Il mondo cade a pezzi, noi siamo il mondo

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CHI NOI SIAMO?

di Gianni Riotta

Conseguenza inevitabile del terrorismo è rivelare particolari dell’identità della comunità colpita, a lungo nascosti. Quando al-Qaeda e Osama bin Laden lanciano i raid su New York e Washington la reazione americana – con le leggi del Patriot Act, il carcere di Guantanamo, gli interrogatori con il waterboarding e gli abusi al carcere iracheno di Abu Ghraib, fino alla raccolta dei dati e lo scandalo Nsa – mostra una coscienza del Paese divisa da una ferita che ancora non si rimargina. L’Italia vince infine sul buio degli anni di piombo, ma al prezzo di vedere assassini in prima pagina, eletti in Parlamento, coccolati in ogni forum, mentre le loro vittime vengono dimenticate. Nel 1978 in Germania, al tempo della Rote Armee


Fraktion, Volker Schlöndorff e Alexander Kluge dirigono il film collettivo Germania in autunno, autocoscienza drammatica del loro Paese davanti al terrorismo. I fantasmi del nazismo, che la Guerra Fredda occultava, sono richiamati davanti alla generazione che chiede – come il regista Rainer Werner Fassbinder nel magistrale colloquio con la madre – conto del passato ai genitori. Il terrorismo impone a tutti di aprire e sfogliare quello che la fondatrice del quotidiano «il manifesto», Rossana Rossanda, con impietosa formula chiamò «album di famiglia», evocando le radici comuniste delle Brigate Rosse, allora negate dalla propaganda. L’«album di famiglia» britannico si palesa quando l’Irlanda del Nord è insanguinata dall’Ira, l’«album di famiglia» spagnolo davanti all’Eta, l’«album di famiglia» russo con gli attentati ceceni. Ora è l’intero «album di famiglia» occidentale ad esser chiamato in causa dall’insorgenza del fondamentalismo islamico: chi


siamo noi occidentali, americani, europei, inglesi, francesi, italiani…? Il terrore, negando la nostra identità, ci richiama ad esaminarla, meditando su noi stessi: chi siamo? Una prima, tipica, reazione è avocare le cause del terrore a errori, o processi politici, innescati dal nostro mondo: Se solo avessimo promosso la pace in Medio Oriente…; Se solo non fossimo stati ingordi di petrolio…; Se solo Bush non avesse invaso l’Iraq…; Se solo la Francia non tenesse le banlieue in uno stato miserrimo… È l’ultimo stadio, benevolente e ingenuo, del pensiero coloniale deprecato dal critico di origine palestinese Edward Said. Come al tempo di Kipling ogni bene del mondo derivava dall’Occidente, ora ogni male del mondo deriva dall’Occidente, speculare errore di eurocentrismo. In realtà, la rivolta fondamentalista data ben prima dell’11 settembre 2001, quando il mondo ne prende tardivamente atto, le sue cause remote,


politiche, culturali, sociali, economiche, religiose vanno al di là della cronaca recente. La religiosità wahabita, coltivata e promossa dai petrodollari sauditi, semina zizzania di odio, e se il professor Samuel Huntington aveva previsto uno «scontro di civiltà» tra «noi e loro», «The West versus the Rest», come titolavano 25 anni fa i giornali, la battaglia degenera invece in guerra civile SunnitiSciiti che incendia Iraq, Siria, Yemen, mobilitando milioni dal Libano all’Iran. Parte del mondo musulmano rilutta davanti alla modernità, e una parte militante decide di negarla e combatterla. Anche la Francia, con gli attacchi a Parigi e i colpi di coda nel vicino Belgio, si guarda ora allo specchio del terrore e, come sempre la Francia, rielabora il rito, antico ed affascinante, della propria tradizione, storica o artificiale che sia. Se la vulgata francese del dopoguerra negava i propri spettri, la Francia antisemita di Vichy e del Maresciallo Petain, la Francia crudele della Cagoule e del


poujadismo, la violenza in Algeria, ora tocca alla République mostrarsi unita davanti al fondamentalismo islamico, dimenticando nell’angolo, come parenti di cui vergognarsi, le proprie divisioni. La Repubblica è in Francia religione civile. La Storia non si cancella in un click come la memoria di un computer, la Rivoluzione del 1789 provò davvero ad essere fede, con i suoi riti e il suo calendario parareligioso, e la Repubblica si vuole comunità solidale dal nobile «album di famiglia», il generale De Gaulle capo della Resistenza, Albert Camus, ultimo umanista dell’Europa perduta. Lo sforzo è solenne e commovente: quanti hanno colorato con il tricolore francese i propri social media dopo gli attentati a «Charlie Hebdo» e al Bataclan, con lo stesso entusiasmo sincero con cui nel film Casablanca, al bar di Rick-Humphrey Bogart, si intona La Marsigliese contro i nazisti? Ma nelle pagine che seguono, l’ex ministro della Giustizia francese Christiane Taubira sceglie un


diverso esame di coscienza, chiamando in causa queste certezze e, con stile poetico e grinta politica, affrontando i luoghi comuni della Civilisation Française, insegnati per decenni in corsi ad hoc della Sorbona. Christiane Taubira, nata alla Caienna, economista, docente universitaria, parlamentare, portavoce del candidato presidenziale François Hollande, dal 2012 Guardasigilli nel suo gabinetto, diventa popolare in Francia, e celebre in Europa, per avere fatto approvare la legge sui matrimoni gay nel suo Paese. Ma, nel gennaio 2016, Christiane Taubira lascia il governo, in dissenso di principio contro la proposta di legge di privare della cittadinanza francese i terroristi, misura che in un primo momento riguardava solo i detentori di doppio passaporto, poi in qualche modo dissimulata nel testo avanzato dal governo e dal premier Manuel Valls. Il 30 marzo i siti riportano la notizia che Hollande ha cancellato


il provvedimento, riconoscendo così i motivi del disaccordo della Taubira. In Francia perdere il diritto di cittadinanza è qualcosa di più della gravissima sanzione analoga di altri Paesi. Perché essere esclusi dal rango di «citoyen», nella nazione che ha dato al mondo il concetto moderno di cittadinanza, è una scomunica, non solo una pena civile, comporta l’essere scacciati da una comunione di intenti, assimilata già alle scuole elementari con l’inno nazionale Aux armes citoyens Formez vos bataillons Marchons, marchons Qu’un sang impur Abreuve nos sillons.

Chi cittadino non è più, e non può rivendicare, come San Paolo davanti ai suoi persecutori «Civis Romanus Sum», è relegato al rango di


«sangue impuro», spogliato del diritto-dovere di impugnare le armi e levare alti i vessilli della Repubblica, nel gesto fondativo della battaglia di Valmy – ricordato dalla signora Taubira – con la carica del generale Kellerman padre. Perdere la cittadinanza implica più di una condanna penale, è marchio che deturpa chi lo riceve al cospetto della comunità che lo commina. A questo autodafé reagisce Madame Taubira con le sue dimissioni, seguite dal pamphlet che leggete. Davanti alla sfida radicale del terrorismo fondamentalista, Christiane Taubira offre una scelta intellettuale altrettanto netta, il riesame delle radici nazionali francesi, rizoma di tante identità europee. Con orgoglio richiama le proprie radici: «Io vengo dalle colonie d’Oltremare. Ma la mia origine non c’entra niente. Perché le terre d’Oltremare – prime conquiste coloniali del periodo della tratta degli schiavi e dei negrieri – non sono interessate dal problema della doppia nazionalità…»


Donna e patriota, elenca puntigliosa il Pantheon della cultura francese in queste ore oscure: ecco le ragioni «del Paese di Descartes… Montaigne… La Boétie… Simone Weil…» citate come pilastri incrinati di una tradizione che non può svanire, malgrado sangue, devastazioni, paura. E ancora, passando dal canone classico al codice genetico della sua generazione e della sinistra occidentale, Madame Taubira evoca via via la colonna sonora ed emotiva di Beatles, Donovan, Jimi Hendrix, Joan Baez, Joe Cocker, Marvin Gaye, Bob Marley sovrapponendola alle icone della Gauche, il Che Guevara, Frantz Fanon, Angela Davis – assistente del filosofo Marcuse in California, protagonista di un lontano processo ai tempi del Black Power – lo studioso Olivier Roy, il poeta Aimé Césaire, il pugile Alì, Malcolm X e lo stesso Camus. Il lettore segue i nomi, citati uno per uno, come pietre miliari di un cammino gauchista che sembrava così sicuro nella Storia e finisce invece per


perdersi, tra le ombre e le nebbie del XXI secolo, post moderno, post industriale, post ideologico. Jacques Derrida, il filosofo francese nato in Algeria che domina da una generazione nei campus universitari americani con il suo pensiero, manca all’appello, assenza significativa perché è il suo dubbio perenne sull’identità del nostro tempo, lo scetticismo su «realtà» e «verità», a prevalere adesso sui nomi degli antenati invocati nell’ora della prova. Le pagine di Madame Taubira diventano in Francia best seller, contrastando nelle classifiche – come in un ballottaggio editoriale, se non ancora politico – un saggio dell’ex presidente Sarkozy. Il tono forte, perentorio, la serena sicurezza che è nell’identità della sinistra raziocinante, francese, europea, internazionale, la chiave per vincere la sfida del terrore fondamentalista è, per tanti lettori, bussola contro lo smarrimento dell’Europa silente, incerta nella crisi dei rifugiati, davanti agli


attentati e alla cronica crisi economica. Potrete non condividere ogni proposta, ogni tono, ogni suggestione o immagine schizzata da Christiane Taubira, ma riconoscerete l’onestà intellettuale di chi non mormora, non si vuole subalterna, per arroganza o rassegnazione, ai fondamentalisti, ancora fiera della propria identità. Se non è la sola chiave necessaria a battere il terrorismo, è però almeno una corretta postura intellettuale: solo partendo con risolutezza da «chi noi siamo», possiamo resistere al terrore oggi, e prevalere domani, senza perdere la nostra libertà, la nostra uguaglianza, la nostra fratellanza, combattute con tanta animosità dai sicari islamisti. Princeton University, marzo 2016


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