A tutti coloro che sono a casa ad aspettarmi quando, per inseguire palloni e sogni, devo andare lontano. A Francesco e Beatrice Athina perchĂŠ si sentano sempre liberi di inseguire palloni e sogni in ogni parte del mondo.
Poesia es lo imposible Hecho posible. Arpa Que tiene en vez de cuerdas Corazones y llamas. Federico GarcĂa Lorca
LA STORIA
Questa è la storia di quello che successe a Leticia, un piccolo paese del Sudamerica, durante una quindicina di giorni nel giugno del 1952. Questa è la storia di un allenatore di calcio visionario, forse rivoluzionario, senz’altro poeta e probabilmente un po’ pazzo. Questa è la storia di una squadra di pessimi calciatori capaci di credere in un allenatore che ai loro occhi era certamente visionario, rivoluzionario, poeta e pazzo. Questa è una storia di sogni, ideali, politica, libertà, emigrazione, dolore e poesia. In mezzo c’è sempre un pallone di cuoio, marrone come il cioccolato, cucito a mano. Questa è una delle tante storie che dimostrano che lo sport può cambiare il mondo. In meglio. Se non ci credete fermatevi qui. Se ci credete andate avanti.
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Amazonas, capital de las sĂlabas del agua, padre patriarca, eres la eternidad secreta de las fecundaciones, te caen rĂos como aves, te cubren los pistilos color de incendio, los grandes troncos muertos te pueblan de perfume, la luna no te puede vigilar ni medirte. Pablo Neruda, Canto General
LA FOTOGRAFIA
Il maestro di fronte al fiume piange. Sempre. Seduto sulla sponda, accarezza una fotografia in bianco e nero posata sulle sue ginocchia. Piangendo. Dopo un po’ si addormenta. Poi si alza e, lamentandosi, torna a casa. Il maestro non riesce più ad alzarsi presto la mattina. D’altra parte non gli servirebbe a molto: il tempo gli è senz’altro sufficiente per guardare il fiume e la foto. Quando il maestro è seduto davanti al fiume passa sempre qualcuno che si ferma a guardare lui. È emozionante guardare il maestro seduto e impegnato in quell’attività immobile, perché José Luis Barrera non guarda il fiume come farebbero tutti, con lo sguardo perso nel vuoto a cercare l’altra sponda. No. Lui lo guarda intensamente, come se stesse fissando qualcosa in un punto esatto sotto l’acqua. Lo guarda per cercarci qualcosa dentro. Una stra-
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da, un percorso, una traccia. Come se stesse inseguendo la corrente giusta. Sostengono a Leticia che nessuno ha mai guardato il fiume come José Luis Barrera, anche se non si riesce a capire il perché. Quando invece il maestro guarda la fotografia tocca a lui emozionarsi. È salata l’acqua che allora si impadronisce dei suoi occhi di vecchio, segnati dal tempo. Quell’acqua salata gli riempie lo sguardo e, in quel momento, è come se fosse il fiume a guardare dentro di lui, cercando, in fondo, dentro alle pupille e probabilmente un po’ più in giù, una traccia e una strada. Da quando è arrivato dall’Havana è così ogni santo giorno: José Luis Barrera guarda dentro al fiume e poi il fiume guarda dentro a José Luis Barrera. E quando un fiume come il Rio delle Amazzoni ti guarda dentro è difficile sostenere il confronto. Così quella gara non finisce mai pari e alla fine il maestro posa la sua foto con cura e si addormenta, spossato come dopo una partita importante e, quasi sempre, persa. Dorme, il maestro, seduto sulla riva del fiume. La fotografia sulle ginocchia. Dentro alla foto i ragazzi. In mezzo ai ragazzi, Ernesto.
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PASSIONI
Dicono che il maestro José Luis Barrera sia un grande scacchista ma da quando è arrivato a Leticia non l’ho mai visto giocare. E poi gli scacchi non mi piacciono: sono solo tattica, niente forza fisica. Io amavo correre, prendere e dare botte. Io amavo il tackle. Anche se sono passati tanti anni il calcio mi è rimasto nel sangue, perché è stato il calcio a cambiare la mia vita. Pensavo che non avrei mai avuto nulla a che fare con quell’uomo. Sbagliavo. Il maestro Barrera era un uomo vecchio e visibilmente segnato. La pelle scura, dura, raggrinzita del volto l’avrebbe potuto far confondere con uno dei pescatori che dal Brasile risalivano il Rio delle Amazzoni su delle chiatte improvvisate, per arrivare al porto fluviale di Leticia e vendere un po’ di pesce a qualche peruviano di passaggio. Perché lo sanno tutti qui che i colombiani il pesce se lo pescano da soli.
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Chi ha avuto la possibilità di scambiare qualche parola con il maestro Barrera sostiene di non aver capito chi fosse o da dove venisse. Di lui si conoscevano solo tre cose, anzi tre passioni. Per una donna, il gioco degli scacchi e Cuba. La donna pare fosse una poetessa argentina, di nome Alfonsina. La storia raccontava di Alfonsina e del maestro ospiti di un modesto albergo a Mar del Plata, in Argentina, di una poesia consegnata dentro a una busta con l’indirizzo della redazione del quotidiano «La Nación» e di una spiaggia sull’oceano che il maestro chiama «La Perla» e da dove, qualche volta, si vedevano i leoni marini. Ma quella storia non finiva mai: dopo poche parole, recitate quasi a memoria e sempre con lo sguardo fisso verso il fiume, acqua salata di lacrime gli riempiva gli occhi. In quei momenti sembrava che il maestro stesse affogando.
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IL CAPITANO DELL’INDEPENDIENTE SPORTING
Un giorno, ed era l’ultima cosa che mi aspettassi, il maestro mi si avvicinò. «Raccontami del giugno del 1952», mi disse. Poi mi fece vedere quella sua fotografia e quasi mi prese un colpo. Su quella foto c’era l’Independiente Sporting. Mi guardò dritto dentro agli occhi, come quando si sta per chiedere una cosa davvero importante. Mi guardò dritto dentro agli occhi, come se volesse prendere la mira. Poi, a bruciapelo, premendo il grilletto mi chiese, quasi sottovoce: «Tu sei stato un giocatore di questa squadra?» «Accidenti se lo sono stato, maestro Barrera. Accidenti. Io ero il capitano dell’Independiente Sporting.»
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IL DRIBBLING
Ho giocato a calcio fin da bambino, anche perché a Leticia non è che si potesse fare molto altro. Mio padre mi portava al campo di terra rossa con dei pali arrugginiti a segnare lo spazio del goal. Mi portava la mattina e poi aspettava, a bordo campo. Mi guardava giocare e aspettava. Come se fosse la cosa più importante del mondo, come se fossi un giocatore vero, come se quel campo fosse uno stadio famoso. Io giocavo e lui mi guardava, immaginando per me chissà quale futuro, sognando chissà quale dribbling che mi avrebbe portato via da Leticia. Sono passati tanti anni e vivo ancora qui. Anche mio padre è ancora qui, nel cimitero sulla collina da dove si vede tutto il paese, campo di calcio compreso. E anche quel campo è ancora com’era allora: la stessa terra rossa, che quando secca è dura come il marmo ma che, quando piove, si incolla alle piante dei piedi, gli stessi pali arrugginiti, gli stessi bambini che giocano e gli stessi padri che guardano i loro figli giocare sperando, sognando, implorando
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per loro un futuro diverso. In attesa di quello stesso dribbling che era il sogno di mio padre, in attesa di quel dribbling che sognano tutti i padri del mondo quando vedono il proprio bambino giocare al pallone. In attesa di quello stesso dribbling che aspettano, in tutto il mondo, tutti quelli che vivono in un posto come Leticia. Quel dribbling, di solito, non arriva. Mai. Era così ai tempi della mia giovinezza, e in fondo è così ancora oggi. Qualcosa era successo, però. Qualcosa di diverso era capitato, nei quindici giorni più incredibili della storia dell’Independiente Sporting. Sembra non sia cambiato nulla, ma non è vero. Perché io sono cambiato, e non solo io. Qui è cambiato tutto da quando ha allenato Ernesto.
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CONFINI
Non sapevo bene chi fosse Ernesto. Però sapevo che era un buon portiere e soprattutto un grande allenatore. E sapevo che giocare per lui era meraviglioso, come era meraviglioso vederlo giocare. Soffriva, per via dell’asma, ma credo che quella sofferenza gli piacesse. Sembrava nato per giocare e per sfidare la sofferenza. Sembrava che si divertisse nel cercare le cose più complicate. Adorava tutto ciò che lo metteva in difficoltà. Era nato per giocare, ma anche per insegnare, e quello che insegnava andava oltre il gioco del pallone. Ernesto era argentino, come il suo amico Alberto. Non saprei neanche dire da dove arrivarono. Dal fiume, dice qualcuno, ma, dico io: cosa ci facevano due argentini nel fiume? Leticia è in Colombia, anche se solo per la cartina geografica, perché il concetto di nazione qui è abbastanza insignificante. Leticia ha un porto fluviale e tre confini: se sei nato a Leticia puoi andare al mattino in Perù, il pomeriggio in Brasile e la sera tornare a dormire
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in Colombia. Ma se sei nato a Leticia è probabile che tu non esca mai dal campo di calcio. Perché il quarto confine di Leticia è il suo campo di calcio. Più che un confine è un’isola, un territorio a parte dove valgono le leggi universali del calcio, dove chi vince prende per il culo chi perde anche se fra chi perde c’è chi è più ricco di chi vince. E chi perde accetta di buon grado perché, di tanto in tanto, fa persino piacere conoscere la sensazione della sconfitta. Invece la povera gente sa bene cosa vuol dire perdere e allora aspetta quei momenti di rivincita come un attimo che devi essere pronto a prendere al volo e ubriacartene. Perché poi passa. L’Independiente Sporting di Leticia aveva perso sempre, da sempre, per tutta una vita. Poi, dal fiume, arrivarono gli argentini e per quindici giorni ci rispettarono eccome. Ci rispettano ancora oggi, perché qui ha allenato Ernesto.
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