I figli delle stelle

Data: Sun, 22:25 2 Oct 05 Da: xxx_xxxx@libero.it A: xxxxxxx@yahoo.it Oggetto: Re: Accredito stampa Sierre Ok, per l’accredito stampa non ci sono problemi. Ti aspetto a Sierre. Chiamami pure sullo stesso numero, ho un trial band.

Love , xxxxxx xxxxxxxxxx Da questa finestra, la notte è serena, come il tuo viso.

Stelle che fluttuano amorose e cantano filastrocche.

Giro un po’ per la stanza, la testa appesantita, come imbalsamata, mi guardo intorno senza capire, mi sdraio. Scelgo un’impostazione fra le otto disponibili dello schienale regolabile della mia poltrona.

Lascio che la nuca atterri sul cuscino a rulli. Mi sfilo le scarpe, appoggio i piedi sull’apposita pediera e la manovro per mezzo del telecomando collegato al

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bracciolo. A terra, vicino alla poltrona, il rettangolo blu di un romanzo Bompiani. Trecentonovantotto pagine pigiate nella mia memoria recente.

Rimango così, supino, chiudo gli occhi, tutto è immobile.

Ascolto il formicolio meccanico del cuscino a rulli, la musica lieve, granulare, che si sparge come miele fra le radici del cuoio capelluto. Il mondo si ritira, si allontana, è la bassa marea degli eventi, delle cose.

Oltre la finestra e la strada, la città e la notte scivolano via, come pesi leggeri, origami di carta. Una processione d’immagini appassite – strade, palazzi, quartieri – che si congedano e procedono verso un altro polo. Non posso dire di non sentirmi assolutamente comodo, sdraiato su questa poltrona di pelle, rilassato, non posso negarlo, a meno di smentire la brochure che mi ha consegnato il quarantenne abbronzato che lavora al mobilificio. Foppa Pedretti, l’albero delle idee, il top del relax, le vette dell’estasi domestica. Riapro gli occhi e appare il soffitto.

Provo a immaginarlo come se fosse la curva lenta e indefinita della volta celeste. Punto lo sguardo in profondità, lo lascio vagare, come un pendolo rovesciato, contro la legge di gravità. Il cielo è quello schermo che non cessa di allontanarsi e di venire interpretato. Mi metto a frugare fra le stelle, i pianeti, le galassie che si allontanano, gli ammassi gassosi, le tempeste di meteoriti, le code lattescenti delle come-

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te, le pulsar che bruciano come immani fiammiferi in fondo a quello spazio spento e nudo. Adesso, per il puro piacere di giocare, provo a viaggiare a ritroso nel tempo, lungo la mia vita di giovane uomo. Un viaggio tutto di testa. Provo ad attraversare i miei anni Novanta, i miei anni Ottanta. La mia storia privata nelle sue plaghe periferiche si fonde a immagini di Bettino Craxi, di Roberto Baggio e del rigore ai mondiali americani – il pallone risucchiato in una zona d’antimateria, dove ciò che è perso lo sarà per sempre – di Marco Pannella che fuma scoppiettante marijuana, e assordanti folate di pura informazione e impolverate compilation di Sanremo che permeano tutto questo sottocutaneo riaffiorare della memoria, fino a quando non decido di andare oltre e varcare il buio confine di un nuovo decennio, fino agli anni Settanta. Qui dove mi trovo adesso, nel punto esatto in cui sono riuscito a spingermi, mi limito a constatare che l’anno in cui nacque la storia in cui mi sto per addentrare fu lo stesso in cui venne pubblicato un album di Lou Reed, le cui due facciate erano solcate da un arcano ed elettrico rumore di fondo. Adesso mi sposto fino alla notte stellata e senza profumi del 7 ottobre 1975, e ciò che vedo è un uomo che non riesce a prendere sonno.

Claude Vorilhon, ex cantante, ex giornalista sportivo, ex pilota automobilistico, fondatore della rivista «Autopop», si trova nella grande casa di campagna

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in cui si è appena trasferito, nella regione medievale dell’Alvernia, in Francia, nei pressi di un vulcano spento. Sdraiato su di una poltrona, le gambe coperte da un plaid a scacchi, sente (che cosa significa, qui, la parola «sentire»? Forse significa che Claude sente un’immagine prendere forma all’interno della sua scatola cranica, come se qualcuno o qualcosa ce la stesse proiettando? Oppure è una specie di suono che avverte, una frequenza remota, lo stesso sciame captato da Lou Reed e che ispirò il suo «Metal Machine Music»?) che qualcosa o qualcuno sta per prenderlo per mano e portarlo dove nessun uomo, nella storia degli umani, è mai stato. Claude infila un giubbotto, con movimento automatico, braccia e gambe azionate da un impulso in arrivo da un non meglio precisabile comando a distanza, e s’incammina, quasi a passo di jogging, nella campagna screziata dell’oro e del rosso carminio di un autunno già inoltrato.

Con passo marziale, alimentato da un’energia nuova, differente, che sente di non aver mai posseduto, che nessun essere umano ha mai posseduto, Claude si dirige verso il vulcano Puy de Lassolas. Si fa largo nel sentiero, tra foglie di castagno che cadono sotto il peso di piccole gocce d’acqua – gocce d’acqua che forse racchiudono un riflesso di qualcosa che lui non è ancora riuscito a scorgere – e raggiunge una radura che si apre improvvisa nel bosco, come uno

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squarcio. Claude solleva lo sguardo, il collo e la testa emergono dal bavero rialzato, si affacciano nell’aria frizzante e metallica. Un mulinello solleva da terra un vortice di foglie e ramoscelli. Ora vede un prisma di luce che discende da un oggetto, una cosa che sta come appesa a un filo, nel cielo argentato. Le scarpe si stanno bagnando, l’acqua delle pozzanghere è penetrata attraverso le crepe sottili della suola, ma a un certo punto i suoi piedi infreddoliti registrano una piacevole variazione della temperatura. Il fascio di luce, infatti, si è spostato direzionalmente fino alla zolla di terra occupata dalle scarpe da ginnastica di Claude, che istintivamente si è portato una mano di fronte agli occhi, creando sulla metà superiore del volto una perfetta ombra cinematografica. La terra brucia, c’è qualche breve scintilla, delle piccole fiamme che si animano e poi si spengono. Due opposte colonne di vapore si stanno sollevando dalla punta delle scarpe e risalgono attraverso la luce bianca.

Ecco, adesso può vederlo, è un disco volante quello, e lui sale in alto, aspirato nel vuoto, verso lo scudo che bascula a mezz’aria, ed è l’inizio di tutto, la prima tacca, il momento fondativo.

Dopo essere salito a bordo gli viene iniettato un liquido gelido, e Claude, come nel sogno di un bambino, vola oltre gli striati confini della galassia, posa il piede sul pianeta degli Elohim, civile, urbano, progredito, libero, dove si diverte molto. Si accoppia

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per una notte intera con sei robot biologici; durante un banchetto conversa amabilmente con Gesù, Budda, Maometto, il quale, come Claude dichiarerà in seguito nel corso di un’intervista concessa a una tv canadese, gli risulta essere il più simpatico e affabile dei tre; gli viene svelato, inoltre, di essere nato da una relazione fra il leader degli Elohim, Jahvè, e sua madre, e soprattutto gli viene mormorato il segreto tecnologico che sta all’origine della vita. L’uomo, lo informano gli alieni, nel loro idioma semplice, melodioso, è un prodotto di laboratorio, l’esito di un esperimento genetico avvenuto migliaia di anni fa e di cui gli Elohim sarebbero i benevoli artefici.

La famiglia umana, quindi, non è un frutto complesso sbocciato nel panorama più vasto dell’evoluzione delle specie viventi, secondo un complicato processo di selezione occorso nel tempo, ma sarebbe piuttosto nata all’improvviso, in un dato momento, successivo alla formazione dell’habitat biologico terrestre, e sarebbe una diretta e conseguente emanazione del DNA di un gruppo di Elohim: una teoria assimilabile a quella divulgata nel 1969 dallo scrittore svizzero sensazionalista Erich Von Daniken, il quale nel suo Chariots of the gods, ipotizzò che visitatori provenienti da un’altra galassia sarebbero giunti sulla terra e attraverso un’alterazione del codice genetico delle scimmie avrebbero creato l’uomo, andando così a colmare quel lasso di tempo biolo-

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gico che nella vulgata è stato definito come l’«anello mancante».

Adesso, l’esperimento che diede luce all’uomo e alla donna può essere ripetuto su scala planetaria, attraverso la tecnologia della clonazione, la stessa di cui a suo tempo si servirono gli Elohim. «Se vi fate tutti clonare, vivrete tutti per sempre: vivere per sempre, l’eternità è così vicina…» gli dicono in coro gli alieni, che hanno volti aggraziati, un po’ orientali, e sono alti come bambini. Quando in seguito Claude torna sulla Terra (dove la sua assenza non è durata che una manciata di minuti, come nelle storie della fantascienza più rigorosa) la sua vita, ovviamente, non può più essere la stessa. Adesso è un profeta e il compito dei profeti è fondare religioni, indicare col braccio levato nuove terre promesse e sapervi condurre tutti coloro che vorranno dargli credito. Così Vorilhon, che presto cambierà nome in Rael, su quanto appreso durante il suo viaggio costruisce un corpo dottrinale leggerissimo, superlight, piumato, intorno al quale cominceranno, nel tempo, a stringersi migliaia di fedeli.

Lo farà con il talento e l’abilità di un grande barman, tutto vestito di bianco, inappuntabile, shakerando l’ufologia più kitsch e implausibile con un’iconografia mutuata da vecchie serie televisive di fantascienza, spruzzandovi sopra qualche goccia di erotismo, l’erotismo innocuo e liberato di Allen Ginsberg, dei raduni hippy, delle pagine a colori della rivista «Jaybird».

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Da allora Rael ha il suo piccolo ruolo, solido, nello strano pantheon della postmodernità. Siede nella sua nicchia, graziosa e iridescente, tutta illuminata.

Ma soprattutto, ha consegnato agli umani la struggente promessa, chiavi in mano, della vita eterna. È la clonazione, cioè quella sorta di culminante sogno tecnologico che finirà per attrarre verso l’utopia raeliana anche Daniel 1, il protagonista de La possibilità di un’isola, l’accecante romanzo di Michel Houellebecq che sto appunto finendo di leggere. E capita così che, seduto sulla mia poltrona di ultima generazione, dopo aver chiuso pagina trecentonovantotto del libro, dopo aver constatato, quasi con sofferenza e inginocchiandomi, con quale esiziale perfezione questo scrittore abbia esplorato il nucleo ardente che alimenta le nostre vite e le nostre vecchie e sofferenti religioni (la vita eterna, appunto, l’insopprimibile desiderio della vita eterna) decido di infilarmi un giubbotto, come Vorilhon quella notte, di prendere un treno e di andarmene in Svizzera, a Sierre, un paesino nel Canton Vallese come cancellato dalle mappe, dove alla sezione «Eventi» del sito www.rael.org avevo letto che si sarebbe tenuta una convention del movimento.

Prima di comprare il biglietto e partire, avevo stabilito una serie di contatti molto cordiali con uno dei responsabili italiani del movimento, allo scopo di ottenere un accredito stampa e concordare, maga-

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ri, un’intervista col profeta in persona. Me ne vado in Svizzera anche perché questo libro, La possibilità di un’isola, ha avuto molteplici ricadute sul mio corpo. Per esempio ha prodotto un numero di effetti diversi sulla regione inguinale e ha rarefatto, per un certo periodo, la mia attività sessuale, dato che il desiderio si riaccendeva soltanto al contatto con la pagina, mentre negli intervalli di tempo, quelli della vita quotidiana, il desiderio sessuale si sospendeva e si rianimava e viveva soltanto alla lettura di quel libro, ripercorrendo la storia della propria origine e sviluppo attraverso lo specchio che Daniel 1 gli porgeva, come se il desiderio, questo animale che ci cova nel corpo, potesse diventare per una volta cosciente di sé grazie alla mediazione di un testo.

Ogni volta che il libro si chiudeva, il desiderio anelava a tornarvi, perché voleva saperne di più e mettersi in ascolto di Daniel 1, della sua penosa vicenda, della sua ricerca compulsiva del godimento, dei suoi picchi di piacere altissimi ma effimeri, e delle inevitabili frustrazioni. Ma non solo. Me ne vado in Svizzera anche perché, facendomi sommozzatore di una subcultura, turista della tarda postmodernità, vorrei puntare le mie antenne su Rael e la setta da lui fondata, di cui già avevo sentito parlare molto all’epoca della notizia della prima clonazione umana, quando Rael nel 2001 venne convocato di fronte alla commissione «Energia e Commercio» del

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Congresso americano, quando il portavoce di Bush, Scott McClellan, dichiarò: «Se lo scopo è clonare un essere mano, allora il Presidente è contrario a ogni esperimento in questo senso». I Raeliani, allora, avevano già acceso un sorriso (ironico) sul mio volto, e pure li avevo già conosciuti, tempo prima, in un bar dove lavoravo. Avevo visto quattro di loro, seduti su di un divano color menta, e avevano tutti e quattro occhi azzurri e sciolti capelli biondi, dei medaglioni al collo, bevevano cocktail sofisticati e sembravano accordati su di un medesimo paradigma encefalico, come se fluttuassero lungo le medesime onde beta, e risposero con gentilezza di velluto alle mie domande, staccandosi dallo schienale del divano e allungando il collo come struzzi. Per un certo periodo di tempo continuarono a mandarmi mail. Volevano invitarmi a un raduno in Campo dei Fiori, a Roma, un raduno di protesta contro il Papa e la Chiesa Cattolica, davanti alla statua di Giordano Bruno. Ma io non avevo mai risposto a quelle mail.

Da quel bar, dove lavoravo come cameriere, sono trascorsi anni e oggi ci sono giorni che passo un’infinità di tempo in poltrona, o di fronte al computer, controllando la posta a intervalli sempre più brevi, per poi rialzarmi, ogni tanto, e infilare la porta di casa e provare a vedere se nel mondo qualcosa è cambiato.

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Così, dopo aver navigato attraverso la Lombardia, con la sensazione di avere perforato un grande cubo fatto di aria grigia e celestina, dove i campi e le terre coltivate hanno lo sbiadito colore di un vecchio maglione verde, arrivo finalmente a Sierre, un minuscolo paesino ai piedi delle Alpi, non molto distante da Ginevra. È la mia prima volta in Svizzera? No, c’ero già stato molti anni fa, con una mia ex fidanzata e avevamo passeggiato mano nella mano lungo le rive bianche di un lago, intirizziti dal freddo e completamente inconsapevoli della vita futura, delle cose feroci e crudeli che ci attendevano. Dato che mi ero addormentato, dato che da circa un’ora vagavo in un al di là onirico, brumoso e spettrale, mi sveglio di soprassalto, a causa dell’improvviso colpo di freni del treno, e sono costretto a balzare fuori con le scarpe slacciate e lo zaino aperto.

La stazione di Sierre è piccola, una microscopica frazione ferroviaria, giusto un paio di binari intorno

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ai quali sorge un distretto commerciale incantato, fatto di linde tabaccherie e graziosi minimarket.

Chiedo informazioni al gruppetto d’immigrati indiani che sostano proprio all’uscita della stazione, ma non sanno dirmi granché. Poi, per fortuna, e in un certo senso secondo copione, m’imbatto in un pezzo d’Italia antichissimo. È un signore di origini calabresi, un vecchietto, che sembra abitare da sempre dentro il completo stazzonato che indossa, che attacca a parlarmi in un italiano arcaico, mescolato a francese. Gli spiego la situazione, e lui, con una gentilezza d’altri tempi, come se fossi il lontano cugino che non rivedeva da secoli, si offre di darmi un passaggio fino all’albergo dove qualche giorno prima avevo prenotato una stanza.

Montiamo a bordo di una Fiat 127 così ben conservata che ho la chiara sensazione, tra le dita, di poter afferrare tutta la disperata nostalgia che il signore che mi sta accanto deve ogni volta provare per qualsiasi cosa sappia, anche minimamente, d’Italia e tricolore. Appesi allo specchietto retrovisore ci sono un paio di cornetti rossi dallo smalto ancora lucido, con una piccola scalfittura su un fianco. I cornetti dondolano in primo piano. Oltre i cornetti vedo la successione di curve e rettilinei di una strada provinciale. La strada si dilata come una striscia di mercurio fra valli e montagne. Mi

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comunica la struggente sensazione di un mondo lontano, puro e incontaminato, dato che, mi rendo conto, comincio a sentirmi investito da una soffice raffica di déjà-vu, da una quantità d’immagini ancora intatte connesse al ricordo di cartoni animati di ambientazione alpestre, sullo stile di «Heidi», «Remì», tanto che a un certo punto il vecchio calabrese è costretto a voltarsi di tre quarti e a chiedermi perché mi sia ammutolito.

Superiamo il cartello «Sierre». Nello scomparto davanti alle mie ginocchia, dentro a una scatola da scarpe come nuova, sono raccolti decine di nastri di musica italiana. Luciano Tajoli, Claudio Villa, Adriano Celentano, i Pooh, Albano & Romina.

Adesso ascoltiamo Figli delle stelle, il famoso pezzo di Alan Sorrenti, in una versione dove duetta con Claudio Baglioni, Come le stelle noi/soli nella notte ci incontriamo/come due stelle noi/silenziosamente insieme ci sentiamo…Noi siamo figli delle stelle/figli della notte che ci gira intorno/noi stanotte figli delle stelle/c’incontriamo per poi perderci nel tempo, e nel vago scintillio disco del pezzo – archi, Fender Rhodes gocciolanti, il falsetto efebico di Alan Sorrenti – l’ipotesi raeliana si fa all’improvviso più fascinosa, la sento crescere e ramificarsi nella coscienza, girare, prendere forza, come se mi stesse contaminando, come se tutta la semantica coinvolta – le stelle, lo

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spazio, la scienza – cominciasse a esercitare anche su di me una smisurata forza d’attrazione.

Antonio mi lascia lungo la provinciale. La musica sfuma e diminuisce come la coda polverosa di una cometa. Quando esco dalla macchina, richiudendomi la portiera alle spalle, mi appoggio al finestrino e gli prometto che gli saluterò l’Italia e se potrò porterò un bacio anche alla sua Calabria.

All’albergo ho appuntamento con il tizio dei Raeliani che avevo contattato via mail. Lo vedo avanzare, lungo la stradina tutta ciottoli e ghiaino che conduce all’albergo, non distante dal tratto di asfalto screpolato dove mi ha lasciato la 127 verde. Cammina lentamente, studiandomi nella distanza, alle sue spalle la facciata dell’albergo coperta di rampicanti, e indossa un lungo spolverino marrone che dona a tutta la sequenza un tocco alla Ispettore Derrick. Dopo esserci stretti la mano, dopo esserci squadrati in quella forma vorace delle persone che si sono prima abboccate via mail, mi recapita un foglio da firmare, dov’è elencata una lunga serie di prescrizioni. Prendo il foglio, il sole a picco lo rende come abbagliante e devo sforzarmi per poterlo leggere. C’è scritto di non fotografare, non filmare, non registrare, se non dopo aver chiesto e ottenuto un’autorizzazione. C’è scritto che «È concordato che l’intero materiale utilizzato dai giornalisti sarà controllato dalla sicurezza del Movimento Raeliano». Oppure ancora una frase così fitta di maiu-

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scole e accorgimenti da risultarmi, nella sua struttura vagamente circolare, sbalorditiva: «È concordato che per sostenere un’intervista in presenza di RAEL tutti i giornalisti (senza eccezioni) sono pregati di rivolgersi a Lui con il nome di Rael». Tutto un paio di centimetri sopra lo spazio immacolato che, non avendo molte alternative, come sembra, mi affretto a riempire con una firma, dopo avere appoggiato il foglio sul cofano della macchina del mio contatto. Chinato sul cofano lucido, mi accorgo che dentro la macchina c’è qualcuno che non è voluto scendere. Restituisco il foglio e l’uomo dallo spolverino, come sollevato, mi dice che è sua intenzione farmi da angelo custode per tutto il resto della mia permanenza, un’affermazione che, sul momento, mi suona un po’ sinistra. C’è una breve pausa, uno Scarto, restiamo misteriosamente indecisi sul da farsi, di fronte alla fiancata scura e bombata della sua automobile, sotto il disco solare che si alza e raggiunge lo zenit. Stringo più forte la mano lungo la tracolla del mio zainetto e sento che anche se ci siamo appena conosciuti qualcosa si è già spezzato.

Mi fa salire sulla sua elegante Audi station wagon e mi presenta l’uomo che sta all’interno, un responsabile regionale del movimento raeliano, il quale si volta e mi tende la mano in un modo così professionale e meccanico che mi sembra in realtà tradire una di quelle timidezze antiche e invincibili, che poi, nel tempo, cercano di camuffarsi nella legnosità dei gesti,

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in un modo troppo rigido di tendere la mano, di stabilire un contatto neutro e prudente con la pelle degli estranei, a dichiarare in anticipo che non gli si potrà chiedere molto, che non gli si potrà chiedere niente di eccessivamente umano o sentimentale, assolutamente non dei soldi, un prestito, o delle informazioni particolarmente riservate.

L’angelo custode, con le mani salde sul volante, in posizione «tre e tre quarti», guardandomi attraverso lo specchietto retrovisore mi conferma che sarà possibile realizzare una breve intervista con Rael in persona. «Ho sistemato tutto. Credo che già domani potrai incontrarlo», «Veramente? Allora grazie, grazie davvero», gli dico. E non mi pare possibile, per niente, che toccherà proprio a me intervistare il santone che, ne La possibilità di un’isola, prepara il grande balzo evolutivo della specie umana, che lo prepara come una specie di ultima e gelida coreografia.

Viaggiamo leggeri, senza peso, cullati nella piena saggezza della tecnologia Audi. Soltanto un filo di tensione, questo silenzio che si protrae un po’ oltre la debita misura. Nel giro di cinque minuti ci troviamo davanti allo «Sportfit», un impianto sportivo anni Settanta, di medie dimensioni, immerso fra abeti perfettamente conici, automobili, roulotte e l’aria tesa e schioccante delle Alpi Svizzere.

Scesi dalla macchina incontriamo un ragazzo su

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una sedia a rotelle, in compagnia di un altro tizio che non ho mai visto in vita mia, che mi si fa incontro, raggiante, e mi saluta con un bacio sulla guancia. Ci sono altri che mi salutano, che mi abbracciano con forza, che mi sfiorano come pesci, come se ci fossimo già certamente conosciuti, forse in un’altra vita, che importa. Tutti che scendono e chiudono la portiera della macchina, in una serie di piccoli schianti che si fanno eco, e si avviano di buona lena verso il centro sportivo, che scaricano borse e valigette dagli abitacoli delle automobili, che si guardano attorno, euforici, ma a essere onesti, personalmente ancora non so bene che cosa aspettarmi da questa gente.

Dentro di me, mentre ancora me ne stavo seduto in poltrona, a casa mia, li avevo visualizzati come una proiezione molto lontana nel futuro, o molto lontana in una dimensione parallela, di Marco Pannella e del vecchio Partito radicale. E questo per la loro natura minoritaria, per la passione e l’allegria fanciullesca che mettono nel sostegno alla ricerca scientifica, e anche per una spiccata disinibizione sessuale di cui il romanzo di Houellebecq mi aveva già ampiamente informato.

Continua a svolgersi, di fronte al palazzetto, la cerimonia dell’arrivo, dei saluti, in un’atmosfera inaugurale, carica di gioia, di aspettative, che mi riporta al quadro luminoso, estivo, che apre la prima scena di Rumore bianco di Don De Lillo, quella del piaz-

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zale del college, il giorno delle station wagon, ed è come se adesso potessi sfogliare di nuovo le pagine del romanzo, come se la memoria tendesse un velo leggero fra il mio sguardo e il dipanarsi della scena reale, e mentre li guardo affaccendarsi intorno alle loro macchine, con quella certa coordinazione, quelle leggere simmetrie di gesti e segnali, proprie di una tribù, di una stessa comunità, non posso fare a meno di rammentare la frase di De Lillo che andava a chiudere l’ultima riga del paragrafo: «…Un’accolta di persone dai pensieri uguali, dai valori simili, un popolo, una nazione».

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