La ballata di Dante

IL PRIMO CHE ARRIVÒ ALLA FESTA FU UN ASINO

Dante Celestino aspettava sulla porta gli invitati, quando vide comparire due lunghe orecchie stagliate di profilo contro il cielo del Sud. Poi la figura si disegnò con nitidezza.

Era un asino, veniva da lontano e zoppicava da una delle zampe posteriori, ma avanzava verso di lui come se fosse un vecchio amico, come se avesse un invito per la festa, come se qualcuno gli avesse riferito che Dante era un dottore degli animali.

Per i suoi modi intellettuali e un poco tristi, quando si trovava ancora abbastanza lontano – figura nera dentro a un sole giallo – Dante l’aveva preso per un angelo. Ma gli angeli volano, non trottano, e nemmeno zoppicano; meno che mai drizzano le orecchie come chi tollera senza lamentarsi un dolore insopportabile. E neppure guardano con occhi enormi, rossicci, pieni di nostalgia. Né scacciano le api con la coda. Né ti si presentano davanti muovendo le orecchie a mo’ di saluto. E siccome l’asino aveva fatto tutto questo, Dante non esitò a dargli il benvenuto e a pregarlo con un gesto di sedersi a un lato della porta principale per vedere se poteva diagnosticare la causa della sua zoppìa e aiutarlo.

Sebbene fosse vestito a festa, Dante si impadronì del lavoro che aveva fatto durante la maggior parte della sua vita negli Stati Uniti. Si tolse la cravatta e la giacca di fusta15

gno azzurro brillante, si arrotolò le maniche della camicia, si inginocchiò accanto all’animale ferito e iniziò a verificare l’entità della frattura. Nei quaranta minuti che ancora mancavano all’arrivo del primo invitato, Dante riuscì a trovare un listello di legno e a procurarsi un lungo ritaglio di stoffa col quale fasciò la zampa ferita del quadrupede.

Alla fine, collocò accanto alla porta della sala lo straniero claudicante il quale, nonostante un apparente grande dolore, non si era lamentato per tutto il tempo della steccatura, non aveva mosso le orecchie né agitato la coda, anche se non aveva potuto evitare che due grandi lacrimoni scivolassero dai suoi occhi enormi.

Un’ora più tardi, Dante Celestino iniziò a ricevere i suoi amici, e li fece passare nella sala comune dopo uno scambio di pacche sulle spalle. In piedi e abbigliato con i vestiti appena comprati a Portland, sorridente mentre riceveva le congratulazioni di tutti, il padrone della festa cominciò a sentirsi come l’amministratore di un circo quando saluta le signore e i signori dello stimato pubblico, ma scartò rapidamente questo pensiero e ricordò che era giunto il momento più importante dei suoi venticinque anni negli Stati Uniti e che stava mantenendo in grande stile la promessa fatta a sua moglie sul letto di morte.

Sistematisi i bottoni del colletto, Dante si mise a osservare con un certo stupore l’ampiezza della sala comune. Era immensa ed elegante. Le oltre novanta famiglie che vivevano nel condominio avevano diritto a usarla, benché a volte pensassero che era troppo sontuosa rispetto ai loro esigui appartamenti. Questi avevano al massimo due camere, ma ciò che aveva entusiasmato la signora Celestino quando si installarono in uno di essi erano state le dimensioni e la pretenziosità della sede sociale.

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– Qui festeggeremo i quindici anni di Emmita – aveva proclamato allora guardando la sua bambina che stava imparando da poco a camminare.

Ma un anno prima, la signora Celestino era morta senza avere l’opportunità di partecipare alla solenne festa che aspettava Emmita, e all’ospedale, in piena agonia, ebbe appena un momento per parlare con suo marito. Gli sussurrò all’orecchio la grande incombenza che gli lasciava.

– Non dimenticare la festa dei quindici anni – gli disse.

– Non dimenticare cosa?

– Non dimenticartelo. Devi organizzarle un festa dei quindici anni, l’anno prossimo, una festa in piena regola.

Per il resto della sua vita avrebbe ricordato quelle parole pronunciate con una voce ormai lontana e intermittente, alla maniera in cui i moribondi comunicano le loro ultime volontà. Mentre lavorava ai macchinari o curava le bestie, quando la luna diventava enorme e gialla o quando il vento soffiava da ovest, quelle parole ritornavano da lui. Tutto il tempo e adesso, luna su luna, Dante si sentiva felice di mantenere la sua parola. E in che posto!

– No…, accidenti, questi gringos sono davvero pratici – si diceva Dante ogni volta che pensava ai diversi usi che si potevano fare della sala comunitaria. In tutti gli anni vissuti lì, l’aveva vista servire da campo da basket, da scenario per le rappresentazioni natalizie, sala da ballo e centro di riunioni della comunità. Adesso, con l’aiuto di alcuni parenti e amici di buona volontà, e con i risparmi di vari anni, manteneva la parola data e stava trasformando la sala in uno splendido scenario di festa come quelli in cui si svolgono le esistenze e gli amori della gente che abita nelle telenovelas.

Improvvisamente, dalla stessa parte dell’orizzonte da 17

cui era comparso l’asino zoppo, fiammeggiò uno scintillio che poi risultò essere il muso di un veicolo argentato, e gli invitati si precipitarono alla porta quando venne annunciato l’arrivo imminente della regina del compleanno. Man mano che si avvicinava e mentre avanzava per le curve della strada, la forma argentata divenne nitida e alla fine si presentò come una lunghissima limousine con quattordici portiere e una lucentezza accecante che obbligava a guardarla con gli occhi semichiusi. Quando si fermò, l’autista vestito di nero scese agilmente per aprire la portiera che ostentava una corona regale, e da lì scese Emmita.

Le unghie, rosse. Le labbra, intense. Una riga blu sotto e sopra gli occhi. Il rimmel stendeva le ciglia, trasformandole in fili fluttuanti. Per la prima volta la bambina si era vestita da donna o da regina, e cercava di appoggiare il piede destro a terra, ma i tacchi alti rendevano difficile l’operazione. Alla fine si diede una spinta appoggiando le mani sul sedile della macchina, riuscì a fare un salto e ad avanzare sul tappeto rosso che la stava aspettando.

Da questo momento, fu tutto un gridare. Prima, gli applausi che non finivano mai, e poi il fragore acuto e metallico di una tromba aprì in due il cielo di Mount Angel per proclamare ai quattro venti e a tutta la gente del mondo che queste sono le mañanitas che cantava il re David e poiché oggi è il tuo santo, le cantiamo a te. Dopo una mezz’ora tutto tornò al proprio posto o ne trovò uno appropriato, il re David se ne andò in cielo, Emma fu condotta al suo trono, la limousine si fermò superba accanto alla porta della festa mentre proprio davanti a lei e sotto a un telo rosso, seduto sulle quattro zampe, l’asino zoppo completava il quadro.

Fasciata in un abito blu elettrico con lustrini d’argento e paillette che obbligavano a battere le palpebre, la maestra di 18

cerimonia spargeva una voce melodiosa che annunciava l’interminabile sfilata dei padrini. Il primo a passare fu il signor Egberto Longaray, di Guanajuato, sulla settantina, con cappello texano calcato fino al naso. Fu annunciato come il padrino di limousine perché era stato lui a noleggiarla.

Poi avanzarono don Manuel Montoya e sua moglie Socorro Montoya, e quando venne detto che erano i padrini dei fuochi artificiali, iniziò un applauso interminabile perché don Manuel era stato capace di organizzare qualcosa di impossibile negli Stati Uniti. In tutto il paese, i luminosi giochi pirotecnici si possono ammirare soltanto il 4 di luglio, ma la simpatia travolgente di questo peruviano residente nell’Oregon era riuscita a imporsi, ottenendo dal comune di Mount Angel il permesso di portarli non si sa da dove e di accenderli nel giorno della festa. Un palazzo fatto di cannucce e di polvere da sparo era stato edificato accanto alla sala comune, e si aspettava solo la mezzanotte per trasformarlo in scintille e stelle, fontane di fuoco e colombi di bengala, torce, bagliori e migliaia di luci in grado di illuminare tutto lo spessore del cielo e della vita.

La padrona del microfono annunciò poi i padrini di addobbo del locale, la signora Lulú e suo marito Gabriel Escobar, con le loro figlie Lulú seconda e Lulú terza. I quattro avanzavano preoccupati con gli occhi abbassati, come se temessero di aver trascurato un dettaglio e fossero pronti a correggerlo.

Poi si trascinarono gli stivali in pelle di coccodrillo di Carlos Montealegre, il padrino di musica, accompagnato dalla «sua degna moglie signora Guadalupe Alegre in Montealegre e i loro figli Rubén, Martín, Martina, Cleofé, Carlota, Carmencita e Guadalupita, che danno lustro alla festa», come spiegava la presentatrice.

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Ognuno dei suddetti veniva ricevuto con un applauso che si trasformò in urla di approvazione quando venne annunciata la signora Marisol Rodríguez, l’ondeggiante madrina di balletto folclorico, la quale si presentava in costume da popolana, con al seguito venti ragazzi vestiti con pantaloni rossi e camicie bianche e altrettante ragazze che indossavano bluse brillanti e ampie gonne, i cui occhi rivelavano che i giovani avevano ballato ininterrottamente per settimane per prepararsi per la grande occasione.

Poi fu il turno dei padrini di biglietti da visita, di fotografie, di candele, di torte, di bevande, di acconciatura, di preghiere, di riprese filmate, di maquillage, di telefonate, di inviti personali e molti altri il cui ruolo di padrino era definito dai diversi modi in cui avevano collaborato all’evento. Tutto era stato provato durante vari fine settimana, ma ogni tanto qualche madrina nervosa o qualche padrino frettoloso violava il protocollo.

La maestra di cerimonia disse allora che l’orchestra avrebbe dato inizio alla festa con il valzer dei padrini, e si udirono gli accordi del «Danubio blu», ma i padrini erano talmente tanti e rappresentavano generazioni così diverse che un solo brano musicale non bastava a soddisfare tutti i gusti, e il «Danubio» cedette presto il posto a «La niña fresa» affinché ballassero i più giovani e a una ranchera per accontentare i più anziani. Quando arrivò il momento della musica per i più grandi, tutti gli uomini ballavano come il signor Longaray di Guanajuato, con gli occhi e il cappello rivolti al pavimento.

Seduta al centro della sala, la giovane festeggiata sorrideva nervosa. Non era un segreto che il parrucchiere aveva prestato il trono come ringraziamento per tutte le acconciature che aveva dovuto fare alle ragazze ispaniche di Mount 20

Angel. Rami di fiori e ornamenti di porporina conferivano a quella poltrona reminiscenze principesche. Una signora molto scura e con un’acconciatura che la faceva assomigliare a una fata, assicurò che il vestito di Emma, bianco con rifiniture dorate, era stato indicato dall’aldilà da sua madre, che ormai in cielo si era probabilmente ricordata di aver visto quel vestito nell’armadio di una delle sue eroine televisive.

Quattordici dame vestite di celeste sorridevano nervose ai lati della festeggiata mentre, di fronte a loro, quattordici ragazzi in smoking nero lanciavano occhiate nervose, ma nessuno si muoveva. I vestiti sembravano troppo grandi per qualcuno e troppo stretti per altri, ma nessuno appariva a disagio bensì disperato in attesa di fare una volta per tutte il primo passo verso la rispettiva dama, come avevano provato per varie settimane. Al centro della sala, il ciambellano posava per una fotografia. Era un giovane munito di un bastone dorato nella destra, col quale doveva dare l’ordine di ballare nel momento in cui risuonassero di nuovo le note del «Danubio blu».

Tutto era silenzio e immobilità. Era uno di quei momenti in cui non passa il tempo e il mondo sembra fermarsi e posarsi.

Mai, nella sua vita passata nel Michoacán, Dante aveva sognato che un giorno avrebbe dato una festa così. Tutto quello che aveva speso, nonostante l’aiuto dei suoi amici, era il risultato di tanti anni a salario minimo, la massima retribuzione per un uomo senza green card. Venticinque anni prima, aveva attraversato la riga; dieci anni dopo arrivò quella che sarebbe stata la sua compagna, e qui negli Stati Uniti era nata Emmita. Avevano programmato di avere molti figli, ma dopo il parto, il medico curante 21

della signora Celestino le disse che non avrebbe potuto averne più.

– Mettetevi insieme ai padrini per una foto – gli sussurrò qualcuno e Dante si domandò se fosse il caso di imbracciare la fisarmonica. Lo strumento riposava dentro a una custodia brillante. Era la sua compagna inseparabile e in molti stavano aspettando che la suonasse.

Intanto i padri Pichón, i sacerdoti gemelli e alquanto bassi originari del Michoacán, andavano e venivano da una parte all’altra della sala benedicendo tutto ciò che si trovavano davanti: il trono e le pentole delle cibarie, le sedie e le trombe, le scarpe foderate di seta lilla e le bottiglie di champagne, i tavoli e i bicchieri, gli stivali con la punta metallica e il maquillage delle madrine, le borse bordate di perle e i capelli imbrillantinati dei padrini, le chitarre, i ricordi della terra lontana, gli altoparlanti e il vestito quasi celestiale della padrona del compleanno.

Poi decisero che era l’ora di benedire l’anello destinato alla regina della festa e si avvicinarono al ragazzo che fungeva da ciambellano. Questi aveva passato tutta la prima ora su un inginocchiatoio e con lo sguardo fisso su Emmita nel tentativo di conquistarla, a quanto sembrava senza molto successo.

– Hai a portata di mano il tuo regalo?

Il giovane tirò fuori da una tasca un pacchettino e lo scartò lentamente davanti allo sguardo attento dei padrini.

– Ah, che bellezza! Che bellezza! – continuava a dire con un gemito di allegria una signora dal seno immenso che sembrava essere la madrina più importante. – Non trova che sia una bellezza, Dante? Ah, Dante…

– No, certo, certo che lo è…

Allora i sacerdoti chiesero al giovane, prima di conse22

gnarlo, di immergere l’anello in una bacinella piena di acqua benedetta. Con molta cura il ciambellano eseguì l’ordine, e a contatto con l’acqua l’oggetto produsse un suono rotondo ed effervescente, come un ciorrrr… e fece fumo e bollicine sulla superficie… ciorr…ciorrr, come se i peccati del ragazzo avessero provocato l’ebollizione entrando nel liquido benedetto. Dante osservò il giovane con aria preoccupata, ma si tranquillizzò quando uno dei padri Pichón assicurò che era naturale e che accadeva in tutte le cerimonie dei quindici anni.

Improvvisamente, tutto sussultò, e la banda dei Vendicatori del Nord, armata di altoparlanti potentissimi attaccò di nuovo gli accordi del «Danubio blu». Fu come se la luce dello Spirito Santo scendesse all’improvviso sulla sala comune; il ciambellano si mise in azione, alzò e abbassò più volte il bastone e ripeté: One, two, three… one two three.

Una cosa che infastidiva Dante era che i giovani parlassero tra loro in inglese e utilizzassero lo spagnolo soltanto per comunicare con i genitori. Emmita era quella che usava di meno la lingua della famiglia e non sembrava dare troppa importanza ai consigli paterni circa il genere di ragazzi con i quali avrebbe dovuto uscire.

– Ispanici come noi, va bene – diceva Dante – ma non gli altri giovani ispanici che non parlano spagnolo e si riuniscono in bande per trafficare con la droga.

– One, two, three… one, two, three… – ripeté il ciambellano mentre alzava il bastone dorato, per poi dirigersi verso la festeggiata e, al braccio di lei, guidare il gruppo delle quattordici coppie che, tuttavia, ancora non ballavano. Prima si diressero invece verso una parete della sala dove c’era un’immagine della Madonna di Guadalupe, e le 23

fecero un saluto. Poi continuarono a girare intorno all’area della sala facendo saluti e genuflessioni davanti ai padrini della quindicenne, al padre, ai sacerdoti, ai vicini e a un gruppo di gringos che sparavano ininterrottamente i flash delle loro macchine fotografiche.

Ma Emmita non dava l’impressione di essere molto felice. In diversi saluti obbligatori, non riuscì a dissimulare una smorfia, forse di scherno o di noia. Alla fine, quando le coppie si lanciarono a volteggiare seguendo con i piedi gli accordi trionfali della danza, sembrava non far parte di questo mondo, ma neanche dell’altro, e quando le toccò di ballare con suo padre, non la smetteva di guardare verso la porta.

Dante si rese conto che sua figlia non era più la stessa.

Era come se gliel’avessero cambiata. Non era più la bambina alla quale poteva curare un mal di testa o di pancia ripetendole semplicemente sana, sana, codina di rana. Simili incantesimi non le facevano più effetto. Si ricordò di una vicina che lo aveva esortato a sorvegliare la giovane.

– Non voglio intromettermi, ma mi sembra di averla vista con un tipo che non è di qui. Non era uno dei nostri ragazzi.

Poi gli avevano descritto l’intruso: aveva l’aspetto di un messicano, ma parlava a malapena lo spagnolo; arrivava al villaggio con un low rider o con un fuoristrada immenso, di quelli che usano i delinquenti, e si vestiva tutto di nero.

Gli avevano spiegato che il tipo compariva mentre lui era al lavoro. Dante non riusciva a crederci. Si immaginava che – per non farsi vedere né sentire – l’amico di sua figlia si appendesse al soffitto, come un sacco sinistro, e che le sue ali avvolgessero tutto, notturno, funesto, fatidico, disgraziato, infernale, appeso, volante, silenzioso, fatale.

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Il giorno della conversazione con la vicina si armò di coraggio per dire a Emmita che forse era arrivato il momento di parlare molto seriamente di certi argomenti.

– Prima di tutto, credo che ormai sei quasi una signorina…

– Per favore, Dad, non interrompere, sto guardando la televisione.

Qualche settimana dopo questo tentativo fallito, decise di tornare alla carica perché quando arrivava di notte, Dante aveva l’impressione che una piccola ombra si staccasse dal tetto dei vicini e se ne andasse gridando verso la parte più nera del cielo; quando chiudeva gli occhi, vedeva due occhi piccoli e penetranti che non smettevano di osservarlo; altre volte, la piccola bestia trasformava il suo mutismo in un gracchiare e sembrava annunciare la fine del mondo, o del suo mondo.

– Ti ho sempre detto che i ragazzi messicani della tua età sono molto corretti, e se devi avere un pretendente, mi sembrerebbe normale vederti con uno di loro.

Emmita rimase a guardarlo e alzò il volume della televisione, e allora, soltanto allora, gli venne in mente che tutto sommato i vicini stavano dicendo la verità, e quando ripensò al pipistrello, non lo vide giovane, ma antico, rinsecchito, perverso come uno di quei volti che non smettono di osservarti da un sepolcro maledetto. *** E tu, chissà dove andrai, chissà che avventure avrai, come sei lontana da me. La banda dei Vendicatori del Nord non conosceva il testo di questo bolero, ma don Manuel Montoya era arrivato equipaggiato con una serie di registrazioni per 25

la gente amante dei ricordi e il direttore dell’orchestra si vide costretto a riprodurle e a farle accompagnare dai suoi musicisti. Come un piccolo raggio di luna, in mezzo ai boschi addormentata, hai dato luce alla mia vita, come un piccolo raggio chiaro di luna. Gli adulti iniziarono a ballare. Come il padrino di fuochi artificiali, una dozzina di cavalieri cantavano all’orecchio delle rispettive dame. Alcune di loro gemevano. Anche se la vergine è bianca, dipingi degli angeli neri, perché vanno nel cielo anche i negretti buoni… il signor Longaray chiudeva gli occhi come un negretto buono.

Ma la banda era disposta a soddisfare tutti e continuò con il «Corrido di Johnny il Pachuco» di Steve Jordan, continuò con «Ti lascio lì a San Antonio» di Flaco Jiménez e proseguì con gli ultimi successi di Joe López, che provocarono il delirio dei giovani. Passò anche per Pedro Ayala, «Il monarca della fisarmonica».

Maruja Tafur si impadronì del microfono. Era una dama immensa e sudamericana, non si sa se del Perù o dell’Argentina, che cantava in tutte le feste. Volgeva il viso al cielo mentre chiudeva i suoi occhi verdi e gorgheggiava con una voce travolgente. Era arrivata a Mount Angel molto prima della maggior parte dei messicani residenti e aveva lavorato nella scuola del villaggio fino alla pensione. Tutti la rispettavano e nessuno poteva azzardarsi a contrariare il suo desiderio di cantare, anche se la gente avrebbe preferito continuare a ballare. Il suo forte non erano le rancheras, bensì alcuni brani lirici nei quali sfoggiava una voce in grado di frantumare i vetri e sconvolgere l’universo. Una volta impadronitasi del microfono, si prese il tempo per lodare i quindici anni come la migliore età della vita e disse che stava per annunciare la sorpresa della serata.

– Ho composto una canzone per Emmita, e chiedo a 26

Dante di accompagnarmi alla fisarmonica – disse Maruja, ma nessuno sentì perché, mentre parlava, si era verificato un guasto all’amplificazione. Poi si fece silenzio, e nel salone irruppe un intenso ronzio. E un fischio spezzò l’aria in due parti.

Maruja prese Dante Celestino per un braccio e lo fece salire sul podio, dove l’aiutò a imbracciare la fisarmonica.

Mentre il padre della festeggiata stirava lo strumento e premeva i registri, la cantante iniziò a gorgheggiare con voce stridula, e suoi trilli inondarono di nostalgia la vita del pianeta.

Un rumore strano invase la sala, ma nessuno ci fece caso perché la gente era quasi soffocata dalla malinconia. Non si può calcolare per quanto tempo cantò Maruja Tafur né se davvero alcuni uccelli scesero dai quattro angoli del cielo e invasero la sala comune per accompagnarla. Questo non si saprà mai perché l’unica cosa certa è che, mentre saliva al cielo, il gorgheggio della donna e degli uccelli fu interrotto da un ram, raaaaaaaammmmmmmm, ramramram.

Rammmmmmmmmmmmmmmmmmmmmm.

Don Egberto Longaray, di Guanajuato, assicura che da un momento all’altro fu come se tutto andasse a gambe all’aria, l’orchestra, la musica, i padrini, gli invitati, il vestito di lustrini dell’immensa maestra di cerimonia, e forse anche la vita, perché i trilli celestiali di donna Maruja Tafur furono improvvisamente coperti da un brutale colpo di tamburi e da luci di riflettori che invadevano lo scenario della sala comune.

– Ciò che credevamo un attacco di tamburi rullanti si convertì in una e mille detonazioni dei motori di una o di molte motociclette. Guardai in faccia gli altri e tutti erano confusi. Ma non erano motociclette, bensì low riders ai cui 27

tubi di scappamento era stato tolto il silenziatore. Da esse, emerse un gruppo di giovani con l’aria da teppisti, che si intromisero nella festa senza essere invitati.

Secondo lui, quando arrivò la banda di teppisti, molti invitati tornarono al proprio tavolo o scivolarono verso l’uscita senza dire una parola, ma il volto di Emmita sembrava risplendere di una luce di feroce bellezza.

– Cercai di guardare verso la porta principale perché mi sembrava strano che i teppisti cercassero di entrare senza essere stati invitati, ma lì non c’era più nessuno perché gli estranei erano già dentro e ci circondavano senza che noi lo sapessimo né lo volessimo sapere. L’unica cosa che ricordo è di aver visto entrare nella sala un giovane vestito tutto di nero. Dietro di lui, i suoi accompagnatori avevano i capelli schiacciati sul cranio, e le loro teste brillavano come se ci avessero passato la vaselina.

Dante se lo ricorderà per tutta la vita. Ricorderà tutto, l’estraneo vestito di nero e con i capelli rasati che avanza verso Emma… e che raggiunge la ragazza benché lui cercasse invano di interporsi tra loro.

Con voce mielosa e spaventata, la maestra di cerimonia gridava: – No, per favore. No, per favore. Lasciateci in pace. Non fateci questo.

Non fecero molto. Si limitarono a mandare via l’orchestra e a mettere lo stereo a tutto volume con una serie di ronzii, barriti, esplosioni e di tanto in tanto una voce da cane che cantava in inglese o forse gridava come un ossesso.

Alcuni invitati riuscirono ad accomiatarsi, ma altri non lo fecero. Dante, in piedi accanto alla porta, si sforzava di trattenerli e di spiegare che era tutto un equivoco, ma lo lasciarono da solo. Si accasciò su una sedia, mise i gomiti su un tavolo e il pianeta smise di esistere per lui.

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Secondo alcuni, i teppisti gli fecero bere una sostanza strana. Secondo altri, lo stesero dandogli un colpo in testa col calcio della pistola, e i teppisti si impadronirono della festa. Diventarono i padroni della celebrazione dei quindici anni, e alla fine, aspettarono che Emma preparasse la valigia e montasse sul sedile posteriore di una delle low riders.

Ma nel ricordo di Dante le cose non andarono così: – Per quale giornale ha detto che lavora? No, amico, quella notte non è successo niente.

– Sto prendendo appunti per raccontare una storia.

Magari questo dettaglio non comparirà.

– Non è successo niente.

– Quanti erano?

Dante guarda il cielo.

– Gli assalitori. Quanti?

– Le ripeto che non è successo niente.

In ogni caso, Dante si svegliò il mattino seguente. Forse accasciato nel locale oppure nel suo letto, se è vero che non era successo niente. Magari decise di credere che era stato solo un sogno.

Secondo quanto afferma di ricordare, era già mattina inoltrata quando passò accanto alla porta della camera di Emmita per invitarla a fare una passeggiata e conversare sulla vita. Bussò tre volte ma nessuno aprì. Aspettò un’altra ora e tornò a chiamarla, ma la porta non si aprì. Allora spinse la porta e trovò il letto di sua figlia intatto, come se non ci avesse dormito.

Mai più, per quanti giri possa fare il mondo, Dante si sarebbe ritrovato così solo. Era evidente che sua figlia l’aveva lasciato e che la festa, progettata durante la maggior parte della sua vita, era stata un fallimento.

Quella mattina non trovò altro ad attenderlo che la let29

tera di sua figlia. Dice di aver visto la lettera e che poi non riuscì a vedere altro. Poiché ci avrebbe impiegato tanto a leggerla e non l’avrebbe compresa del tutto, preferì rivolgersi a un amico fidato.

Uscendo di casa si imbatté negli occhi enormi dell’asino al quale aveva dato asilo quel giorno, pensando che poi avrebbe cercato il suo padrone.

«Me ne vado, Dad, non mi trovo bene in questo environment che mi dai. Ricordati, Dad, che ormai non sei più in Messico e che io non sono una bambina. Tu e Mom mi avete sempre portato alle feste di ispanici, in chiesa, ai corsi di spagnolo, e poi mi hai fatto questa festa ridicola.

Dad, io sono una ragazza americana. Johnny e io ci stiamo frequentando for a long time, da più di sei mesi. Adesso vado a vivere con lui… Come volevi che te lo dicessi, Dad, se a te non piacciono i ragazzi che parlano inglese, se ti sconvolgono i giovani con gli orecchini e i tatuaggi… Dad, ormai non vivi più nel tuo tempo e nella tua patria. Dad, ho già quindici anni e tu non mi fai neanche uscire la sera.

«Ti ricordi la festa scolastica di fine anno? L’unica che si è coperta di ridicolo sono stata io perché sei venuto a prendermi alle dieci di sera. Nessuno viene trattato così. Tu sai che i miei grades sono migliori di quelli delle mie amiche, ma i loro genitori le premiano anche se prendono una C plus, e le lasciano fare ciò che vogliono alla fine dell’anno scolastico, persino restare nell’appartamento dei loro boyfriends. Invece, tu e mia Mom vi siete sempre impegnati a trattarmi come una bambina. Wake up, Dad, io sono una ragazza americana. Non sono nata nel Michoacán.

«Papà, non mi cercare. Non ne hai il diritto. Se riuscissi a trovarmi, la polizia mi chiederebbe se voglio vivere con te e io direi che non voglio, perché questo è un Paese libero.

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E se ti opponessi perché non ho ancora compiuto diciotto anni, mi manderebbero in una casa d’accoglienza per adolescenti, ma non mi obbligherebbero a stare con te perché, Dad, tu sei semianalfabeta e non puoi offrirmi il futuro che tu stesso non hai. Ti rendi conto che non puoi neppure leggere questa lettera e che dovrai chiedere a qualcuno che la legga per te?

«Non cercare di opporti, Dad, perché Johnny può pagare dei buoni avvocati e, se ti opponi, potresti anche finire in carcere. E non preoccuparti troppo, forse un giorno tornerò, ma solo dopo aver realizzato il mio sogno di diventare una grande cantante come Selena. Johnny conosce degli impresari e ha molte amicizie influenti, e mi porterà a fare un provino. I’m gonna be famous, Dad.» Come Selena. Come un fiore. Come un fiore.

E bidi bidi bom bom. E bidi bidi bom bom.

«Te lo ripeto, Dad. Per il tuo bene, non cercare di opporti. Per il tuo bene.»

Qualche giorno dopo la festa, Dante partì per il mondo alla ricerca di sua figlia, senza altri amici che l’asino zoppo.

Come un fiore. Come un fiore.

E bidi bidi bom bom. E bidi bidi bom bom.

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