Il primo anno va male, tutti gli altri sempre peggio

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PROLOGO

Milano, oggi

Mi aggiro per casa guardando con cura in ogni angolo. Nel cassetto all’ingresso, tra le tazzine in cucina, sotto i cuscini del soggiorno, dietro i libri, tra la posta ancora da aprire. Il cellulare di Mara non c’è più, è sparito. Mentre lei fa un giro di telefonate per accertarsi di non averlo scordato da qualcuno, io smonto il soggiorno alla ricerca del suo smartphone, pezzo dopo pezzo. La mia capacità di autocontrollo è nota a tutti, purtroppo. «Dove l’hai messo quel cazzo di telefono?» Lei mi degna di un’unica, distratta occhiata e seguita a raccontare l’accaduto a nostra figlia. «Mara, cazzo, dove lo hai messo?» la incalzo. «Ma non lo so!» sbotta lei. «Ti ho detto che non lo so, dai. Non rompermi i coglioni!» Ecco, questi siamo noi, e questo è come si svolge il tipico pomeriggio a casa nostra.


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Siamo usciti a pranzo con amici, il telefono c’era, Mara lo ha usato. Forse lo ha appoggiato sul tavolo, non ricorda. Ha memoria di tutto, ogni sgarro che le ho fatto da quando ci siamo conosciuti, ogni libertà che mi sono preso, ogni battuta fuori luogo, ogni volta che mi sono dimenticato un appuntamento. Ma dove abbia messo il cellulare lo ha scordato. Svanito, puff. E io da un’ora vago per casa come un rabdomante, la stizza che mi monta dentro col passare del tempo, sempre di più. Ogni tentativo fallito. Sulla libreria. Nel bagno, sotto gli asciugamani. Nell’armadio. In ogni borsa. Nella dispensa. Niente. Il cellulare di Mara non c’è più.

Guardalo lì, il Salerno. Cosa ci fa su una scala alla sua età, vuole smontare le tende? È pazzo? «Ma non lo so!» gli dico con il tono più gentile che riesco a trovare. «Ti ho detto che non lo so, dai. Non rompermi i coglioni!» Continua a farmi domande, mentre gira attorno al tavolino del soggiorno come un rimbambito, ma sto parlando al telefono con Giulia e non gli do poi molto retta. Lui continua a cercare, sembra un cane da tartufo. È tanto gentile, però, il Salerno. Quel telefono conteneva centinaia di numeri, praticamente tutta la mia vita.


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Non mi sono mai decisa a trascriverli su una rubrica di carta e mi toccherà rimetterli insieme uno per uno. Ci vorranno giorni, settimane. Mentre racconto a mia figlia l’accaduto spero che Alberto lo trovi, quel cazzo di affare. Nel cestino della carta straccia, tra i panni da lavare, dentro l’aspirapolvere, non lo so dove sia finito. L’importante è che salti fuori. «Ma come si fa?!» sbraita. La porta d’ingresso è aperta sul ballatoio condominiale, senza motivo. Forse stava cercando sotto lo zerbino e poi se l’è dimenticata spalancata. «Ma come si fa a perdere il cellulare?» insiste. Come si fa? Semplice. Eravamo a pranzo in un ristorante. Un attimo prima il cellulare era lì, l’attimo dopo non c’era più. Fine della storia. «Ma possibile che non ti sia accorta che era sparito?» «Salerno, sei il solito stracciaballe! Se me ne fossi accorta, non sarei mica tornata a casa. Ti pare?» Ecco, questi siamo noi. Mio marito che saltella per tutto l’appartamento smontandolo, io che provo a mantenere la calma, mentre il cervello mi ripete che no, quel cellulare del cazzo non l’ho perso. Me l’hanno rubato.

È trascorsa una settimana, il cellulare non è saltato fuori. Ho ravanato dappertutto. Sotto il materasso, nello sco-


Prologo

volino del water, tra le creme da giorno, nelle tasche delle mie vecchie vestaglie. Niente. Nessuno è venuto a riportarcelo. Forse aveva davvero ragione Mara, glielo hanno rubato. «Te l’ho detto, Salerno, un cellulare non sparisce mica così, dai.» Ci tiene a far sapere che ha ragione, io però non cedo. «Sì, ma potevi stare più attenta!» ribatto. «Hai idea di quello che c’era su quel telefono?» «Salerno, non dire stronzate. Lo so bene cosa c’era dentro, era il mio telefono!» Sì, ma l’ho cercato io. Per tutta la casa. Per giorni. Adesso siamo in sala da pranzo a litigare, come ogni giorno, da quarant’anni. Tema: utilizzo della rubrica del cellulare, quello nuovo. Lezione numero 1, ovvero come inserire nuovi contatti. Mara è un’analfabeta tecnologica. Ancora fa fatica a usare il telecomando della televisione; quello del garage sì, ma solo perché ha un unico pulsante. Coi telefoni è sempre stata così, schiaccia tasti a caso, combina casini. E poi dà la colpa a me. Figurarsi con uno di ultima generazione. È seduta di fronte a me e snocciola parolacce mentre preme furiosa sul display. Io fingo indifferenza, gioco a burraco col mio iPad, rispondo a qualche e-mail, mando un sms. Sono un uomo tecnologico, io.


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Guardalo, figurarsi se mi aiuta. Ho un telefonino nuovo che non si capisce niente. Ricevo chiamate da numeri che non mi dicono nulla e figurarsi se mi aiuta a salvarli. «Salerno, la smetti con quel cazzo di burraco e mi dai una mano?» Solleva un sopracciglio e da sopra la tavoletta su cui smanetta ineffabilmente da ore mi lancia uno dei suoi sguardi sardonici. Trattiene uno sbuffo, fa finta di essere seccato. In realtà gongola. È sempre così, quando c’è di mezzo la tecnologia. Non è che non sono capace, è solo che non mi interessa. Tanto c’è lui. Che poi combina casini con i telecomandi, non mi fa mai vedere quello che voglio in Tv e la colpa è sempre mia. «Devi andare al negozio, ti ho detto.» «Che balle, che sei! Vedi qui?» Gli indico un’icona. «Se schiaccio non succede niente!» «Quale icona?» chiede candido il Salerno. Quale icona? Ma non lo vede il mio dito?! Gli rispondo con un borbottio. «Devi andare al negozio», insiste. «Ti investirei con un tir!» gli dico. Mi alzo e vado al negozio di telefonia prima di prenderlo a cartoni.


NON HO L’ETÀ

Milano, oggi

Basterebbe l’episodio del telefono per sintetizzare i cinquant’anni che abbiamo trascorso vicini, di cui trentanove di vita coniugale. Io e Mara ci conosciamo da quando lei aveva 25 anni e io 16. Era il 1966, lei lavorava alla Ariston e lì aveva conosciuto mio padre. Tra meravigliosi alti e immancabili bassi, tra litigate, scontri furiosi, rappacificamenti altrettanto scenografici, periodi in cui siamo stati inseparabili e momenti in cui ci siamo persi di vista, sono ormai passati cinquant’anni da quando ci siamo conosciuti. Da allora, di fronte ai nostri occhi è transitata tutta la storia della musica italiana e le nostre vicende private si sono intrecciate a quelle pubbliche del mondo dello spettacolo, legandosi a quelle di cantautori famosi, case discografiche nobili e decadute, grandi festival, trasmissioni radiofoniche e programmi televisivi. Non so dirvi che cosa di lei mi abbia affascinato di più.


Mara Maionchi Alberto Salerno

So solo che, da quel giorno in cui ci presentarono fuori dagli uffici della Ariston Records, non ci siamo mai lasciati davvero.

La prima volta in cui vidi Alberto stavo uscendo dall’ufficio. Si può dire che lo conoscessi già, attraverso le parole di suo padre, Nicola Salerno detto Nisa, che di lui e dell’altro figlio Massimo andava fierissimo. Ne parlava continuamente, ma mai mi sarei immaginata di trovarmi davanti una persona tanto diversa da lui. Nisa era esplosivo, caciarone, istrionico. Per questo andavamo molto d’accordo, ci divertivamo a stare insieme, facevamo chiacchierate infinite, in cui perlopiù lui parlava e io ascoltavo estasiata. Lui parlava, parlava, parlava: se ti acchiappava nei corridoi potevi dire addio al tuo pomeriggio lavorativo, era impossibile sfuggire alla sua parlantina trascinante. Era molto galante, sempre ben vestito, un affascinante uomo mediterraneo. Alberto era ed è l’esatto opposto, forse mi è piaciuto proprio perché era così diverso da me. Non si può dire che fosse scontroso, ma era molto riservato, di poche parole, quasi imbronciato, perso nei suoi pensieri. Aveva nomea di sciupafemmine: a quei tempi aveva una ragazza ufficiale e un lungo codazzo di amiche «ufficiose». Piaceva alle


Non ho l’età

ragazze, forse per il fascino misterioso e la fama di musicista. Anche se era giovanissimo, era già stimato nel settore: si diceva avesse ereditato dal padre il talento del paroliere. Fui subito attratta da lui, non posso negarlo, ma ci separavano nove anni, e a quei tempi mi sembravano tantissimi. Io ero una donna e lui un ragazzino: molto seducente, conturbante, ma pur sempre un ragazzino. Per questo decisi di togliermelo dalla testa. No, l’Alberto per me non andava bene.

♪ La Ariston Records fu fondata a Milano da Alfredo Rossi agli inizi del 1964. La sede dell’etichetta discografica, che in breve tempo ebbe grande successo, era nella centralissima via Pattari, appena dietro il Duomo. Bruno Lauzi, Ornella Vanoni e Mino Reitano sono solo alcuni degli artisti lanciati dalla Ariston negli anni Settanta, ma anche i Matia Bazar, Donatella Rettore e Fiorella Mannoia devono la loro fortuna all’intuito di Rossi. In quel periodo, io, giovanissimo, ero un divoratore di musica. Ascoltavo i pezzi scritti da mio padre, ma provavo una curiosità morbosa verso tutto quanto era nuovo. Mio fratello Massimo, più vecchio di qualche anno, mi procurava


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molti dischi: eravamo, è vero, privilegiati rispetto a tanti nostri coetanei. A casa nostra il giradischi non era mai fermo. C’erano gli italiani, Gianni Morandi, Adriano Celentano, l’Equipe 84, Bobby Solo per dirne alcuni, che piacevano moltissimo a noi giovani, e poi c’erano gli stranieri, i Beatles su tutti. Li adoravo, sentivo nella loro musica la rivoluzione. Vera innovazione, qualcosa che aveva fatto, prima di loro, solo Elvis Presley. Ricordo ancora con grande emozione la prima volta che li vidi suonare dal vivo: un’esibizione di un’ora appena, al velodromo Vigorelli di Milano, stipato di ragazzi in delirio per la band britannica. Era il 24 giugno 1965. Gli stranieri allora faticavano ad arrivare in Italia, le loro esibizioni dal vivo erano rarissime e, salvo che alla Bussola, era impossibile vederli in concerto. La distribuzione inoltre non era come ora, globale e in contemporanea: poteva volerci anche un anno prima che un pezzo inglese o americano sbarcasse da noi. Nascevano così degli strani casi di «sovrapposizione» per cui la versione italiana di un pezzo (per esempio, Io ho in mente te dell’Equipe 84) si poteva ascoltare in Italia prima dell’originale inglese (You were on my mind di Barry McGuire). Oggi, ascoltando entrambi i pezzi, pochi saprebbero dire quale delle due versioni sia nata prima.


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Arrivai alla Ariston Records dopo aver risposto a un annuncio di lavoro sul «Corriere della Sera». Era il 1967, mi ero da poco trasferita a Milano, inizialmente vivevo a casa di mia sorella. Ero entusiasta di vivere nella città più vitale d’Italia, la sentivo simile a me: pulsante, intraprendente, attiva, coraggiosa, un po’ fuori di testa. Ero felice di essere sfuggita al noioso tran tran di provincia che avevo a Bologna. Che, in sé, non aveva nulla di sbagliato, ma era come se sapessi prima quello che mi sarebbe successo se fossi rimasta là: qualche anno come impiegata, poi avrei trovato un fidanzato carino, mi sarei sposata, sarei rimasta incinta, e infine mi sarei licenziata per dedicarmi alla famiglia. Quello che facevano un po’ tutte le mie coetanee a quei tempi. Addio occupazione, addio indipendenza, addio vita mia! In quegli anni non sapevo ancora cosa volevo fare in futuro, ma ero certa di non voler fare quella fine lì. Volevo continuare a lavorare, soprattutto, perché mi è sempre piaciuto. L’ho sempre considerato un mezzo per apportare cambiamenti, e quindi miglioramenti, non soltanto nella mia vita, ma in ogni progetto di cui ho fatto parte. Non è stato solo una forma di emancipazione, o il tramite per potermi permettere qualche piccolo lusso, ma prima di tutto un modo per sentirmi realizzata, attiva, dinamica. Bologna mi stava stretta, così quando mia sorella si


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trasferì a Milano per seguire il marito, colsi l’occasione, lasciai l’impiego che avevo in una società di spedizioni internazionali e partii per il Nord. Giunta a Milano uno dei primi posti che trovai fu in un’azienda che produceva antiparassitari per l’agricoltura e, quando anche quello mi andò stretto – la verità è che mi annoiava a morte – passai all’ufficio tecnico di una ditta che fabbricava sistemi antincendio. Qui mi toccò la peggior lavata di capo della mia vita. Il signor Müller, il direttore generale, visto e apprezzato il mio impegno, mi chiese di rivedere alcuni conti. Io, seppur titubante, ero entusiasta all’idea di potermi cimentare con qualcosa di nuovo, di importante, così feci quello che mi era stato chiesto. Quando mi accorsi, che i conti dell’azienda non tornavano, decisi di chiedere spiegazioni al direttore commerciale. Andai da lui e, candidamente, gli sottoposi il problema. Non la prese bene. Si mise a urlare, rosso in volto e vene del collo che pulsavano pericolosamente. Mi seppellì sotto una valanga di insulti. Quando gli risposi a tono, lui alzò ancor di più la voce, rincarando la dose, intimandomi di andarmene. Afferrai la maniglia decisa a fare un’uscita di scena che non passasse inosservata, sbattendo la porta. Fu allora che la chiave cadde dalla serratura.


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«La raccolga!» mi intimò il direttore commerciale. Sono sempre stata un tipo ribelle ma la rigida educazione che mi avevano impartito i miei genitori mi imponeva di raccogliere quello che avevo fatto cadere. Eppure non volevo cedere. Tutta quella faccenda non dipendeva da me: non era colpa mia se il signor Müller mi aveva chiesto di riesaminare i dati, non era colpa mia se sapevo fare bene il mio lavoro e non era colpa mia se avevo trovato delle incongruenze gravi! E quando mi ero rivolta a lui per far presenti le mie perplessità, avevo commesso un errore per troppa buona fede. E per inesperienza. Raccogliere quella chiave, obbedire a quell’ordine così imperioso dopo che ero stata non solo redarguita, ma pesantemente insultata, era un affronto che non potevo tollerare. Guardai la chiave a terra, poi lui, con aria di sfida. Come spesso mi sarebbe capitato anche in seguito, pensai di sfruttare quella posizione di inferiorità a mio vantaggio. Alla fine raccolsi la chiave e la appoggiai garbatamente sulla sua scrivania. «Sa dove se la può mettere?» gli dissi, prima di uscire. Ero di nuovo disoccupata.


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