La guida ufficiosa Campionato italiano di calcio serie A 2016-17

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PREFAZIONE

Caro lettore, non abbiamo fatto in tempo a staccarci veramente dal calcio che la Serie A 2016-17 è già ricominciata. In un’estate in cui si sono susseguite Copa América, Europei e Olimpiadi, grazie anche a un calciomercato emotivamente intenso come una serie tv, le vacanze sono volate. Tra un tuffo in piscina e una partita a carte la redazione dell’Ultimo Uomo era già al lavoro per scrivere questa guida, mentre molti direttori sportivi dovevano ancora completare le rose delle proprie squadre e alcuni calciatori cambiavano addirittura due maglie in una sola sessione di mercato. A proposito, in che squadra gioca adesso Leandro Castán? Abbiamo aspettato che si chiudesse ufficialmente la sessione estiva prima di scrivere la parola «fine» a questa Guida, per evitare sorprese ma anche per consegnare nelle vostre mani uno strumento che possa farvi da bussola il più a lungo possibile, durante un campionato che si annuncia entusiasmante dal punto di vista del gioco e dei protagonisti. Perché, d’accordo, la Juventus parte favorita, ma avete visto giocare il Pescara? Come ogni anno, la Serie A ha perso qualche pezzo pregiato del proprio scacchiere ma parallelamente ha accresciuto il proprio fascino con talenti già più o meno affermati e giovani dal futuro più o meno luminoso (Arkdiusz Milik, Éver Banega, Joao Mario, Marko Pjaca, Dennis Praet e potrei continuare per il resto di questa prefazione). Si


Prefazione

aggiungono a giocatori come Dybala, Nainggolan, Hamsik, Higuaín, Icardi, calciatori che potrebbero brillare in qualsiasi altro campionato europeo. La competitività tattica sarà sempre elevatissima, con la cura dei dettagli che contraddistingue il nostro calcio quanto la nostra tradizione sartoriale e che rende imprevedibile anche le partite tra le prime della classe e le neopromosse. Insomma, la Serie A come contenitore di storie. Abbiamo dedicato un capitolo a ogni squadra come per la precedente Guida Ufficiosa agli Europei, in fondo al quale trovate alcune voci sintetiche e più «personali». In cui, ad esempio, gli autori scelgono il giocatore da tenere d’occhio e si sbilanciano in previsioni. Gli autori sono le nostre migliori firme, quelle in grado non solo di capire una squadra nella sua complessità (tattiche, strategie, giocatori, allenatori, presidenti) ma anche di restituirne l’anima al lettore: Emanuele Atturo, Dario Saltari, Fabio Barcellona, Daniele V. Morrone, Flavio Fusi, Emiliano Battazzi, Alfredo Giacobbe, Francesco Lisanti, Valentino Tola, Federico Aqué. A fare da intermezzo, poi, ci sono delle classifiche più leggere (chi sono gli allenatori più a rischio esonero? E i giocatori in cerca di riscatto?) firmate dal vicedirettore di Ultimo Uomo Fabrizio Gabrielli. L’idea alla base di questa Guida Ufficiosa al Campionato Italiano di Calcio, che poi è quella con cui curiamo l’Ultimo Uomo ogni giorno da tre anni ormai, è che leggendola possiate godervi ancora di più le partite, che possa arricchire la vostra esperienza di spettatori e tifosi. Buona lettura.


INTER

Tornare grandi di Francesco Lisanti

Il 19 maggio 2016, con il campionato da poco terminato e il quarto posto consolidato, Roberto Mancini affermava in un’intervista a Inter Channel: «Credo che siamo sulla strada giusta per tornare a lottare per lo Scudetto». Poco più di tre mesi dopo è cambiato tutto quello che poteva cambiare: c’è una nuova presidenza, il gruppo cinese Suning Holdings Group che ha acquisito il 68,55% per cento delle azioni, rilevando tutte quelle ancora appartenenti a Massimo Moratti; c’è un nuovo management, con l’ingresso nel CdA di diversi uomini Suning e la nomina di Erick Thohir a Presidente Esecutivo; ci sono tutti gli stravolgimenti portati dal mercato, come ormai da consolidata tradizione; c’è persino un nuovo allenatore: Frank De Boer. Il divorzio tra l’Inter e Mancini si è consumato in un clima di incomprensioni, rancori e comunicati, tutto riassunto all’interno di indiscrezioni che hanno iniziato a filtrare intorno alla metà di luglio, e che hanno proseguito parallelamente alla preparazione estiva, fino all’ufficialità della separazione pronunciata il sette agosto. Mancini si è accordato per una buonuscita pari alla metà dello stipendio netto che avrebbe percepito nel suo ultimo anno di contratto, e la nuova proprietà interista ha virato con decisione


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sull’allenatore olandese, che qualche mese fa perdeva il campionato nazionale con l’Ajax all’ultima giornata, in casa della penultima in classifica. La prima preoccupazione di De Boer è stata quella di scandire a chiare lettere un calendario che sottintendesse la parola «pazienza». Si è presentato alla stampa italiana premurandosi subito di rimandare i processi a data da destinarsi: «Vedremo la mia Inter dopo quattro mesi, questa è la normalità, a gennaio sapremo veramente chi siamo». Una richiesta consegnata al vento, a giudicare dalle critiche piovutegli addosso dopo la brutta sconfitta subita contro il Chievo, che però non ha spostato di una virgola le attenzioni di De Boer, sempre focalizzate su gli obiettivi di medio-lungo termine. Il numero «quattro» a questo punto si è fatto ricorrente, anche quando le perplessità si sono trasferite sullo scarso stato di forma mostrato dall’Inter: «Serviranno ancora quattro settimane circa per raggiungere la condizione atletica necessaria per sviluppare al meglio il 4-3-3». Secondo l’interpretazione più comune che offre la numerologia, il «quattro» è il numero della stabilità, delle fondamenta, del «sistema», tutti concetti che rimandano subito alla scuola olandese e all’interpretazione geometrica del calcio. De Boer ha davanti a sé due sfide che si inseriscono perfettamente nel solco della tradizione olandese: costruire degli argini che pongano rimedio alla fragilità difensiva (13 gol subiti nella tournée americana contro PSG, Bayern e Tottenham), e disegnare dei canali di sfogo per la sterile manovra offensiva, sempre incapace di superare la prima linea di pressing avversario.


JUVENTUS

La sfida di Allegri: continuare a migliorare di Fabio Barcellona

La passata stagione la Juventus ha vinto il suo quinto campionato di fila con 9 punti di vantaggio sul Napoli, vincendo 25 partite su 26 dopo avere sostanzialmente buttato al vento le prime 10. Alla squadra che domina in Italia da cinque anni sono stati aggiunti in sede di campagna acquisti Dani Alves, Mehdi Benatia, Miralem Pjanic, Marko Pjaca e Gonzalo Higuaín. La domanda che tutti si pongono, allora, è se la serie A 2016-17 non abbia già un vincitore assegnato. Una situazione, comunque, inedita anche per la Juventus, che non è mai stata sulla carta così superiore. Anzi, le estati passate si intravedevano alcune crepe nell’architettura bianconera che lasciavano spazio alle speranze di titolo alle altre contendenti. Nel 2014 le improvvise dimissioni di Antonio Conte, dopo solo due giorni di ritiro, a cui è seguito il frettoloso ingaggio di Massimiliano Allegri, rischiavano di aprire un periodo più o meno lungo di crisi. La squadra proveniva da tre campionati vinti, 102 punti nella stagione precedente e la gestione di un allenatore particolarmente esigente in termini di intensità fisica e mentale del lavoro, sia in allenamento che in partita. Invece, il primo anno della gestione Allegri ha portato uno Scudetto con 17 punti di vantaggio sulla Roma, una Coppa Italia e addirittura la finale di


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Champions League persa a Berlino contro il Barcellona. Pur iniziando la stagione con il 3-5-2 ereditato da Conte, Allegri aveva innestato nella squadra il «suo» 4-3-1-2. La possibilità di alternare i due moduli di gioco, adattandosi ai calciatori a disposizione e alle specifiche esigenze tattiche delle partite, si era rivelata una delle armi principali nel cammino europeo dei bianconeri. Poi, la passata stagione, la Juventus aveva profondamente innovato la rosa: via Pirlo e Vidal, più della metà del fortissimo centrocampo bianconero, e via Carlos Tevez, goleador e leader delle due stagioni passate. L’inserimento dei tanti nuovi giocatori, ben dieci, unito alla cessione di calciatori fondamentali emotivamente oltre che tecnicamente, sembrava potere aprire a un periodo di generale assestamento degli equilibri tecnici, tattici e di gruppo, in cui le avversarie avrebbero potuto trovare spazio per interrompere il dominio bianconero. Ma la ricerca dei nuovi equilibri è durata appena dieci partite, in cui la Juventus ha guadagnato solamente 12 punti, perdendo contro Roma, Napoli, Sassuolo e Udinese e pareggiando in casa con Bologna e Frosinone. Fino a novembre Allegri ha cercato la quadratura del cerchio alternando il 3-5-2, al 4-3-1-2 e al 4-3-3, ma ma sconfitta con il Sassuolo ha sancito il definitivo approdo al 3-5-2 e l’abbandono di ogni sperimentazione per assecondare la necessità di recuperare il cammino perduto. Da quel momento è nata una squadra flessibile e capace di giocare su più registri tattici.


MILAN

Uscire dalle sabbie mobili di Federico Aquè

In attesa del «closing» previsto per la fine dell’anno, la stagione 2016-17 del Milan potrebbe essere storica a prescindere dai risultati: dopo 30 anni sembra ormai al termine l’era Berlusconi, con il passaggio di proprietà alla cordata cinese di cui fanno parte Li Yonghong, il suo braccio destro Han Li e Haixia Capital, un fondo statale cinese. Questi sono i nomi certi, ufficializzati al momento della firma del contratto preliminare con Fininvest, e bisognerà probabilmente aspettare dei mesi e la fine delle trattative che dovrebbero portare al cambio di proprietà per conoscere le identità e le rispettive quote di tutti i protagonisti coinvolti. Si sa però che la valutazione del Milan ammonta a 740 milioni di euro, debiti compresi, e che gli acquirenti cinesi si sono impegnati a investire 100 milioni entro 35 giorni dalla firma del contratto preliminare, oltre che 350 milioni per il prossimo triennio. Ciò non ha ovviamente significato l’inizio di una rivoluzione sul mercato per rinforzare la rosa, e anzi: la campagna acquisti dei rossoneri è stata di tono più dimesso rispetto a un anno fa. Nessuno, in questo momento, conosce con certezza il futuro del Milan, che vive un momento di transizione non grave come quello coinciso con l’ultimo cambio di proprietà, da Giuseppe Fa-


Milan

rina a Silvio Berlusconi, in cui la società rossonera era a un passo dal fallimento, ma più nebuloso dal punto di vista sportivo, visto che nella rosa ereditata da Berlusconi nel 1986 erano già presenti alcuni dei pilastri del grande Milan degli anni Ottanta e Novanta: Franco Baresi, Paolo Maldini, Mauro Tassotti, Alberigo Evani e Filippo Galli. Oggi la situazione è decisamente più precaria. Il «closing», alla fine, ci sarà? Quali sono i programmi del gruppo cinese che vuole rilevare il Milan? Quanto tempo ci vorrà per annullare il gap con la Juventus e tornare a essere competitivi in Europa? Sono domande fondamentali per il futuro del Milan, che al momento non hanno una risposta. Eppure già un anno fa sembrava che per i rossoneri fosse iniziata una nuova era, con la trattativa per la cessione della società al consorzio rappresentato da Bee Taechaubol, una campagna acquisti fatta di investimenti importanti e un allenatore, Sinisa Mihajlovic, scelto per riportare i rossoneri in Champions League. E invece la trattativa con Mr Bee è naufragata, i milioni spesi non sono serviti a tornare in Europa e il tecnico è stato esonerato a sette partite dal termine della stagione.


NAPOLI

Credere nel Dio Gioco di Alfredo Giacobbe

«Ha da passà ’a nuttata», bisogna superare la notte. È la frase che Eduardo de Filippo scelse per chiudere la sua commedia capolavoro Napoli milionaria. La formula, che era comunemente utilizzata come termine medico per indicare il superamento della fase critica, diventò la metafora di una speranza fideistica nella rinascita di una famiglia, e in senso più grande di una Nazione, distrutta dalla guerra. La notte che Gonzalo Higuaín ha fatto calare a Napoli, con la sua dipartita verso le sponde più odiate, quelle bianconere, non durerà per sempre (come nessuna notte) ma non sarà facile uscirne, inevitabilmente. Dagli striscioni dei contestatori anonimi che hanno tappezzato il centro storico, all’ultima polemica sul caro-biglietti, la città si è divisa tra chi confida nella sapiente guida di Maurizio Sarri e chi prevede l’Apocalisse e chiede di più al presidente De Laurentiis sul mercato. Una spina, questa del mercato, che ha infastidito tutti i presidenti della storia del Napoli: basta ricordare Ferlaino, Gallo, Corbelli, Naldi, prima di De Laurentiis per tutti loro il mantra dell’estate è stato: «Cacc’ e sorde». Tira fuori i soldi, come se il calcio a Napoli fosse una sorta di welfare, una redistribuzione della ricchezza necessaria al benessere del popolo.


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Il Napoli di De Laurentiis, salito dalla serie cadetta ormai nove stagioni fa, è oggi una realtà di alto profilo nel panorama calcistico italiano. Nell’estate di tre anni fa, l’arrivo di Rafa Benitez e di campioni già formati, come Higuaín, Callejon, Albiol, Reina, elevò il tasso tecnico della squadra azzurra e aiutò la società a innalzare la propria riconoscibilità anche fuori dai confini nazionali. Lo scorso anno, con una rosa pressoché invariata, Maurizio Sarri portò il Napoli al secondo posto con uno storico record di punti. Si direbbe, quindi, il culmine di un progetto, il momento migliore di un club in continua crescita. Eppure Sarri è già chiamato a convincere il popolo scettico, a restituire quella gioia che Higuaín sembra aver portato via con sé, o su cui comunque sembra aver proiettato un’ombra. Calcisticamente parlando a Sarri toccherà compiere un’altra impresa, forse ancora più ardua: ricompattare squadra e ambiente, che hanno perduto il proprio leader tecnico, il proprio salvatore, intorno al Dio Gioco. La passata stagione Sarri ha imposto sul Napoli il proprio marchio di fabbrica, così come aveva fatto con l’Empoli negli anni precedenti, e l’unica variazione tra le stagioni toscane e la prima annata napoletana è stata quella del modulo. Insigne non era, soprattutto per caratteristiche fisiche, il trequartista ideale nella mente di Sarri, e poi Higuaín con un altro attaccante al suo fianco, veniva limitato nelle sue accelerazioni e nei movimenti a rubare il tempo ai difensori: così Sarri è passato (dopo qualche settimana difficile) dal 4-3-1-2 al 4-3-3, facendo sbocciare il nuovo Napoli, ma restando fedele ai princìpi di gioco a lui cari.


ROMA

Vecchi problemi, nuovi obiettivi di Emiliano Battazzi

In Ricomincio da capo, Bill Murray è vittima di un incantesimo che lo fa risvegliare ogni mattina nello stesso giorno: il contesto intorno a lui è sempre lo stesso, le persone con cui interagisce fanno sempre le stesse cose. Così, decide di approfittarne per tentare, ogni giorno in modo diverso, di conquistare Andie MacDowell. Nel ritornare a Trigoria dieci anni e mezzo dopo la prima volta, Luciano Spalletti non immaginava veramente di tornare indietro nel tempo. La Roma è cambiata profondamente dal suo addio a settembre 2009: il salto epocale e culturale da una proprietà romana a una americana, l’estrema attenzione alla valorizzazione del marchio, la transizione verso una sorta di media company. Eppure, al risveglio, in questo inizio di campionato, Spalletti deve essersi sentito come se non fosse cambiato niente: Totti e De Rossi ancora i capitani, il player trading come fondamentale nella costruzione della rosa, l’ambiente sempre pronto a drammatizzare, e ancora una volta c’è un avversario che domina incontrastato. Allora era l’Inter di Mancini dei quattro scudetti consecutivi, adesso è la Juve di Allegri che va addirittura a caccia del sesto titolo di fila: e la Roma, di nuovo, è l’inseguitrice un po’ frustrata che non sa bene come definire le proprie ambizioni.


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La seconda occasione di Spalletti alla Roma, però, si poggia su fondamenta più solide: la squadra allenata da Garcia veniva da due secondi posti consecutivi, ma era ormai spenta e priva di un qualunque indirizzo tattico. Arrivato a gennaio, l’allenatore di Certaldo è riuscito nell’impresa di raddrizzare la squadra sotto tutti i profili con un girone di ritorno da record (46 punti), secondo solamente a quello di una Juve stratosferica (52 punti). Eppure di tempo ne è passato, e come scriveva il celebre poeta romano Belli: «Er tempo, fijja, è ppeggio d’una lima. Rosica sordo sordo e tt’assotijja, che ggnissun giorno sei quella de prima». Spalletti è ritornato dall’esperienza allo Zenit San Pietroburgo profondamente cambiato, il tempo ci dirà se in meglio: molto più a suo agio nella gestione dei media e dei messaggi da inviare all’esterno, tatticamente meno dogmatico e capace di cambiare più assetti nel corso della stessa partita. Anche la rosa a sua disposizione è cambiata ed è molto più ampia, una delle migliori mai allenate da Spalletti, almeno sulla carta. In fondo anche Bill Murray, dopo innumerevoli e frustranti giorni sempre uguali, alla fine impara dai propri errori e riesce a conquistare Andie MacDowell. Spalletti però non ha a disposizione tentativi illimitati e dopo il disastroso inizio con il Porto, e la «retrocessione» in Europa League, la sua Roma già non può più permettersi errori se non vuole considerare una stagione appena cominciata già come una delusione (aspettando solo che finisca per ricominciare da capo).


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