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Marianna pensava che soffrire fosse un modo sicuro per ottenere successo. Sempre più spesso mi diceva che non mi impegnavo abbastanza per avere ciò che desideravo. «Il segreto è saper fare una cosa meglio di tutti. Non c’entra nulla la bravura o l’ambizione», sentenziava guardandomi negli occhi e invidiando i miei denti perfetti, «conta solo soffrire.» Pesava una dozzina di chili in più del normale, una condizione comune a quasi tutte le ragazze della nostra classe. Le uniche magre eravamo io e Anna. Desiderava essere bellissima e famosa e coltivava interessi vagamente artistici, portatori certi, a suo dire, di celebrità e denaro. Da quando la conoscevo, inizialmente aveva avuto l’ossessione per il canto. Si esercitava tutti i pomeriggi da sola nella sua stanza, nello stereo una musicassetta dei suoi cantanti preferiti e lei ad arrancare appresso. Poi fu il momento del ballo: improvvisava coreografie su pezzi hip-hop e si iscrisse alla scuola più costo-
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sa della provincia, salvo smettere qualche settimana dopo «perché quelle lì erano troppo veloci». Erano più agguerrite di lei, lo sapeva, e rinunciò. Quindi decise di imparare a suonare la chitarra, ma dopo poco realizzò che non stava imparando in fretta. «Quelli capaci a quindici anni suonano già in giro.» «Ma chi lo dice, Marianna?» «È così.» «Ma che ne sai?» «Lo so. Lo leggo.» «Dove?» «Lascia perdere, tu non capisci.» Mi zittiva, a me non dava fastidio: mi permetteva di non sentirmi obbligata a fare conversazione. Era irrequieta. Mi raccontava dei suoi genitori in continuo litigio, di suo fratello, Osvaldo, che non le parlava più, atterrato su un universo illeggibile e invivibile per chiunque, oltre a cantilenarmi l’impossibilità di diventare una musicista, da grande. Da qualche mese tutti, attorno a me, sembravano colti da una insana tensione verso il corpo altrui, la bellezza esteriore, i jeans a vita bassa e la lotta ai brufoli. Era successo qualcosa tra l’inizio e la fine dell’estate prima del liceo, a me totalmente ignoto e che Marianna tentava di emulare. In classe, i compagni trascorrevano buona parte del tempo a scambiarsi bigliettini, passarsi compiti,
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mettersi d’accordo per le interrogazioni e per le uscite del pomeriggio, riempire pagine con citazioni e parole eterne. Il passaggio dei diari tra i banchi non mi coinvolgeva: ero fuori area, quasi invisibile, con il mio posto singolo prossimo alla finestra. Marianna, invece, veniva evitata di proposito, suo malgrado. Le ragazze si prestavano i trucchi, appena possibile andavano in bagno per darsi suggerimenti su come sistemarsi i capelli, ululavano segreti su ragazzi, assorbenti e reggiseni in un unico chiacchiericcio, frullato e colorato; si affacciavano alla vita proprio in quei giorni e avevano la necessità straripante di dirlo a chiunque eccetto noi due. A me stava bene. A Marianna no. Anzi: mi rivoltava lo stomaco sapere che eravamo due; intuivo che eravamo altro, giocavamo alla solitudine senza averlo deciso, senza che io lo volessi, e il nostro mondo ci pensava sempre insieme, non riuscivo a defilarmi: un duo comico niente affatto divertente. Marianna provava a mimetizzarsi, vestendo come le altre o invitandole a feste a cui non partecipavano. I suoi sforzi erano palesi e per questo la sua situazione ridicola. Nessuno la sopportava, perchÊ era un eccesso: troppo ricca, troppo brutta, troppo noiosa. Io invece venivo considerata una poverina, una che non aveva colpa di nulla, una sorta di figlia del destino,
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con cui sarebbe stato cinico prendersela. Non mi piaceva fare la vittima, ma questo atteggiamento mi metteva da parte ed era l’unica cosa che mi interessava sul serio. Mi nascondevo, e stavo bene. Non mi impegnavo per fare amicizia; ci avevo già provato alle medie e avevo fallito, ritrovandomi tra i piedi Marianna. Aspettavo con ansia il periodo delle nostre vite in cui sarei tornata a stare veramente da sola. Finirà anche il liceo, pensavo. Marianna andrà via, all’università. Mi rasserenava questa prospettiva. Avrei proseguito nel mio proposito di disprezzarla in silenzio per tutto il tempo necessario, se un giorno non mi avesse chiesto aiuto, in modo diretto e sincero, cogliendomi totalmente impreparata; non avevo idea di cosa avessi fatto per meritare quella punizione. «Mi aiuti?» mi implorò come se fossi la sua ultima occasione. La ricreazione era vicina. Sbadigliavamo e fissavamo l’orologio al muro tutti, tranne Marianna che aveva una mano sul sottobanco di legno. Tastava la consistenza della sua rosetta con la mortadella, calcolava quanto gommosa sarebbe stata la mollica del pane e, di ritorno da scuola, il volume delle urla di sua madre, dopo averle controllato i residui di cibo nell’apparecchio per i denti e averla sgridata perché
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aveva mangiato la mortadella. Avrei giurato che la campanella avesse suonato con qualche secondo di anticipo. Marianna era al suo posto, aveva già addentato il primo pezzo di panino, mentre il gruppo compatto usciva dalla classe e io con lentezza prendevo un’arancia e il walkman per andare in giardino. Come sempre, da quando nessuno mi faceva più i dispetti, inforcai le cuffie, premetti «play» e mi accorsi di Marianna che mi stava contemplando, denti e mortadella tra il ferro ben in vista. Mi afferrò l’indice mentre le scivolavo accanto e l’unto del panino si insinuò tra gli anelli: «Mi aiuti?» Mangiava composta, ma veloce: non perdeva il contegno del corpo, intrappolato in una volontà rapace e istintiva. Si puliva la bocca con la carta marrone, aspettando la mia risposta, trapanandomi gli occhi insistente. Non vedeva l’ora. Ogni tanto si girava verso di me, ma non le davo soddisfazione, poiché rimanevo concentrata sul mio banco con le bucce di arancia sullo scottex. Non ero la persona più disponibile, né davo la sensazione di essere gentile. Nessuno mai mi aveva chiesto alcunché. C’era stato un tempo in cui a ricreazione mi sedevo sotto a un albero ad aspettare che finisse quel tormento, in mezzo alla confusione, squadrando la folla. Adesso, invece, la giudicavo dall’alto, una condizione nuova e superiore: ciondolava, si ammassava
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per poi, a tratti, raggrupparsi in sottoinsiemi piccoli e distinti, rideva, mangiava, tentava approcci maldestri. Starne fuori non mi dispiaceva. Il giardino era un altrove che non ci includeva, in cui eravamo spettatrici della scena più importante della giornata di un adolescente. La classe era ovattata, niente si muoveva. «Allora, mi aiuti?» ripeté. «Eh?» «Vieni in bagno con me?» «Per fare cosa?» «Guardarmi in bocca, se ho delle cose in bocca; io mi lavo i denti e poi tu controlli se c’è ancora qualcosa.» Rimanevo alla finestra, mentre lei assomigliava a un cucciolo scodinzolante. «No.» «Per favore», stavolta aggiunse, «per favore.» Il mio no non era stato mortificante per lei. «Mi fa schifo, Marianna», rincarai la dose. «Ti prego», ribadì più convinta, io le davo le spalle. I suoi occhi erano docili, piccoli. I miei algidi, razionali. «Ma perché?» domandai lasciandole uno spiraglio. «In bagno non ci sono specchi», mentre i pollici delle mani strizzavano un lembo della sua maglietta. «E quindi?» la incalzai.
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«Mi aiuti tu?» «Ma perché?» «Mia madre non vuole che io mangi la mortadella a ricreazione.» «Eh?» «Dice che è grassa.» Fece una pausa in cui l’ultima sillaba di «grassa» ritornava con un’eco. «Che io sono grassa», disse abbassando il tono e mutuando la colpa dal corpo di sua madre. Non risposi e rimasi alla finestra. Notai Anna, punto centrale di un cerchio umano anonimo: dall’alto le teste di tutti erano esattamente uguali, le gambe ferme allo stesso modo, i gesti si riflettevano. E lei rideva, attorcigliandosi le ciocche di capelli al dito. L’istinto mi suggeriva di voler essere lì, al suo posto, di cederle l’opportunità di ispezionare la bocca di Marianna, il mio walkman e l’odore di arancia. Pensai violentemente, stringendo talmente tanto gli occhi che iniziò a farmi male la testa. Immaginai il resto della settimana: le mie arance ben masticate, lunghe e silenziose, e il rumore delle sue mandibole in sottofondo, che rimbalzavano sulla lavagna e poi cadevano a terra, che accompagnavano i suoi morsi e la mia fatica nel rimanere lì seduta assieme a lei. Marianna mi sorprese, per questo non seppi dirle di no. Eravamo noi due: io inclusa nel suo mondo,
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una cosa che definiva irrimediabilmente una prospettiva. Chiunque, da quel giorno, avrebbe visto su di noi la stessa ombra. Mi girai di scatto. Lei era ancora lì. Provai pena e fastidio, sempre più incalzanti, adesso ero io a puntarla, finché sentii la commozione, tutta in una volta, asfissiante. Mi rigirai e mi scese una lacrima, avvertii Marianna sospirare, mentre accartocciava la busta marrone del panino. «Andiamo?» disse piano, ostinata. Non dissi sì, ma mi avviai verso la porta e la feci uscire prima di me. Camminammo una dietro l’altra, io un passo dopo di lei nel corridoio semideserto. «Sei molto bella, tu.» Per fortuna in bagno eravamo sole. «Gra-grazie», balbettai. «Sei bella anche se ti vesti male. Sono brutti», commentò, mentre sputava saliva e dentifricio. «Ma tanto non ti servono vestiti belli.» «Cos’hanno i miei vestiti?» Era un buon argomento, rendeva tutto facile. «Lascia perdere, ora guarda!» Spalancò la bocca: il suo alito era nauseabondo. «Marianna, secondo me tua madre capisce tutto dall’alito, non dai denti.» Ci pensò qualche secondo. «Cioè?»
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«Il tuo alito fa schifo.» «Ma ho lavato i denti!» «Non basta.» «Ecco! Ecco come fa!» «Tieni», dissi porgendole un pacchetto di caramelle alla frutta che avevo in tasca. «Non posso mangiarle.» «Perché?» «Perché hanno troppo zucchero e mia madre…» «Ho capito, ho capito.» Mi scappò un sorriso, lei mi seguì. Marianna e io non ridevamo come Anna, non avremmo mai potuto; quella bocca non aveva problemi, era efficiente e attraente, lucida al sole e rosa all’ombra. Anna si muoveva elegante e disinvolta, dimostrava molto più fascino di noi e catalizzava l’attenzione di chiunque, sì; era fin troppo perfetta, quindi mai commovente: questo era il suo grande difetto. Marianna, invece, mi aveva intenerito, con due parole mi aveva detto quanto fosse sola e quanto, secondo lei, lo fossi anch’io. «Mangiale lo stesso e dille che sono Dietorelle», sussurrai con mia inaspettata complicità.
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