Il cielo a metà

VITTORIA BOLLANI

Alla morte ti abitui. Al lavoro ti abitui. Alla solitudine ti abitui. Alla paura pure, arriva un momento in cui non la senti più. Al fango no. A quella melma che ti trascina giù, con la delicatezza di una carezza, e ogni giorno ti stordisce, ti toglie ossigeno, ti consuma i pensieri e il respiro, non ti puoi abituare. Non ti muovi più. E diventi quello che volevano. Un manichino inutile, che agita il vento e lascia tutto immobile.

Vittoria Bollani aveva solo trent’anni, ma l’aveva già capito. Era quella la vera trappola, lasciarsi scivolare lentamente verso l’indifferenza, diventare un’altra e non saperlo nemmeno. Cambiare pelle e colore e scoprirlo quando era troppo tardi, nello sguardo degli altri.

Era per questo che cominciava le sue giornate da sola.

Per scappare dal fango. E con la stessa ostinazione con cui le donne di paese recitano sempre lo stesso rosario, anche quella mattina aveva trovato la forza di strapparsi dal letto, si era infilata le scarpe da ginnastica, la canottiera, i suoi pantaloncini aderenti, ed era uscita di casa, senza concedersi nemmeno un caffè.

Erano bastati pochi metri e si era ritrovata in una spiaggia bella e desolata. Per un attimo l’aveva guardata, poi si era messa a correre.

Mentre le sue scarpe schiacciavano la sabbia, chiuso den7

tro la gola Vittoria aveva un solo pensiero, che era anche una preghiera. La speranza ingenua e un po’ malata, che se lei adesso andava avanti, nonostante la stanchezza, le gambe pesanti, il fiato che non c’era, un giorno l’avrebbero seguita anche le sue indagini. E le pagine inerti che seppellivano la sua scrivania, che la tenevano prigioniera, avrebbero preso vita, si sarebbero trasformate in processi, sentenze, condanne. E tutto finalmente avrebbe avuto un senso. Anche in Calabria.

Solo quando non aveva avuto più fiato da prendere in fondo allo stomaco, Vittoria aveva trovato il coraggio di fermarsi. Aveva guardato il mare, calmo, indifferente, le onde che bagnavano la spiaggia e si allontanavano, monotone, regolari. Il richiamo dell’acqua si era fatto all’improvviso forte, irresistibile. Via la canottiera, i pantaloncini, le scarpe, il cellulare.

Vittoria si era messa a camminare verso il mare, aveva superato le alghe che impregnavano la riva, aveva trattenuto il fiato e ricacciato indietro i brividi, l’istinto di scappare.

Qualche passo e il colore dell’acqua si era fatto compatto, pulito, e il freddo era diventato solo un abbraccio pieno di energia. Vittoria aveva sorriso, alzato la testa e sfidato il sole. Dritto negli occhi. Poi aveva piegato lo sguardo verso la spiaggia.

Un motorino stava passando sul lungomare, a bordo due ragazzini. Vittoria aveva sentito il rumore del motore che si addolciva, perdeva velocità. Uno dei ragazzi si era abbassato, come se avesse voluto accarezzare la sabbia. Vittoria lo aveva guardato con un sorriso. Il motorino si era impennato, era ripartito.

E i vestiti di Vittoria non c’erano più.

«Fermi! Cazzo! Che cazzo fate?!»

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Vittoria aveva provato a correre verso la riva, ma le sue gambe erano rimaste prigioniere del mare, e quando era riuscita a uscire, la spiaggia era di nuovo deserta. Del passaggio del motorino restava solo una cicatrice sulla sabbia. Non si sentiva nemmeno il rumore della marmitta truccata nell’aria. Tutto era di nuovo uguale, tranne il fagotto dei suoi vestiti. Inghiottiti, come se non fossero mai esistiti. Vittoria aveva preso a calci la sabbia, ma non l’aveva aiutata a sentire meno freddo. Avrebbe voluto piangere, ma non ce n’era il tempo. Non le era rimasto che correre verso casa, sperando che nessuno la vedesse, e maledire quei due ragazzini. *** «Dottoressa, ma che cosa è successo? Sono venti minuti che vi chiamo!»

Il maresciallo Domenico Mercuri era davanti a un’auto di servizio. Dal portone di una palazzina squadrata era uscita una giovane donna, le gambe lunghe e magre, il corpo nascosto in abiti senza tempo. Giacca, camicetta, gonna appena sopra il ginocchio. Più che un vestito, una divisa.

Della ragazza che correva sulla spiaggia era rimasto solo lo sguardo deciso. Vittoria andò verso la macchina, tranquilla, senza badare all’agitazione di Mercuri.

«Mi hanno rubato il cellulare.»

Mercuri accolse quella verità semplice come l’indizio di una catastrofe.

«Vi hanno rapinata?»

Vittoria non gli aveva risposto. Per il maresciallo quel silenzio era una conferma. Le si era avvicinato, protettivo.

«Non vi hanno fatto, male, no», l’aveva guardata meglio, «siete bianca come un panno lavato…» poi si era ritratto, 9

deluso, «però state bene. Ma perché dovete fare sempre così? Perché non mi avete chiamato subito?»

«Perché non avevo più il telefono. Se lo sono preso, Domenico.»

«Avete fatto la denuncia?» «È appena successo.»

«Dove?»

«Prima mi dica perché siete qui a quest’ora.»

A quelle parole, Domenico si era calmato subito. Riusciva a tacere solo così, quando lo trattava da sottoposto. Se lei alzava la voce era capace anche di dimenticarsi che era una donna. Allora tornava a farsi piccolo, a ricordarsi di quella gamba che un incidente d’auto aveva reso malferma, e che aveva davanti qualcuno che lui non avrebbe raggiunto mai.

«Un altro, dottoressa. Uno del clan Gallo, questa volta.»

«Era il loro turno.»

«Aveva diciott’anni.»

«Un ragazzo.»

«Giuliano Capaci.»

«Un ragazzo con la pistola», si corresse Vittoria.

«Almeno ha la conferma che ci aveva visto giusto, dottoressa.»

«Oltre a quella che siamo arrivati tardi.»

Nella macchina era tornato il silenzio. Giuliano Capaci era un ragazzo smilzo, chissà cosa sarebbe stata la sua vita, se fosse nato a mille chilometri da lì.

«Quella è malacarne, avrebbe trovato il modo di combinare casini anche in capo al mondo.»

Vittoria sorrise. Ormai il maresciallo Mercuri riusciva a leggerle anche nei pensieri. O forse era lei, che era diventata banale. Già. In Calabria succedevano sempre le stesse cose, era inevitabile anche pensare, le stesse cose. Ma in fondo 10

non era vero, non era solo questo. La verità era anche un’altra, più insospettabile e paradossale. Anche se era in Calabria solo da un anno, Domenico Mercuri era l’uomo con cui Vittoria Bollani, laureata in legge con lode, professione magistrato, due occhi scuri che inchiodavano e due belle gambe nascoste sotto gonne mortificanti, in trent’anni di vita, aveva raggiunto l’intimità più profonda. Loro due si capivano al volo. Ormai bastava uno sguardo e sapevano già cosa stava pensando l’altro, cosa avrebbe commentato, cosa avrebbe detto e cosa tenuto per sé. Un maresciallo un po’ calvo, zoppo, di cinquantanove anni che avrebbero potuto essere settanta se non si fosse vista la sua carta di identità, era l’uomo con cui finora Vittoria aveva avuto il dialogo più profondo. A cui aveva rivelato più pensieri. Col quale aveva condiviso più delusioni. E più arrabbiature. A volte Vittoria si chiedeva se tanta intimità, più che un regalo del destino, non fosse la prova ufficiale del fallimento della sua vita sentimentale.

A volte, ma non quel giorno. Quel giorno i suoi pensieri erano tutti per Giuliano Capaci. L’ultima vittima di una guerra di mafia che stava martoriando la piana. Un morto di qua, due di là, altri due di qua. Sembrava un pendolo.

I Gallo contro i Raso. I Raso contro i Gallo. Troppi affari in comune, tra l’Italia, l’Australia e la Germania. Troppi giovani che scalpitavano e vecchi abituati a giocare con la morte. Vittoria avrebbe voluto fermarla quella guerra, metterli dentro tutti, e almeno per un giorno vedere quella terra respirare. Lì nessuno era libero. Non potevi vincere un concorso, un appalto, non potevi aprire un negozio e nemmeno un rubinetto dell’acqua, senza avere qualcuno dietro di te, che prima ti regalava il favore e poi ti chiedeva qualcosa in cambio.

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Giuliano Capaci era un ragazzo. Secondo Vittoria la sua vita era rimasta impigliata nell’omicidio di Salvatore Macrì.

Aveva fatto parte del gruppo di fuoco. Troppe intercettazioni glielo facevano pensare. Ma i processi non si istruiscono con i pensieri, ci vogliono le prove. E quelle Vittoria non le aveva.

«Se volete, potete restare in macchina.»

«Scendo, grazie.»

Anche quello era un rito, tra lei e Domenico. Lui avrebbe voluto ogni volta risparmiarle lo spettacolo di quella carne travolta dalle ferite, del sangue che sporcava la strada. E lei invece ogni volta si faceva avanti ricacciando l’orrore in fondo alle ossa. Era una decisione che aveva preso dal primo giorno. Avrebbe visto tutto. I morti bambini, le donne accoltellate dai fidanzati sbagliati, i padri di famiglia che si erano sparati un colpo in testa perché stanchi di una vita sempre uguale. Niente sconti. Le cose le puoi capire solo se senti il loro odore. Se impari a governare lo stomaco che si stringe, se per un momento dividi il sangue con la vittima, la nausea con il carnefice e se impari a essere più forte di tutto questo.

La morte, come la vita, prima di scappare, si rifugia nei dettagli. Giuliano Capaci aveva un paio di scarpe da ginnastica pulite. Le scarpe di un ragazzo tranquillo, che non ama mettersi in mostra. Al polso era rimasto un braccialetto d’oro. Lo sguardo di Vittoria risalì fino alla spalla dove il sangue che era colato dal collo impediva di distinguere i particolari. Era un braccio giovane, sottile. Il braccio di un ragazzo. Un braccio che sapeva già misurare il peso di una pistola.

Giuliano Capaci aveva un padre latitante, cugino del boss Ciccio Gallo. Ma l’aveva visto poco, era ancora bam12

bino quando un mandato di cattura l’aveva costretto a lasciare la famiglia. I Gallo erano gente asciutta, di poche parole. Gente che poteva restare nascosta nei boschi anche trent’anni a mangiare formaggio di capra senza battere ciglio. Nello stesso modo avevano educato il figlio. Serio, disciplinato, ubbidiente. Un ragazzo d’oro le avrebbe detto la madre, parlandone con gli occhi lucidi. Mai un colpo di testa, mai una multa, o una ragazza sbagliata. Un figlio gentile, di quelli che scendono in cantina a portare su l’olio e il vino quando mancano in tavola. Un figlio che non aveva mai deluso. Educato con la maestra a sei anni, gentile con la madre a quindici, pronto a seguire le orme del padre a diciotto. Uccidere Salvatore Macrì gli doveva essere sembrata una buona azione. Un gesto ben fatto che rendeva orgoglioso il papà e soddisfatta la mamma. Un gesto che gli avrebbe garantito il rispetto di tutti e l’avrebbe aiutato a farsi sposare dalla ragazza che gli piaceva.

Il sangue di Giuliano Capaci era fermo sull’asfalto, non scorreva più. Il caldo l’aveva rappreso. C’era uno strano clima di indolenza intorno alla salma. Le macchine rallentavano infastidite. La gente passava e lanciava uno sguardo distaccato. Qualcuno, rassicurato dalla presenza della polizia, bisbigliava veloce il suo sollievo. Per fortuna che avevano fatto tutto al mattino presto, così non era successo niente di grave. In un punto così potevano fare una strage, altri dieci minuti e ci andavano di mezzo degli innocenti.

Anche Vittoria l’aveva pensato. Un regolamento di conti in una strada trafficata può mandare a morte chiunque si trovi lì. Ma Giuliano Capaci era un bravo studente, di quelli che a scuola ci vanno in anticipo. E questo aveva evitato molti guai. Forse fu per questo che a Vittoria cominciò a fare simpatia. In fondo era uno come lei. Uno che non 13

perdeva un colpo. Uno che faceva sempre quello che era il suo dovere. A scuola, a casa, in famiglia. Forse Domenico Mercuri aveva torto, forse non era malacarne, era solo carne da macello.

A un tratto era arrivata una donnina minuta, già vestita di nero. Senza dire niente era passata attraverso i poliziotti e si era avvicinata al corpo del ragazzo. Misurando i passi, come se l’orrore per il sangue e il rispetto per il morto le tenessero a bada il cuore e l’istinto.

Era la prima quella mattina per cui quel corpo non erano solo le ossa e il sangue di un delinquente. Avevano provato a fermarla, ma lei voleva vedere, come Vittoria. Si era inchinata, aveva scostato i capelli di Giuliano e lo aveva baciato in fronte. Un paio di parenti si erano avvicinati, la volevano trascinare via, ma lei, con dignità, si era alzata da sola. «Quando lo portano in ospedale? A terra c’è sporco…» erano state le sue uniche parole. Suo figlio era morto e Antonia Capaci pensava alla polvere della strada. Suo figlio era morto perché lei aveva permesso a suo padre di farne un soldato della ’ndrangheta come era tradizione di famiglia, e lei si preoccupava che potesse avere le unghie nere. Quelle scarpe pulite, la maglietta che sapeva di bucato venivano da lì, allora, da quella donna. Possibile che non si fosse preoccupata di metterci nient’altro, nella vita di quel ragazzo?

Una camicia bianca a coprire un’anima nera. Il viso le era rimasto sporco di sangue. Vittoria la guardò andare via e cominciò a sentire che lo stomaco non riusciva a restare al suo posto. Il caldo, l’insofferenza bisbigliata delle persone perbene, perché quel morto le faceva arrivare in ritardo in ufficio e il viso di quella donna, imbrattato di sangue, come in un rito tribale.

Lo stomaco premeva, se lo sentiva salire, arrivare alla gola.

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Le chiedeva di andarsene. Di tornarsene da dove era venuta. In casa sua d’estate si andava in montagna, sulle Alpi, a respirare l’aria buona. A casa sua si lavorava dalla mattina alla sera, e un impiego statale sembrava una bestemmia. A casa sua si evadevano le tasse, forse, in qualche caso, ma sempre per reinvestirle nell’aziendina di famiglia. A casa sua nessuno portava il lutto da almeno tre generazioni e ai figli si insegnava a essere onesti, e se c’era un reato si andava in questura, senza girare la testa dall’altra parte. A casa sua non si mangiavano fritti. E l’olio si usava solo per condire l’insalata. Casa sua. Una distesa di villette ordinate. Cosa ci faceva buttata alla periferia del mondo? Cosa ci faceva una ragazzina della provincia di Lecco tra quei morti, tra quelle madri con il viso impiastricciato di sangue, tra gli scheletri di quelle case? Perché c’era voluta andare? Che Italia era questa? E poi, era Italia?

Lei lo sapeva perché ci si era infilata, solo perché era la cosa più difficile. Se fosse stata brava in matematica avrebbe fatto ingegneria. Invece aveva scelto giurisprudenza. E allora per rimettere in salita una strada troppo facile, si era infilata lì, a fare il magistrato nel posto sbagliato. Un banale errore di calcolo nella geometria della sua vita. Ma Vittoria era troppo giovane per sapere come si fa a tornare indietro.

E adesso era…

«Dottoressa, cosa fate?!»

Vittoria si ritrovò la mano del maresciallo Mercuri che stringeva la sua. Era una mano calda, ruvida. La mano solida di un uomo che ha sempre lavorato. Domenico la guardava con i suoi occhi buoni. La voce bassa, impastata dal dialetto del sud, che sapeva di sole e di terra. Solo allora capì che era scappata via, che il corpo del povero Giuliano Capaci era ormai solo una macchia lontana. E che lei a Domenico 15

Mercuri voleva bene. Che c’era uno strano modo di amare da quelle parti che la prendeva, la legava a sé e poi appena provava a sentirsi a casa, la buttava via come una straniera.

Ed era questo che non riusciva a sopportare.

«Ma dottoressa, cosa fate? Piangete?»

Vittoria non se n’era nemmeno accorta. Un’onda di vergogna le arrivò fino al viso, ma si consolò pensando che vomitare sarebbe stato peggio. Almeno così non aveva sporcato la strada.

Domenico si era voltato verso il corpo del ragazzo. Vittoria aveva seguito il suo sguardo. Il timbro della sua voce di ragazza era rimasto incrinato dalla commozione: «L’hanno ucciso il giorno del compleanno. Neanche la festa dei diciotto anni gli hanno lasciato fare».

«Se non era adesso sarebbe stato tra un anno, tra due, ma così doveva finire, dottoressa.»

«Era un ragazzo, Domenico.»

«Era anche un assassino.»

«E di chi è la colpa se l’età dei sogni diventa quella delle pallottole?»

«La colpa è di tanti, dottoressa. Il padre, la madre, la società, la ’ndrangheta, ci metta tutto quello che vuole. Ma se ti chiedono di ammazzare e lo fai, sei un assassino.»

Era così Domenico Mercuri, un vedovo fedele, un padre di famiglia innamorato della sua unica figlia, un uomo a cui avresti messo il portafogli in mano, un amico sincero che avrebbe dato la vita per le persone che amava… era tutto questo e molte altre cose ancora, ma nel fondo del cuore, quando si trattava di dispensare l’ultima parola, quella definitiva, a parlare era sempre e solo un’unica voce, quella solida del carabiniere. Un sistema di valori antico, semplice e irremovibile si faceva strada sicuro tra i mille rivoli del16

la vita, faceva pulizia delle sfumature, dei cedimenti, delle sbavature di grigio e rimetteva coi piedi per terra ogni sentimentalismo.

Se fosse stato un altro momento, Vittoria avrebbe sorriso e gli avrebbe dato ragione. Ma quel giorno era diverso. Vittoria, senza ascoltarlo, era tornata verso quel corpo da cui era fuggita e passo dopo passo aveva riannodato i fili della sua vita. Vittoria Bollani non era solo una ragazzina di provincia, troppo brava a scuola per finire i suoi giorni in una villetta a schiera. Era innanzitutto un magistrato. E al magistrato Vittoria Bollani piacevano i pensieri puliti, le scelte nette, quelle che ti lasciano sola, ma ti fanno ricordare ogni giorno chi sei.

Quel corpo per un momento glielo aveva fatto dimenticare e poi glielo aveva messo di nuovo davanti agli occhi, più forte e più solido di prima. Vittoria decise che da lì sarebbe cominciata una nuova vita. Da quel morto bambino. Decise che non avrebbe avuto più paura del fango, che sarebbe stata abbastanza forte per camminare al buio, che avrebbe preso un pezzo del suo cuore e lo avrebbe lanciato in quel mondo, sperando che la aiutasse a fare un po’ di luce.

Fin adesso si era mossa in modo scomposto, come se avesse avuto in mano una paletta schiacciamosche. Si agitava nell’aria e colpiva il vuoto. Perché in fondo questo era per lei la ’ndrangheta. Il vuoto. Oggi no, oggi in una maglietta che profumava di pulito e copriva l’odore del sangue aveva sentito che dall’altra parte c’era qualcosa di diverso, che andava oltre la litania dei crimini, il dialetto stretto delle intercettazioni, il labirinto delle connivenze. Finora per lei il mondo delle ’ndrine era stato abitato da un’umanità diversa. Una commedia tragica che prevedeva solo tre tipi di ruoli: gli assassini, i complici e i morti. E una girandola di attori che vestivano a turno tutti gli abiti, sicuri che sarebbero 17

arrivati a quello finale prima di compiere i cinquant’anni.

Ma si era dimenticata un paio di dettagli. Uno glielo aveva messo davanti agli occhi Antonia Capaci. Chiuse nelle loro case con le persiane abbassate, esistevano anche le donne.

Per quanto tempo avrebbero avuto la forza di vivere così, vedove di mariti vivi ma latitanti, madri di figli che sapevano di dover seppellire o in un carcere o in una tomba? E poi gli altri, gli assassini. Uomini. Era così che doveva cominciare a pensarli. Non più macellai, ma uomini, come tutti.

Perché se voleva colpirli e combatterli, prima doveva capirli.

Erano capaci di gesti mostruosi ma anche prigionieri delle nostre stesse paure. Uomini che forse, se avessero annusato il sapore di una vita diversa, l’avrebbero inseguita. Si chinò sul ragazzo. Il portafogli spuntava dalla tasca. Lo aprì. Pochi soldi e una foto, stropicciata. I tre uomini della famiglia, uno di fianco all’altro. Nonno, padre, e Giuliano bambino.

Vittoria sorrise. Adesso sapeva cosa fare. *** «Dottoressa, lo sapete che vi ci romperete le corna?»

La macchina di servizio percorreva lenta la strada provinciale. Vittoria fece finta di non sentire le parole di Domenico Mercuri. Non aveva voglia di litigare. Preferiva lasciare che lo sguardo si cullasse nel paesaggio che la strada divideva in due come una cicatrice. Piegò la testa verso destra. Il sole faceva brillare il mare e frantumava i colori della scogliera in scintille. Era una giornata ventosa. L’aria salata non riusciva a infilarsi dentro i vetri dell’auto blindata, ma bastava guardare i rami piegati dal vento per dimenticarsi dell’odore artificiale dei sedili e sentire sulla pelle uno strano senso di libertà.

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Sul lato sinistro della strada incombeva un altro mondo, la desolazione di una terra abbandonata, scheletri di cemento, case con i muri sdruciti, un paesaggio disordinato, casuale, senza bellezza e senza amore. Eppure Vittoria sapeva che l’amore c’era. Si nascondeva dentro le case, con i pavimenti di ceramica che brillavano, con le donne che passavano ore ai fornelli per curare un soffritto o a inamidare un lenzuolo. Tanta attenzione, tanta ostinazione era destinata a rimanere prigioniera dei muri, nascosta allo sguardo del mondo e soprattutto incurante di tutto ciò che non la riguardava. Come si potevano perdere mattinate a lustrare una piastrella e poi sorridere indifferenti di fronte a un formicaio di scheletri di cemento vivo a ridosso del mare? Vittoria non lo sapeva, lei che era nata tra siepi ordinate e piste ciclabili.

Anche Domenico Mercuri taceva, ma il suo era un silenzio diverso. Era un uomo tradizionale, non amava i cambi di strategia. E quel paesaggio ormai non riusciva più né a indignarlo né a commuoverlo.

Poi l’auto aveva lasciato il mare e aveva preso una strada di campagna. L’asfalto si era fatto sconnesso, il paesaggio più incerto, fino a che una distesa di ulivi non gli aveva ridato bellezza e respiro.

Qualche chilometro e l’auto si era fermata.

Vittoria notò subito alcuni poliziotti che si stavano affaccendando davanti al cancello di una grande masseria, nascosta da un interminabile e imponente muro di recinzione.

«Sono già arrivati», commentò con soddisfazione.

«Dottoressa…»

Appena aveva sentito la voce del maresciallo, Vittoria aveva aperto la portiera.

«Le uniche corna che mi interessa rompere sono quelle 19

dei Raso, Domenico. Alle mie, se non le dispiace, per ora non ci penso.»

Vittoria aveva parlato con tono secco. Poi era scesa dall’auto, sbattendo la portiera in modo deciso. A Domenico non era rimasto che seguirla e tacere.

Vicino al cancello, intorno alle forze dell’ordine, si erano radunati quattro o cinque uomini vestiti di scuro. Brutte facce e brutti occhiali da sole. I poliziotti si muovevano come se non li avessero visti. Con gesti silenziosi avevano tirato fuori un nastro e lo stavano sistemando sul cancello della villa.

Vittoria provò a muoversi. Faceva così caldo che l’asfalto della strada sembrava mangiarsi le scarpe.

«Non è il sole, è la qualità dell’asfalto. Scadente.»

Vittoria questa volta non aveva risposto a Domenico.

Guardava quei poveri poliziotti che nonostante il piccolo blindato alle spalle e le armi sembravano indifesi. Costretti a mettere i sigilli alla villa di campagna del boss Alfredo Raso sotto gli occhi dei suoi scagnozzi. Si liberò dalla morsa dell’asfalto e fece un primo passo verso di loro. Il secondo fu bloccato da Domenico Mercuri.

«Non vi mettete nei guai per favore…»

«Ho chiesto io di mettere quei sigilli.»

«E loro li stanno mettendo. Non abbiamo altro da fare qui.»

Lo sguardo dei ceffi adesso si era concentrato su Vittoria e sull’auto blu che l’aveva accompagnata. Mercuri aveva accarezzato la pistola che portava sotto la giacca. Senza voltarsi, aveva parlato a Vittoria, quasi sottovoce.

«Abbassate quegli occhi, per favore, dottoressa.»

Vittoria gli aveva risposto ad alta voce, senza piegare lo sguardo verso di lui, continuando a guardare i mafiosi con fierezza.

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«Non ci penso nemmeno.»

Erano rimasti fermi così, una manciata di interminabili minuti, fino a che i poliziotti non avevano finito e si erano avviati verso la camionetta blindata.

Vittoria li aveva cercati con lo sguardo. E si erano incontrati. Allora aveva abbozzato un sorriso che voleva essere gratitudine e protezione. Erano stati bravi e non erano soli.

E anche se i militari erano lontani, le era sembrato che quel suo messaggio fosse arrivato.

Vittoria tornò verso la macchina, aprì la portiera per risalire. Si sentiva appiccicato sulla schiena lo sguardo pieno di disapprovazione di Domenico Mercuri e la cosa la infastidiva in modo insopportabile.

«Quella casa è abusiva, Domenico.»

«Tutta la Calabria è abusiva, dottoressa.»

«Da qualche parte bisogna cominciare.»

«I Raso non si combattono con due sigilli.»

«E come si combattono, allora? Me lo dica lei.»

Su questo Mercuri non aveva risposte. Erano vent’anni che aveva voglia di schiacciargli le palle. E invece, Alfredo Raso, il loro capocosca, il padrone di quella villa, non era nemmeno latitante. Se ne girava per la città spavaldo, convinto di potersi comprare tutto, il procuratore, il questore e lo zelo della polizia. Solo il piombo dei Gallo non si poteva comprare. Ma prima o poi anche quella guerra sarebbe finita. E lui, Raso, sarebbe diventato il signore della piana.

«Hanno ucciso quel ragazzo? Che almeno gli vada di traverso il brindisi.»

Le donne, e la loro irrazionalità, venne da pensare a Domenico. Solo una femmina poteva pensare di sostituire un ergastolo con un nastro di plastica. Ma Vittoria era infervorata, ansiosa di spiegare: «Devono sentirci col fiato sul collo, 21