allacciate da non poterne sceverare l’individuale: «Perché se sei tu, che vai soldato, sono io che devo aspettare due anni per sposarmi, e, tra una roba e l’altra si finisce a maggio del sessantadue». Andrea si dichiarò affascinato da tanta precisione. Per lui, constatò, sarebbe andato bene un momento qualsiasi. Bastava un tetto sopra un bel lettone a due piazze, magari due e mezzo, possibilmente in estate, da poter fare a meno dei vestiti. E allora: alé! Ma per Carlina il progetto di matrimonio era tal16
mente diverso che Andrea dovette ascoltarne le rimostranze, si sentì definire addirittura «volgare», capace com’era di avvilire una fiaba nella quale anche Dio aveva un suo ruolo. «Perché, a Dio, io ci credo sul serio», terminò ispirata, mentre Andrea, ormai rassegnato, si arrendeva con frasi di circostanza, e si chiedeva, una volta di più, che cos’avesse fatto per meritarsi un simile destino. Per un minuto rimasero in silenzio contrappuntato dal tintinnio dei cucchiai d’argento sulle porcellane adorne di mazze e palline. Tanto bastò per cancellare i risentimenti, e a quell’insopportabile che tanto gli ricordava le sue insopportabili zie, Andrea vide sovrapporsi una giovane donna sorridente, i grandi occhi nocciola via via addolciti dalla tenerezza per lui, le ciocche di capelli bruni che incorniciavano il bordo blu del foulard, le dita sottili e corte, da bambina, il rosa della lacca scheggiato sulle unghie mangiucchiate, il corpo solido fasciato di lane calde, la camicetta di semplice flanella bianca, la sottana di tweed color bosco autunnale. Una bella ragazza. La coscia destra posata sulla sinistra, faceva dondolare un piede calzato da un grande calzolaio, una scarpa che accentuava lo slancio della caviglia non sottilissima, ma elegante. Andrea si curvò a carezzarle la tibia, indugiò a circondarle la caviglia con le dita. «Carlina, sciocchina. Avrai un vestito lunghissimo, un vestito bellissimo per il matrimonio.» «Chissà come si usa, tra due anni», constatò lei, riflessiva. E si dilungò a immaginare il futuro, ribadendo che lei era diversa, aveva bisogno di certezze, le stesse che Andrea pareva, a tratti, rifiutare. Adesso, per esempio, si doveva andare dai Rivoli. Si doveva proprio? tentò lui. Ma certo! Erano tanto simpatici, anche a sua sorella Luisa, addirittura a Max, difficile com’era. 17
Andrea spiegò che Max mirava a conoscere intimamente l’Elisa Rivoli, se già non la conosceva. Intanto, con un nugolo di Dc, cacciava nella riserva del Paolone Rivoli, e trovava modo di chiamarlo Nembrotte. «Ma anche Luisa…» si ribellò Carlina. «Luisa», la interruppe lui, «adora le situazioni in cui Max non la maltratta.» Ma Carlina non era d’accordo, e prese, alla larga, le difese del golfista. Se dirigeva l’ufficio milanese della Broni, non poteva essere in tutto e per tutto un buono a niente. Un lavoro di cui sarebbe stato capace chiunque. «Tu, io, il barista, il caddie», insorse Andrea. Bastavano quelle che Max definiva pomposamente P.R. «Altro che Pubbliche Relazioni. Puttanate Ruffianate, le chiamo io. Due belle orge con i suoi amici partigiani. Quattro regali, venti panettoni. Ai preti, ci pensa mio padre, e il lavoro è fatto.» A ricordare che potevano sentirli, Carla gli lanciò uno sguardo critico. Andrea si chetò. Ma insistette, almeno l’ultimo giorno di libertà, a lasciar perdere con gli obblighi mondani. *** Si immisero in città lungo corso Sempione. Carlina gli aveva poggiata la testa sulla spalla, e quando su un cielo rossastro si stagliò il profilo del Castello, Andrea non si trattenne dal baciarla. «Non suona per il verde», sorrise lei, all’indirizzo di un automobilista indiscreto. «Brava Carlina», approvò Andrea. «Non hai più vergogna.» Appena dentro il Parco fu costretto a rallentare per la presenza di una quantità di donnine, appostate ai margini. Passò oltre, fingendo di non vederle, una soprattutto che qualche 18
sera avanti l’aveva incuriosito, sino a farlo fermare per subito ripartire, turbato dall’offerta. Mentre lei lasciava cadere su quelle donne uno sguardo di disprezzo, Andrea aveva già fatto dietrofront, sfilava davanti alla Biennale, per immettersi subito dopo in via Canova. Sulla sinistra, in un palazzo di costruzione recente e dall’aria anonima, si aprivano la porta del suo piedaterra, e lo spazio per un agevole parcheggio. Ci si infilò con una sola manovra, che la Carla già si ribellava. Non era possibile. Non quella sera. A un solo chilometro da via Tamburini, dalla villa dei Broni. Certo, era vero che non li avevano mai visti, ma avevano usato ben altre cautele. No, non parrucche o barbe finte. E, trascinata dall’improvvisa allegria di lui, confessò che, quella sera, avrebbe fatto troppa fatica a negarsi. Andrea aveva aperto lo sportello e l’aveva praticamente costretta a uscire dall’auto. Sempre trascinandola, sempre ridendo, passarono di fronte alla guardiola della portinaia, conclusero che non li aveva visti, furono presto dentro, allacciati, abbracciati, abbandonati sul grande divano letto. Ma, dopo quell’avvio irresistibile, Carlina già cominciava a ritrarsi, frenava la destra di Andrea che era salita a cercarla, lungo le gambe, dove le giarrettiere sottolineavano la nudità delle cosce. «No. No. No», principiò a ripetere, con una convinzione sempre più testarda, cieca. E, alle sue ragioni: «Ma no proprio per questo. Perché te ne vai. Perché non sarei più capace di aspettare, di aspettarti». Ma si erano, lui soprattutto si era spinto troppo avanti. E per convincerlo che rischiare in quel modo non era saggio, venne d’improvviso una proposta irresistibile, un magico clic che lo fece abbandonare ancor prima felice che vinto: «Facciamo come al solito, Andreino. Ti è sempre piaciuto tanto».
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