Il colore è una variabile dell’infinito

Roberta Torre Il colore è una variabile dell’infinito

a mio padre Giampaolo Torre

UN AEREO DI CARTONE

Ecco stendersi piano davanti ai miei occhi una spessa coltre di nebbia bianca, sulla pelle un vento pungente… 3000 metri… 2000 metri… precipitiamo.

Riuscire a stabilizzare questo enorme aereo di cartone non sarà impresa facile. Accanto a me non c’è nessuno, sono solo con una fredda cloche tra le mani: uno strappo, un secondo strappo, il gigante fragile ora sembra domato. Plana silenzioso nel denso muro di latte, un raggio di sole trafigge il bianco posandosi sulla sua punta, il vento si riscalda, la nebbia si dirada, blu… ora respiro brezza di mare.

In lontananza, arroccata su una crosta di terra scorgo Vieste, dall’alto le case bianche risplendono spalleggiate dal sole. Vedo la costa frastagliata, tagliente memoria indelebile sulle mie ginocchia.

Erano i mesi più caldi del 1913 e quello sono io: ho precisamente 11 anni… Passo i miei giorni dentro un capanno utilizzato da mio padre come rimessa per ricucire reti da pesca, riparando e modificando quel piccolo bolide nato da scarti di barche in disuso. Ave-

7

vo montato dei nuovi cuscinetti che avrebbero fatto schizzare quelle ruote tanto da far perdere forma e dimensione a quel trabiccolo. Un ultimo accorgimento all’aerodinamica e Pasqualino, così si chiamava il mio sfidante, le avrebbe prese anche questa volta.

Il sole cadeva a picco sul vicolo Santantonio, stradina dritta che si tuffava nel cuore della città vecchia di Vieste.

Ai lati una folta e giovanissima platea, fatta di pantaloncini corti e canottiere sdrucite, attende con trepidazione il momento esatto del via per buttarsi a capofitto dietro i due bolidi e assaporare l’ebbrezza e il sapore della velocità.

Io e Pasqualino, gomito a gomito, studiavamo le traiettorie migliori che con un balzo avrebbero permesso all’uno o all’altro di stare davanti sin dall’inizio per poi poter comandare la gara e vincerla, vista l’enorme difficoltà di sorpasso in quella stretta e vorticosa discesa.

3, 2, 1… e via veloce. La partenza era stata buona, con uno scatto felino delle gambe ero riuscito a imprimere più potenza di Pasqualino, che dietro di me imprecava e urlava tutta la sua rabbia.

Il percorso da seguire si disegnava nella mia mente, le voci dei bambini si allontanavano, ero un fulmine come non mai. Il mondo mi scivolava negli occhi e si trasformava in lacrime che cavalcavano le mie tempie e si schiantavano sulla strada.

8

Ora non sentivo più nulla, solo il vento che creava vortici nelle mie orecchie e la vista del traguardo sempre più vicino.

Avevo vinto. Ero pronto a festeggiare con abbracci e strette di mano eppure la piazza era vuota: soltanto due gabbiani appollaiati sul muretto di tufo attendevano il mio arrivo.

Pieno di gioia e orgoglioso del lavoro fatto, mi abbandonai a un urlo che risuonò nella piazza vuota.

Poi una mano mi afferrò per i capelli: «Tu da stasera non esci più… di paura mi fai morire… a tuo padre lo devo dire, cammina a casa!»

Mia madre.

La tavola era ben apparecchiata, il pane al solito posto, accanto a destra un piatto di aringhe salate, al centro una bottiglia di vino rosso.

Seduta di fronte avevo mia sorella Antonietta, più piccola di me ma, come diceva mia madre, una donna già fatta. Mi guardava con aria severa quasi peggio di lei, che tra un taglio di pane e un’asciugata di posate mi lanciava occhiate infuocate.

Eravamo a tavola tutti e quattro, mio padre con la testa calata nel piatto, mia sorella che sezionava quella povera aringa in cerca di una spina che le avrebbe dato l’occasione di urlare: «Lo vedi… ma piene di spine sono ’ste aringhe». Mia madre faceva la spola tra il tavolo e la cucina come se fosse la cena

9

di Natale, ma sempre aringhe e pappone era, e io aspettavo il passare della tempesta per raggiungere finalmente il letto e sognare quella mitica vittoria.

Mia madre con un colpo di tosse si rivolse a mio padre: «Ettore è vero che ti serve un aiuto domani al lavoro?»

E lui, alzando la testa dal piatto e guardandola, annuì vistosamente: «Sì sì, mi serve proprio una mano domani…»

«Lo vedi, Pierluigi, al babbo gli serve una mano domani, così la smetti di buttare il tuo tempo a costruire macchine.»

E mio padre con un filo di voce per non farsi sentire da mia madre: «Ma hai vinto tu?»

Risposi con un impercettibile movimento della testa e le labbra di mio padre si sciolsero in un sorriso appena accennato.

10

IL PESCE VOLANTE

All’alba Vieste è bellissima: la punta di San Francesco taglia il mare come un’enorme barca fatta di roccia bianca che al sole brilla come il più puro dei diamanti.

L’acqua accarezza la costa come mia madre accarezzava me per svegliarmi alle prime ore del mattino.

La voce di mio padre in quel fantastico sogno: «Pierluigi… stai ancora dormendo? Ci dobbiamo sbrigare che i pesci fra un po’ vanno a dormire e poi chi la sente tua madre…»

A me il trabucco sembrava come una mina pochi istanti prima della deflagrazione: legni che dal centro si proiettavano verso tutte le direzioni a toccare quasi il cielo, reti che da un palo all’altro creavano pance come bocche di un grande mostro pronto a ingoiare il mare, i pesci, le rocce e anche Vieste tutta.

Sembrava come se all’improvviso quel mostro di legno e sale avesse potuto sradicarsi dalla roccia e cominciare a correre ad ampie falcate verso quella linea che divideva il cielo dal mare…

11

Era bello osservare mio padre mentre dedicava tutto se stesso al lavoro, il suo silenzio, i suoi sguardi, le sue smorfie di fatica mi facevano capire quanto profondo fosse il suo amore per noi e per quella terra che conosceva centimetro per centimetro e che non avrebbe mai abbandonato.

Io passavo tutta la mattinata seduto sul trabucco con le gambe a ciondoloni, ma il compito più complicato per me era addentare il panino ripieno di pomodori secchi e triglie che mia madre aveva preparato con cura.

Erano sei i cefali che sotto i miei piedi lottavano per accaparrarsi una mollica del pane che buttavo, poi un tonfo sordo mi aveva fatto alzare lo sguardo.

A pochi metri da me c’era un pesce volante.

Sbarrai gli occhi: sembrava volare davvero, come tenuto da fili invisibili compiva dei saltelli innaturali sulla superficie dell’acqua.

«Papà, ho visto un pesce volante, volava proprio, faceva le giravolte ed è rimasto in cielo per tantissimo! Papà, è la cosa più bella che ho mai visto. Se allunghiamo le reti, pigliamo pure lui!»

«Pierluigi non esistono i pesci volanti…»

«Ma papà se allunghiamo le reti, lo pigliamo, così lo vedi anche tu il pesce volante!»

«Pierluigi… basta con ’ste cose che vedi solo tu… i pesci volanti non esistono. Tua madre ha ragione.

Ognuno deve fare le cose che è giusto fare. Io mi oc-

12

cupo del faro e devo vedere le cose che esistono per tutti: le navi e i pescherecci che rientrano la sera.»

«Ma perché non è bello vedere le cose che gli altri non vedono?»

«Ognuno deve fare il suo dovere. Qual è il tuo dovere?»

«Studiare.»

«Bravo. Tu pensa a studiare. E controlla le reti per pigliare qualche pesce che ci mangiamo a cena.»

Poi se ne era andato verso le matasse di reti ancora da riparare e io ero rimasto lì, solo, ad aspettare il ritorno del pesce volante.

Da quel giorno e per tutta l’estate non c’era stata mattina che io non accompagnassi mio padre al trabucco, mi sedevo gambe a ciondoloni e guardavo l’orizzonte sperando di vedere ancora quel pesce volante che si levava in volo fino a toccare il cielo.

13

SCIROCCO

Quella mattina un vento caldo di scirocco spazzava le strade strette e deserte di Vieste, depositando sul lastricato di pietra bianca granelli di sabbia che mio padre chiamava terra d’Africa. Solo lui, mia madre e io avevamo avuto il coraggio di buttarci in quella centrifuga ventosa che avremmo con gran piacere evitato, se non fosse stato che quel giorno sostenevo gli esami finali della scuola elementare.

Vestiti come nei giorni di festa, arrivammo a scuola in ritardo, e già nel corridoio centrale i miei compagni con i rispettivi genitori stavano aspettando il loro turno. La porta della mia classe si aprì sputando fuori quattro di loro con parenti al seguito; chiudeva la fila la maestra Gregoria che, cartelletta alla mano, chiamò Pasquale Donadio, Antonio Carcione, Angela Celeste e per ultimo me, Pierluigi Torre.

Eravamo entrati tutti portando sottobraccio il nostro progetto da illustrare alla commissione, che sedeva dietro una lunga fila di banchi di legno. L’aria là dentro era irrespirabile: un misto di profumo

14

scadente e tabacco bruciato che il professore di matematica esalava dalla sua pipa nero carbone. I nostri genitori, seduti nei banchi in fondo, ci guardavano con un notevole stato d’ansia. Dopo Angela Celeste, che aveva presentato il famoso esperimento della pietra e la piuma di Galileo Galilei, toccava finalmente a me. Appoggiai sul tavolo degli insegnanti un meccanismo che comprendeva una grande girandola colorata fissata con un fermo a degli ingranaggi, e cominciai la spiegazione.

«Usando la forza del vento impresso su di essa la girandola crea l’energia in grado di farla volare: è in questo modo che il vento diventa movimento.

Adesso con il vostro permesso passerei a mostrarvi l’esperimento.»

Mi alzai e mi diressi alle finestre, aprendole sotto lo sguardo sbigottito dei miei genitori.

La giornata era perfetta, il vento fischiava come un treno nel pieno della sua velocità e un primo sbuffo fece muovere la girandola che campeggiava al centro del tavolo come se fosse lì solo per stupire l’intera commissione.

Un secondo sbuffo, un terzo, un quarto… all’improvviso una valanga di vento e sabbia entrò nell’aula, scuotendo le pareti e scapigliando i presenti che, sbalorditi, avevano spalancato la bocca e strabuzzato gli occhi: centinaia di fogli svolazzarono a destra e sinistra come presi a schiaffi da quel vento che non

15

risparmiò neppure l’unica cartina geografica della scuola che, sotto i suoi colpi, si strappò, cadendo rovinosamente sulla testa della maestra Gregoria.

La girandola girava veloce, sempre più veloce tanto che i colori disegnati sulle ali si impastavano creando un colore unico. Io ero lì ipnotizzato, pronto a sganciare il fermo che avrebbe permesso alla girandola di librarsi in volo ma la maestra era andata verso le finestre e con difficoltà le aveva chiuse.

La girandola aveva perso energia fino a fermarsi, i fogli erano caduti a terra e l’aula ora era irriconoscibile: fogli sparsi ovunque, capelli arruffati, il professore di matematica, con la faccia nera ricoperta di cenere fuoriuscita dalla pipa, che mi guardava esterrefatto.

Mi ero girato verso i miei genitori e avevo visto mio padre con le mani sul volto e mia madre, con gli occhi di fuoco, pronta a battermi come si fa con i materassi nelle pulizie di primavera.

La maestra Gregoria, con le spalle appoggiate a una finestra, mi aveva guardato: «Che cosa hai fatto?»

«Ma l’esperimento non è completo!»

Il professore di matematica, ripulendosi il viso con un fazzoletto di cotone, era intervenuto solo per dire: «Basta così, vero?»

I suoi colleghi avevano tutti annuito sincronicamente.

I miei genitori, con la faccia da funerale, avevano

16

fatto mille scuse ai professori che ci avevano detto di attendere fuori il verdetto.

«Ma che ho fatto?»

«Hai mancato di rispetto.»

«Ma era un esperimento!»

«Se ti diciamo le cose è per il tuo bene.»

«Eccolo il figlio tuo…»

«Mi raccomando, chiedi scusa, eh?»

«Se non vuoi che ti boccino, chiedi scusa subito.»

Quelli furono i minuti più lunghi della mia vita, ero stato sottoposto a un fuoco incrociato di rimproveri da parte di mia madre e mio padre che erano terminati solo con l’arrivo della maestra Gregoria.

«Abbiamo appena finito di discutere con i colleghi e volevamo caldamente consigliarvi di continuare a farlo studiare: questo ragazzo merita molto.»

Mio padre e mia madre rimasero frastornati per qualche istante.

«Sì, avete capito bene, vostro figlio dovrebbe frequentare una scuola in una grande città, magari al Nord, potrebbe avere una borsa di studio e, perché no?, anche un alloggio.»

Poi si era rivolta a me: «Tu, Pierluigi, potrai fare grandi cose, mi raccomando però teniamo a bada il carattere. Altrimenti non vai da nessuna parte».

La maestra Gregoria era poi rientrata nell’aula degli esami.

17

L’istinto di genitori, sia pur semplici come i miei, suggeriva loro che quella era la strada giusta per contenere il loro strano figlio, uno spericolato pilota di carretti di legno giÚ per le discese a picco sul mare.

Mi avevano preso per mano e ci eravamo incamminati fuori nella tempesta di vento e sabbia.

Nessuno aveva piĂš fiatato per tutto il tragitto verso casa.

18