La domenica lasciami sola

FORSE LA SCEMA SONO IO

Cinque minuti di partita e mi sono già persa la cosa fondamentale: la porta. Non ho idea di dove debba segnare chi.

I maschi non sanno fare due cose contemporaneamente, ma i calciatori sì. Sono esseri dotati di un sovrannaturale senso dell’orientamento grazie al quale riescono a correre dentro lo stesso rettangolo per novanta minuti, inseguendo una palla e mantenendo inalterata la cognizione di destra e sinistra. Io, dopo due giri nella corsia dei detersivi al supermercato, recupero le abilità cognitivo-motorie solo in presenza di un avvocato. 1 a 0 per loro.

Questa è la decima partita che guardo nella mia vita e per la prima volta lo faccio da sola. In pigiama, con la pizza pakistana.

Non ho nessuno a cui chiedere «Dove dobbiamo segnare?» – la mia attività prevalente davanti al calcio, insieme alla disapprovazione.

Anche i maschi calciofili sanno fare diverse cose contemporaneamente: guardare una partita, sapere

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qual è la porta degli avversari, rispondere alle mie domande. 2 a 0 per loro. È la finale di Champions League – che ovviamente non ho idea di cosa sia (mi fermo alla Coppa Italia e ai Mondiali, per il resto vado a messa).

Nel pubblico ci sono i reali di Spagna, solenni come imperatori. Il cronista dice che il momento è storico – e io sono in pigiama, che imbarazzo.

In campo, i blancos del Real Madrid e i rojiblancos dell’Atlético Madrid – sigla ATL: io ho ovviamente creduto per un abbondante quarto d’ora che si trattasse dell’Atalanta, stavo pure per mandare un sms a un mio ex fidanzatino di Bergamo, che nei cinque mesi della nostra relazione disse fondamentalmente tre parole: Simpson, pota e Atalanta.

Chiedo delucidazioni a Paolo, il mio guru calcistico.

Mi dice, su WhatsApp, che questo è il derby di Madrid e che l’Atlético è la squadra del popolo, mentre il Real è quella dei ceti alti, degli snob e dei nostalgici del franchismo. Non ne sapevo nulla. 3 a 0 per loro.

Se fossimo in Casablanca, l’Atlético sarebbe Blaine (cioè quel sacramento di Bogart), il Real sarebbe Laszlo e io sarei Ingrid Bergman. Coerentemente, scelgo di tifare Real. Mi piace anche il nome, è così aristocratico! Degli atletici e dei pauperisti, peraltro, diffido, soprattutto se maschi: non mi aprono la portiera, non mi offrono la cena, in pausa pranzo vanno a correre.

Su Twitter un tizio ha scritto che «nell’Atlético sono

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più boni». Non cambio comunque idea. Preferisco i soldi.

Sembra che tutti tifino per i rojiblancos e credo di sapere perché: il Real non solo è spudoratamente ricco (adoro), ma è la squadra che ha vinto più coppe in assoluto. Quindi, possono buttarla sul romanticismo quanto vogliono, su una trasposta battaglia fra strada e reggia, privilegio e merito, culo e sudore, ma la verità è che sono solo invidiosi.

Non è con le metafore che si capisce il calcio, ammesso che si possa capire (a me pare di no e non sarebbe una cosa malvagia, anzi: nemmeno l’amore si può capire).

Comunque, mi sto annoiando. Non succede nulla, nessuno fa goal.

Sembra l’Ulisse di Joyce, solo che a fluire non è la coscienza, ma 44 assembramenti di cosce e polpacci, che meriterebbero di stare su un tappeto di lenzuola di seta, magari mie. Che spreco.

Il cronista continua a tenere il tempo, a dire quanto manca alla fine. Mette più ansia di un ginecologo.

Inquadrano Barbara Berlusconi e lui dice che «concentratissima, sta pensando a come riportare il Milan su questo campo», quando a me sembra più che abbia la faccia di una che si sta chiedendo: «Avrò chiuso il gas?» Noi non capiremo il calcio, ma voi, ragazzi, non sapete nemmeno distinguere una

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donna tediata da una concentrata. Stavolta punto mio: 1 a 3.

Ho finito anche la pizza. Mi stendo lo smalto e, per la stessa legge ancestrale per cui quando accendi una sigaretta passa l’autobus che aspettavi da trentacinque minuti, qualcuno fa goal. «Ancelotti è sceso all’inferno!» grida il cronista. Addirittura! Dopo Orfeo, Ercole ed Enea, anche Ancelotti.

Comincio a sentire il brivido della lotta. Il mio Real è in svantaggio. Casillas, il capitano, sembra sotto shock. Se potessi, per la causa, mi catapulterei a Lisbona vestita da cartone animato porno giapponese e gli offrirei una consolazione espressa, quella che vuole lui. Sono pronta a tutto: Casillas è più bello di Maldini, uomo per il quale ho fatto la prima dieta della mia vita, a dodici anni, conclusasi chiaramente con un nulla di fatto, altrimenti adesso starei nella pampa con lui, in visita da Roberto Baggio. Non mettetevi a dieta, nemmeno per Casillas: non serve.

Inquadrano Ronaldo e io casco dalla sedia. Lo ricordavo molto più brutto, qualcosa tipo macaco.

Adesso, invece, è qualcosa tipo Alain Delon. È andato in qualche programma di Real Time a rifarsi la faccia? Ha mangiato solo mirtilli e aglio per un anno?

Chiedo a Paolo.

E niente, la scema sono proprio io: questo è un altro Ronaldo. Cristiano.

Come schiaffo supremo, Paolo mi scrive pure che

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l’ultima copertina di «Vogue» lo ritraeva mezzo nudo con la sua fidanzata. Fare la snob che se ne frega del calcio ha creato nella mia cultura generale una lacuna che ha le proporzioni del Mar Caspio, facendo affondare l’inaffondabile: «Vogue». E va bene che il momento storico è metrosexual, ma un maschio che aggiorna me su «Vogue» è un preludio dell’estinzione. Sono imperdonabile! 5 a 1. Anzi, facciamo 6 a 1. Merito di sprofondare nell’umiliazione, di subire due goal di fila.

Intanto, in campo si sta scatenando la terza guerra mondiale. I reali non li inquadrano neppure più, saranno scappati a rifugiarsi in un bunker antiatomico: se l’Atlético dovesse vincere, verrà instaurata la dittatura del proletariato e a loro non resterà niente, se non partecipare a Ballando con le stelle, dove peraltro verranno sconfitti dal principe Emanuele Filiberto.

Che fine orribile.

E invece, Ancelotti, risalito dagli inferi, ha fatto or ora segnare il Real. Olé! Prende forma la devastante possibilità che si passi ai tempi supplementari, cioè altri trenta minuti di gioco. Spero che a Ronaldo non si rovini la faccia. Io, probabilmente, sverrò al 98esimo.

Va proprio così. Si passa ai supplementari. Le facce dei calciatori, bianchi e rossobianchi, raccontano un dolore con cui nessun crampo mestruale può competere.

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Il Real prende in mano la situazione e inanella tre goal, che io seguo con fatica avendo quel problema d’individuazione della porta di cui sopra. Però è uno spettacolo bello da vedere: tutti giuravano sulla vittoria dell’Atlético e invece, tiè. Un po’ quello che succede durante gli exit poll in Italia.

A onor del vero, il Real non meritava di vincere.

Ha giocato peggio degli avversari, me ne sono accorta persino io. Era una sfida tra campioni: non andava giocata sul piano della forza.

Il Real ha lasciato che l’Atlético conducesse una partita adrenalinica, in modo che crollasse di botto, al primo stop. E così è stato: dopo il goal del Real, a pochi minuti dalla fine, l’Atlético ha perso la testa e ha giocato tutti i supplementari a bocca aperta, come il riccone del Titanic quando, avendo offerto a Rose un posto su una scialuppa, lei si fionda su Jack, che da offrirle ha essenzialmente la morte per annegamento.

Ragazze, non dico di scegliere chi ha da offrirci solo un modo poco confortevole di perdere la vita, ma almeno di evitare quelli che credono di averci conquistate dopo un bacio, perché significa che hanno il fiato corto e la tenacia a zero. Significa che avranno gli attacchi di panico non appena diremo loro «Stasera ho mal di testa», invece di infilarci un Moment in bocca e convincerci a svestirci e giocare ai film svedesi.

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Paolo mi scrive in preda allo sconforto cosmico.

Pontifica di Male che ha sconfitto il Bene. Dice che se Marx avesse assistito al match, probabilmente non avrebbe scritto Il Capitale.

Alla conversazione su WhatsApp si aggiunge Fabio, un nostro caro amico, avvocato e trotzkista. Anche lui è sconvolto, debilitato. È sotto shock come Casillas, solo che, purtroppo, è meno carino e lo conosco da una vita, siamo come fratello e sorella (ma se avete fidanzati, mariti, amichetti carini anche un po’ meno di Casillas, andate a consolarli, quando la partita li tradisce. Dimostrate loro che il calcio può deluderli, ma voi no. A voi le tette non si sgonfiano dopo centoventi minuti di lotta contro una palla, anzi! Dimostrate di essere l’ombra dell’albero sempreverde sotto cui trovare ristoro assicurato in qualunque momento, persino quando la Champions League è stata vinta dalle forze dell’Oscurità capitalistico-imperialista).

Cerco di ravvivare Fabio e Paolo con un po’ di sarcasmo. Niente da fare.

Fabio mi dà dell’irresponsabile: dice che non capisco la portata tragica di questo risultato, che alcune vite potrebbero essere in pericolo.

Ok, fermi tutti.

Non mi metto a ridere: capisco che ha ragione.

Non perché effettivamente qualche madrileno potrebbe morire, come quando, nel 1950, il Brasile

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perse la finale dei Mondiali contro l’Uruguay e 34 persone si tolsero la vita, mentre 56 morirono d’infarto (mi sono persa un numero di «Vogue», ma ho letto Osvaldo Soriano: anche io so essere metrosexual, in fondo).

In pericolo, però, ci sono i sogni di molti madrileni, che forse è pure peggio.

I sogni non sono la metafora della vita, ma ne sono la linfa. Per questo è meglio non realizzarli (gli americani, per addomesticarci alla loro visione aziendale della vita, ci hanno convinti che sogni e ambizioni coincidano, invece è una balla). Se li realizziamo, svaniscono.

Se prima non capivo come Fabio potesse coniugare trotzkismo e avvocatura, adesso lo so: con il calcio, che, inaderente com’è alla realtà, bizzoso com’è con la predestinazione, la logica, la consequenzialità, lo allena a tenere insieme cose che non potrebbero stare insieme, esattamente come accade in un sogno.

Il calcio è la serra dei sogni irrealizzati dei maschi.

Lì Fabio può annaffiare il suo essere trotzkista, restando un avvocato.

Ho detto «sogno» troppe volte, lo so. È che sono sconvolta: non avrei mai detto che, dopo aver visto una partita di calcio in solitudine, mi sarei messa a riflettere. Avrei scommesso molto di più sull’autocombustione.

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A NOI GRACE KELLY, A LORO MARADONA

Via la Champions via il dolore? Ma quando mai. Il campionato è come Dio, il sesso o la cellulite di Ilary Blasi: meno c’è, più se ne parla.

Perché il calcio è come il supplizio di Tantalo: quando finisce, ricomincia. È come l’araba fenice: più lo bruci e più rinasce (il calcioscommesse e le più truci simonie non hanno fatto altro che donargli ubiquità: giornalisti d’inchiesta, per carità del cielo, datevi una calmata e dissetate la vostra brama scandalistica ad altre fonti, o cresceremo bambini afasici che diranno calciopoli prima di mamma/papà/cacca).

La finale di Champions, cui ho stoicamente assistito, non ha segnato la fine di un bel niente, anzi: ha aperto le danze per altri tre mesi di calcio ininterrotto.

D’estate, infatti, non ci sarà il campionato, ma ci sono le vacanze delle veline che vanno in vacanza con i calciatori; il calciomercato; i tornei estivi di: bambini posseduti dal demonio, cinquantenni posseduti dal colesterolo, lesbiche possedute dalla parità dei sessi.

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D’estate, soprattutto, ci sono le grandi sfide cicliche: Europei ogni due anni; Olimpiadi ogni quanto non l’ho ancora capito; Mondiali ogni quattro. Se l’anno non è funestato dalla proverbiale sfiga bisestile, c’è comunque il calcio a mantenere in vita l’imminenza della catastrofe sentimentale.

Io ho pensato bene di innamorarmi tra la fine della Champions League e l’inizio dei Mondiali 2014, eccovi spiegata la vera ragione per cui ho passato novanta minuti di terrore (più supplementari che non ho idea di quanto durino, tanto comunque è sempre troppo) a guardare Real vs Atlético, ieri sera.

Lui si chiama Alessandro. Alto. Moro. Tonico.

Niente profumo. No Arbre Magique in macchina.

Costruisce frasi di senso compiuto, spesso persino ironiche. Crede nel matrimonio. Vuole dei figli.

Non ascolta la radio. Non sa cucinare, stira dignitosamente. Per fortuna, non è un esperto di vino. Né di motori. Né di musica jazz. Né di ristoranti stellati.

Al posto della competenza, ha fiuto. Va in farmacia e non in erboristeria. È geloso a livelli patologici. Come io abbia fatto a raccogliere tutte queste informazioni in sole tre ore di conversazione nella sala d’aspetto del pronto soccorso in via Acqua Bullicante (Roma), dove ci siamo conosciuti per evidente volere di Dio, è la seconda ragione per cui mi sono innamorata al volo di lui: Alessandro è un conversatore generoso. La prima ragione non posso dirvela perché mi piacerebbe

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dare l’anteprima ai figli che farò con lui – a patto che mi sposi. La terza è che mi ricorda le canzoni di Fred Buscaglione. È uno di quelli che ti chiamano signorina, mettendoci tutta la raucedine drammatica di Tom Waits in Hold On e la furbizia angelica di Gaber quando cantava «non arrossire, ma ferma il tuo cuore». Uno di quelli che ti spiano come Mastroianni spiava Stefania Sandrelli in Divorzio all’italiana. Uno che ti fa venire voglia di essere come quelle donne in bianco e nero che stiravano cantando, con addosso la vestaglia sdrucita – e che, ogni tanto, ti viene il dubbio siano state molto più felici di te perché, quando avevano voglia di stirare la camicia al proprio uomo, non credevano che la colpa fosse di un riflesso condizionato maschilista. È un fantasma che conosco bene, quello di questo riflesso condizionato: mi ha fatto mandare all’aria un sacco di relazioni. Se sia stato un bene o un male non lo so, ma sta di fatto che ho dovuto sobbarcarmi una serie infinita di traslochi, l’ultimo dei quali in nome del Chievo. Convivevo – sperando incautamente di ricevere un anello matrimoniale – con una specie di ultrà. Lui diceva di non esserlo, ma andava allo stadio pure quando era chiuso. Era terribile: leggeva la «Gazzetta dello Sport», diceva cose tipo ho preso Messi al fantacalcio, aveva le ciabatte del Chievo e la domenica non c’era mai, neanche se mi si infiammava il nervo sciatico. Non mi trattava certo come una signorina e

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quando mi guardava mi faceva sentire un cheeseburger, più che Stefania Sandrelli. Tuttavia, era un uomo buono e io l’ho trattato come un uxoricida seriale.

Alessandro, come tutte le cose perfette dopo la Caduta di Adamo ed Eva, ha un difetto: guarda il calcio.

Piuttosto che stare con una che mi toglie Sky Sport, mi estinguo, mi ha detto, in quel pronto soccorso, poco prima che io mi rovesciassi il caffè addosso.

Innamorarsi d’estate non è mai una buona idea, ma io sono la prescelta per i giochi senza frontiere del destino e quindi eccomi qua, cotta a puntino.

Decisa a dimostrare che l’eterno ritorno è una balla, la storia non si ripete, io stirerò cantando e non proibirò mai a nessun uomo di abbonarsi a Sky Sport e di rincoglionirsi davanti alla Champions League.

Annienterò Rita Pavone e diventerò la capostipite di una nuova generazione di donne che la domenica si fanno lasciare da sole, senza lagne. Passeremo alla storia come le signorine LDLS e Fred Buscaglione ci benedirà dall’alto dei cieli.

Ho iniziato la mia educazione sentimentale con Real vs Atlético, ma so che la strada sarà lunga e lastricata di dolore.

Come se non fossi già abbastanza sotto stress per la prova costume; la proporzionalità diretta tra aumento della temperatura e aumento dei serial killer; l’obbligo di leggere i grandi classici della letteratura russa e di trovare il modo intelligente per fare una

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vacanza intelligente, tipo abbronzarsi senza andare al mare o divertirsi senza ballare la macarena in un villaggio Alpitour. Tutte cose che implicano una strenua lotta contro la malasorte, il naturale decorso della vita, che di suo tende alla bruttezza e all’entropia (come dimostra la ricrescita di peli e cuticole). La vita non è ostile in sé, figuriamoci: è che nasce ammalata di morte.

«E la chiamano estate», cantava Franco Califano piangendo un’assenza, che per sua natura riesce a farsi sentire molto più prepotentemente di una presenza.

Amore, è domenica ma non ci sono partite, perché non andiamo al lago? Visualizza: i fessi al mare ad arrostirsi e noi, invece, furbi, al lago. Dai! No, senti, guarda, sono depresso. Astori forse va alla Lazio.

Vorrai dire IN Lazio. Che splendida idea! Perché non facciamo anche noi un salto lì? Pare ci siano laghi incredibili da quelle parti. Potremmo raggiungerlo! Però, aspetta, chi è Astori? Non sarà mica quel tuo collega con l’alopecia? Oddio! E se fosse contagiosa? Andiamo in Nord Europa, è meglio: più asettico. Hanno gli asili nido, i metallari si suicidano. Che dici, ti va?

Quanto parliamo.

Irrefrenabili.

Andiamo di stazione in stazione e di porta in porta.

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