OK RAGAZZI!
Milano-Roma 1979, 2014
«Ragazzi, è fatta! Ne pigliano tre, se non facciamo cazzate lavoriamo tutti insieme in Rai.» Io, Gianni e Leopardo siamo partiti in aereo da Linate. Il clima fra noi era quello della gita scolastica. Eravamo amici, ci abbracciavamo, facevamo casino. Sapevamo di meritare quei tre posti e stavamo andando a Roma a prenderci ciò che ci spettava. «Avete tre minuti a testa», ci spiegarono, «dovete annunciare i dischi della Hit Parade, farli suonare ognuno per qualche secondo, poi staccare e annunciare un ipotetico ospite in studio.» Già che potevamo inventare, tanto valeva farlo alla grande. Così presentai i Beatles! In quel periodo si parlava di una possibile reunion dei Fab Four e pensai fosse un’idea vincente. Il mio annuncio iperbolico fu accolto dalle risate dei miei colleghi dj che assistevano al provino: «Eh la Madonna!», «Sì, vabbè, e poi?»… L’immagine riflessa nel vetro è un uomo, con una giacca blu sopra una camicia bianca stirata e i capelli lunghi, che porto così da quando ho potuto decidere io. Guardo il riflesso, mi riconosco, sorrido. Nell’iPad ho una dozzina di file scritti fitti, immagini e video digitali e una presentazione in Pdf. Il tutto anche in una chiavetta Usb. Sono le mie nuove armi, i miei attrezzi del mestiere.
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In diretta
Ogni volta che devo andare a Roma, sento che sto per fare qualcosa di più grande di me. A volte la sensazione arriva addirittura la sera prima. Forse è il ricordo inconscio di quel viaggio che, nel 1979, mi ha portato al provino di Discoring. La sensazione di andare verso il futuro oppure verso il niente che ho provato allora è rimasta addormentata alla fine dei miei pensieri e si risveglia ogni volta che la scena si replica. E anche oggi, al caldo di un vagone Business del Frecciarossa, sono in leggero allarme, in sospensione. Quando il treno si ferma, prendo il giubbotto dal sedile di fianco al mio, cammino fino alla porta e scendo. Fuori, la città va di corsa. C’è il sole, nell’aria soffia vento di mare. Si sta bene. Controllo l’orologio, manca un’ora all’appuntamento. Decido di rallentare, di fermarmi un attimo. Voglio fare quello che non faccio mai, guardarmi intorno senza un vero scopo. I turisti cinesi salgono sui bus panoramici. Gli uomini in giacca e cravatta camminano a cento all’ora con i loro piccoli trolley. Alcune suore controllano una vecchia cartina, prima di attraversare la strada. Un ragazzo vuole vendermi un paio di calze. «Tengo famiglia», mi dice. È simpatico. Le compro. Più in là, verso il bar, un gruppo di ragazzini gioca a pallone. Scattano, urlano per farsi passare la palla, si arrabbiano per ogni fallo e si disperano per un tiro sbagliato. Hanno l’età di Leonardo, il più piccolo dei miei figli. Devo muovermi. Vedo un taxi libero. Seduto sul sedile posteriore ricontrollo velocemente clip e presentazione. Di programmi ne ho pensati tanti, alcuni li ho solo presentati, altri costruiti da zero. Ho prodotto decine di dischi, ho
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Ok ragazzi!
fondato Radio, progettato software, scelto vinili in consolle in discoteca e firmato contratti per me e per i miei artisti. In tutti questi ruoli ho imparato che non esistono due situazioni uguali. La trattativa per StarCube per me sarà l’ennesima prima volta. La prima volta che propongo questo programma. La prima volta che propongo un attitude show dove «la voce non è tutto». Il resto è nella mia testa. Metto gli occhiali da sole e guardo la città che scorre oltre il finestrino, strada dopo strada, casa dopo casa. Il taxi attraversa gli stessi viali alberati che ho percorso quando ho fatto il provino di Discoring. Ci risiamo: sono qui a giocarmela, nella città degli imperatori e del traffico impossibile. Comincio a sentire l’adrenalina che sale e la sensazione mi fa sorridere. Finalmente mi riconosco. Sono io, Claudio Cecchetto da Ceggia, paese di seimila anime in provincia di Venezia. Sono io, e ci sto provando ancora.
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NASCERE
Quasi tutto quello che c’è oggi a Ceggia è più giovane di me. Supermercati, semafori, villette a un piano con l’auto sotto il porticato e l’antenna parabolica, tutta roba che è venuta dopo. Quando sono nato io c’erano il campanile, il canale Piavon che divide il paese in due, l’osteria di Turchetto, il vigile Piero Bilotto e lo zuccherificio dell’Eridania. Per il resto, la mia Ceggia era campagna e basta, persone e animali che vivevano insieme nello stesso posto. Galline, conigli, maiali e le mie amate mucche, che sembravano non annoiarsi mai, continuando a masticare all’infinito, tranquille e concentrate. Un’immagine familiare che nel 1970 mi fece scoprire Atom Hearth Mother dei Pink Floyd, uno dei miei album preferiti di sempre. Sono nato il 19 aprile 1952. I miei genitori si erano sposati due mesi prima, il 19 febbraio. Mi hanno raccontato gli zii che, nel giorno delle nozze, due erano le cose che si notavano: la pancia di mia mamma Ines, tonda e gigantesca, e il sorriso di mio padre Gino, da divo dell’avanspettacolo. «Ci si sposa con la donna incinta», teorizzava papà, «la famiglia non la fanno le torte e gli anelli di fidanzamento, la fanno i figli.» Un’immagine moderna del matrimonio, senza tabù, in
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linea con la sua visione della vita. Figlio, nipote e bisnipote di contadini veneti, mio padre era allergico alle imposizioni e aveva una certezza: lui il contadino non lo voleva fare. «Il trattore va avanti e indietro per i soliti campi», diceva, «io ho bisogno di strade sempre nuove.» Mio padre era un tipo da camion. Il camion va lontano, si infila nelle gallerie buie e ne viene fuori, ti porta a conoscere la gente che parla altri dialetti, altre lingue e ti riaccompagna a casa solo se lo vuoi. Col camion ti puoi perdere per il mondo. Tutte queste cose papà non le sapeva ancora quando io sono nato. Nel 1952 era solo un ragazzo di Ceggia che aveva sposato una ragazza di Ceggia. Si limitava a sorridere a tutti, e a raccontare quanto era bello suo figlio. Sono nato in casa, come usava in campagna. Le donne partorivano in camera da letto, assistite dalla madre e dalla levatrice. Mia mamma, che era orfana di entrambi i genitori, quando sono venuto al mondo aveva al suo fianco le altre donne di casa. Si viveva tutti insieme in un grande casolare in mezzo ai campi. A decidere i compiti erano le caratteristiche di ognuno: l’età, la forza fisica, l’abilità, la particolare predisposizione a fare una cosa piuttosto che un’altra. Non ci si poneva il problema della scelta, dell’aspirazione, del sogno. Ognuno aveva il proprio posto, in casa e nel mondo, come una specie di predestinazione naturale, non esisteva quella che chiamiamo «vita privata». L’unica dimensione era quella collettiva, le relazioni fra persone erano tutto e definivano l’identità di ciascuno. La vita di campagna era già social, prima che esistesse il termine. La casa era una community, fatta di legami, contatti, reciproca dipendenza e sostegno.
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Nascere
Un anno e cinque mesi dopo di me, il 19 settembre 1953, è nata mia sorella Daniela. Stessa sala parto: la casa dei nonni. I miei figli, invece, sono nati in ospedale. Jody è nato il 7 giugno 1994 alla clinica Madonnina di Milano. Ho vissuto quell’evento come una benedizione. A venticinque anni i dottori mi avevano detto che non avrei potuto avere figli. Per un po’ ho visto solo il lato positivo: ero un anticoncezionale vivente e mi sarei divertito senza problemi, ma quando ho conosciuto Mapi ho cominciato a pensarla diversamente. Un piccolo intervento chirurgico ha fatto il miracolo, e i nostri figli sono arrivati in modo naturale. Wow!!! Ho assistito al parto cercando di fermare quel momento irripetibile, stavo diventando papà, per sempre. Quando ho tenuto in braccio Jody per la prima volta, l’ho sentito così piccolo e così «nuovo» da aver paura di romperlo. Nella culla vicino agli altri bambini lo vedevo spiccare, era il più bello di tutti. Guardavo Jody e pensavo che avevamo fatto un capolavoro. Di colpo la faccia di Mapi si era trasformata in una faccia da mamma, come succede alla concorrente che vince Miss Italia. In un minuto, da ragazza carina, come tante, attraverso i coriandoli in caduta libera, gli applausi e la corona in testa, le viene la faccia da Miss. Nel 2000 sono diventato papà per la seconda volta. La sera del 20 marzo alle 21.30 siamo entrati nel reparto maternità del San Raffaele. Dopo una prima visita ci dissero che il parto non era imminente e che saremmo potuti tornare a casa. Vedevo Mapi preoccupata e sofferente, non aveva l’aspetto di
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chi poteva trascorrere una notte tranquilla. Arrivati nell’immenso parcheggio dell’ospedale mi sono reso conto che se l’avessi riportata a casa, il nostro secondo figlio sarebbe nato in macchina, sulla tangenziale. E avevo ragione. Nel tragitto di ritorno parcheggio-reparto, a Mapi si sono rotte le acque. Leonardo è nato alle 23.11, dopo quattro spinte, in maniera semplice e naturale, riempiendo la sala parto di un pianto pieno di vita. Era già grande dal primo minuto, fuori misura in lunghezza, magrolino dappertutto ma con un quadricipite da futuro calciatore. Quando me l’hanno messo in braccio ha immediatamente smesso di piangere, come se mi avesse riconosciuto e si fosse fidato di me. Mi ha fatto sentire da subito suo papà. Jody non era più «unico», era tenero e affettuoso con Leonardo, ma mi accorgevo che sentiva la mancanza dell’assoluta proprietà della sua mamma. Una sera gli ho detto: «So quello che provi, adesso la mamma è anche di Leo, è una cosa normale, ci vuole un po’ di tempo per abituarsi». L’ho abbracciato e ho aggiunto: «Ti capisco, è quello che ho sentito io, quando sei nato tu. Dai, guardiamoci un film insieme». Intanto, nell’altra stanza, Mapi allattava Leo.
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CRESCERE
Avevo tre anni quando papà decise di trasferire la famiglia a Milano. Basta campagna, siamo partiti in treno da Ceggia. Arrivati alla stazione Centrale di Milano mio padre chiamò un taxi. Era la prima volta che lo faceva in vita sua, tanti anni dopo sarebbe diventato taxista. La nostra prima casa era in piazza Napoli, vicino ai Navigli. Un’unica stanza, io e mia sorella dormivamo in fondo al letto dei nostri genitori, il bagno era sul ballatoio. A papà stare fermo non piaceva, se intravedeva la possibilità di migliorare le nostre condizioni di vita, anche solo di poco, coglieva al volo l’occasione. Da piazza Napoli, infatti, ci siamo trasferiti in un appartamento un po’ più grande, in via Inganni, alla periferia ovest della città. Qui mio padre ha comprato la prima radio, mi ci ha messo vicino e mi ha fatto una foto. Non avrei mai pensato che quell’immagine sarebbe diventata il simbolo della mia vita e che i giornali l’avrebbero usata così spesso per dire che la mia passione «era scritta nel Dna». Da via Inganni poi ci siamo spostati dall’altra parte della città, in via Merzario, a Lambrate, in un edificio giallino, senza balconi, proprio di fronte alla stazione. Per le prime tre settimane non sentivamo altro che il rumore dei treni che passavano a pochi metri dalle nostre stanze, giorno
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e notte. Pensavamo di impazzire. A un certo punto, però, il nostro orecchio ha messo in atto un sano ascolto selettivo che escludeva in automatico il rumore dei treni. La mente e il corpo, istintivamente, sanno che cosa è bene per noi e ci proteggono dalle aggressioni. È la conferma che la teoria dell’adattamento è valida: per sopravvivere devi modificarti. A Lambrate ho cominciato le elementari. Quando il tempo era bello, si usciva da scuola pensando a una partita di calcio. Si segnavano i pali della porta con le cartelle e il mio unico pensiero era giocare con i miei amici. Ho perso tre cartelle in un anno, le dimenticavo lì a fine partita. La terza però è stata ritrovata dagli spazzini. Per sapere a chi appartenesse l’avevano aperta e visto i miei voti. I loro commenti mi ferirono, per la prima volta credo di essermi sentito spiato, giudicato dal mondo degli adulti. Non so se quell’episodio abbia in qualche modo segnato il mio rapporto con l’idea della privacy. Probabilmente sì, perché ne sono un fermo sostenitore. Non mi piace spiare, ascoltare di nascosto le conversazioni, guardare nel cellulare di mia moglie o dei miei figli. È una questione di rispetto e di dignità. Delle persone cui voglio bene so quello che è giusto che io sappia, il resto fa parte della loro vita, della loro libertà e autonomia. Anche con gli artisti che ho prodotto è sempre stato così. Mi ha legato a loro un rapporto di amicizia, complicità e confidenza, ma non ho mai voluto «sapere tutto». Il filtro della privacy, che trattiene e difende te stesso e gli altri, mi ha permesso una gestione equilibrata e sana dei rapporti.
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Crescere
A sette anni i miei mi regalarono una bicicletta. Sì, l’avevano regalata a me, ma la scelta del modello indicava che quello sarebbe stato un bene comune: era una bici da donna, per permettere anche a mia sorella di usarla. Quel giorno mi sono tenuto il desiderio di qualcosa che fosse solo per me, ho imparato ad accettare che le necessità possono non essere solo mie e ho coltivato, anche in questa occasione, il valore della condivisione. Negli anni ne avrei fatto tesoro. Nulla può renderti felice nella chiusura del «tuo». L’aspetto social della felicità è stato alla base della costruzione del mio gruppo. Si lavora insieme e insieme si godono i successi, i ragazzi di via Massena lo sanno. Il successo è un gioco di squadra. La vita comunitaria di Ceggia mi ha dato l’imprinting. Mio padre era sempre in giro per l’Italia con il camion. A un certo punto, forse spinto da mia mamma che lo voleva di più a casa, aveva accettato un lavoro come custode notturno nella ditta di autotrasporti Bagnasacco, dove prima lavorava come camionista. Ci davano anche un alloggio gratuito ed è per questo che abbiamo traslocato in via Cialdini. La sera mi piaceva andare da mio padre perché attraversavamo i grandi spazi in cui erano parcheggiati i camion. Guardandoli immaginavamo quanta strada fosse in attesa di essere percorsa da quei giganti che dormivano. Mio padre soffriva, io lo capivo. Avrebbe voluto saltare sul camion, infilare la chiave e schizzare via da quella poltrona. Per lui guidare, muoversi, era una passione prima che un lavoro e invece il suo compito era proprio stare lì, fermo. Dopo un anno ne parlò con mamma e decisero che si sarebbe licenziato, perdendo il diritto all’abitazione.
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Continuavamo a cambiare casa e i posti in cui normalmente da bambino potevo incontrare i miei coetanei (la scuola o l’oratorio) erano sempre diversi. Ecco perché non ho amici d’infanzia a Milano, solo a Ceggia. Dal Comune ci fu assegnata un’abitazione nel villaggio degli «sfrattati» in via Chiesa Rossa. Era un’unica stanza di 40 metri quadri. La corrente elettrica veniva erogata per qualche ora la mattina e la sera. Per vedere la televisione dovevamo collegare il cavo dell’antenna alla maniglia della finestra. I miei genitori lavoravano e quindi stavo da solo per buona parte della giornata, per questo cominciai a frequentare l’oratorio. Loro non sono mai stati bigotti, soprattutto in mia mamma ho visto una fede vissuta in modo personale e intimo. Non ho mai avuto pressioni, la chiesa è stata per me un luogo di esperienze, ritrovo, accoglienza. A nove anni avevo iniziato a servire la messa insieme ad altri due bambini, poi sono stato nominato «capo chierichetto». I miei piccoli «colleghi» si offesero e abbandonarono l’incarico. Ci rimasi male. Purtroppo quando sei numero Uno è un casino. Ognuno vorrebbe essere lì, al tuo posto. I numeri Uno sono sempre «single»! Una domenica tutte le parrocchie si riunirono in una grande chiesa in zona Navigli per accogliere Montini, arcivescovo di Milano e futuro papa Paolo VI. C’erano almeno cento chierichetti, da tutte le parti della città, ognuno con una propria mansione. C’ero anch’io. Il mio compito era versare l’acqua sulle mani dell’arcivescovo e poi porgere il fazzoletto, affinché potesse asciugarsele.
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Crescere
Compiuto questo movimento, Montini rimase immobile, in attesa del passaggio successivo, che però avevo dimenticato. Per fortuna, proprio dietro di me, c’era il parroco che mi diede un colpetto e, da buon suggeritore, mi sussurrò di baciare l’anello. Non ho vissuto quel momento di incertezza con vergogna, ero esaltato per la presenza di una celebrità, l’arcivescovo. Forte stare vicino alle star! La mia vita sarebbe stata ricca di quel tipo di emozioni. Nel periodo trascorso in via Chiesa Rossa, papà ricominciò a lavorare come camionista. Questo significava lunghe assenze da casa, ma guadagni proporzionati all’impegno, che ci hanno permesso una nuova abitazione in affitto, in via dei Giaggioli 11, zona Giambellino. Nuovo indirizzo, nuovo oratorio e l’inizio delle scuole medie. Oltre a chierichetto, nell’azione cattolica, sono stato aspirante, boyscout, cantore, guardia svizzera nella messa delle dieci e venditore di «Famiglia Cristiana». Al San Murialdo, padre Marietto si dava da fare perché tutti i ragazzi avessero una possibilità nella vita. Voleva mettere il timido in condizione di superare la sua timidezza, e aiutare lo zoppo a vincere la corsa, il coach dei Forrest Gump. Un giorno venne un padre missionario per parlarci della sua scelta e rimasi abbagliato. Ci raccontò dei suoi viaggi, ci spiegò che il suo mestiere consisteva nell’aiutare le persone, la gente che soffre. Si sarebbe potuto fare carico di tutte le sfortune del mondo senza per questo perdere quei modi pazienti e gentili. Questo accese nella mia testa mille lampadine.
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Anche a me, pensai, sarebbe piaciuto essere utile alla gente, ma non avevo ancora capito come. Non sapevo che la frase più ricorrente che mi sarei sentito dire sarebbe stata: «Claudio, grazie, senza quello che hai fatto, la mia adolescenza non sarebbe stata così mitica». La sofferenza e il dolore mi spaventano, mi mettono a disagio, cerco di aiutare gli altri facendoli divertire! L’ho fatto per tutta la vita, in ogni avventura che ho intrapreso. Era, ed è tuttora, la mia speciale forma di egocentrismo. Se qualcuno è felice per merito mio, mi sento realizzato. Sentivo di non potermi occupare della sofferenza, non ne sarei stato capace, ma col tempo ho scoperto di saper «produrre» divertimento, di saper utilizzare i media per alleggerire, stupire, emozionare le persone. Occuparsi della parte ludica della vita è un modo di prendersi cura degli altri. A quattordici anni, in piena adolescenza, mi sono venuti i brufoli. Il mio carattere andava definendosi, la mia timidezza era sempre più evidente, e avevo anche il problema dei capelli. I Beatles portavano i capelli lunghi, gli Stones portavano i capelli lunghi e molti ragazzi nella mia scuola facevano altrettanto. Io no, perché mio padre non me lo permetteva. E questo nei rapporti con l’altro sesso era un handicap notevole, ne ero convinto. A un certo punto ho deciso di smettere di tagliarli. Le cose sono effettivamente cambiate. È stato più facile di quanto pensassi, è bastato considerare ingiusta un’imposizione. Quello che vale per i capelli, vale per le idee.
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Crescere
I miei genitori avevano deciso di traslocare un’altra volta, perché papà era riuscito a comprare una casa tutta nostra. Così, dopo l’appartamento di via dei Giaggioli venne quello di via Lanino, una piccola traversa di via Foppa. Ma non ero lontano dal Giambellino che, nonostante il nostro continuo peregrinare, consideravo il mio quartiere. Lì, almeno, avevo trascorso sei anni di fila.
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