LA DONNA CELATA
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Da un pezzo osservava l’agitazione delle maschere davanti a lui, infastidito dalla confusione dei colori e dal sincronismo delle due orchestre, troppo vicine. La mascherina gli stringeva le tempie, provocandogli un dolore alla radice del naso. Eppure assaporava, senza impazienza, quello stato di malessere e di piacere che permetteva la fuga insensibile delle ore. Aveva vagabondato per tutti i corridoi dell’Opéra, bevuto la polvere argentea del palcoscenico, riconosciuto amici annoiati e allacciato al proprio collo le braccia indifferenti di una ragazza molto grassa, ironicamente mascherata da silfide. Imbarazzato dal suo travestimento da Domino, incespicando come un uomo che indossi una sottoveste, quel medico in maschera non osava tuttavia levarsi il mantello né buttare indietro il cappuccio, per via della bugia da studentello a cui aveva fatto ricorso. «Passerò la notte a Nogent», aveva raccontato la sera prima alla moglie. «Mi hanno appena chiamato e temo che la mia cliente, sai, quella povera vecchia
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signora… Pensa un po’, avevo il desiderio infantile di andare a questo ballo. È ridicolo, non credi, che un uomo della mia età non sia mai stato a un ballo dell’Opéra?» «Sì, mio caro, molto ridicolo! Se l’avessi saputo, forse non ti avrei sposato…» Si era messa a ridere, mentre lui ne ammirava il viso ovale, roseo, incipriato, dalla forma allungata come un confetto. «E tu… tu non vuoi andarci al ballo verde e viola? Anche senza di me, cara, se la cosa ti diverte…» Un lungo brivido l’aveva scossa, uno di quei fremiti di disgusto che le scuotevano i capelli, le mani delicate, la gola incorniciata dall’abito bianco come alla vista di una lumaca o di un passante molto sudicio. «Oh! Io… Ma mi ci vedi in quella folla, esposta a tutte quelle mani… Che vuoi farci, non sono schizzinosa, sono… schiva! Non c’è niente da fare!» Appoggiato alla balaustra del palco, sopra allo scalone, pensava a quella cerbiatta fremente, contemplando davanti a sé, sulla schiena nuda di una sultana, la stretta di due mani enormi, squadrate, dalle unghie orlate di nero. Sbucate dalle maniche bordate di passamaneria di un signore veneziano, quelle mani affondavano nella bianca carne femminile come se fosse un impasto… Immerso nell’immagine di lei, trasalì bruscamente sentendo, accanto a lui, un piccolo «aha», un tossicchiare simile a quello
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di sua moglie… Si voltò e vide, seduta a cavalcioni sulla balaustra, una maschera slanciata ed ermetica, un Pierrot con una casacca dalle maniche ampie, i pantaloni fluttuanti, il berretto, il bianco del gesso che ricopriva quel poco di pelle lasciata scoperta dalla mascherina orlata di pizzo. La stoffa cangiante del costume e del copricapo, color argento e viola scuro, brillava come un’anguilla presa all’amo di notte sulle barche illuminate dalle fiaccole di resina. Stupito, attese un nuovo «aha», che però non ci fu. Il Pierrot-anguilla, seduto con indifferenza, batteva sulla balaustra di marmo il tallone che pendeva nel vuoto, mostrando di sé solo due pantofoline di satin e una mano guantata di nero piegata sull’anca. Le due fessure oblique della mascherina, accuratamente velate di tulle, lasciavano solo intravedere un bagliore soffuso di colore indistinto. Fu quasi sul punto di esclamare: «Irène!», ma si trattenne, rammentando la propria bugia. Incapace di fingere, rinunciò persino ad alterare la voce. Il Pierrot si grattò una coscia con un movimento volgare, e il marito inquieto riprese a respirare. «Ah!… Non è lei.» Poi il Pierrot si tolse di tasca una scatolina piatta d’oro, l’aprì, estrasse un rossetto, e il marito inquieto riconobbe l’antica tabacchiera con lo specchietto interno, l’ultimo regalo di compleanno… Si portò la mano sinistra sulla regione dolorosa del cuore con un
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gesto così brusco e involontariamente teatrale che il Pierrot-anguilla lo notò. «È una dichiarazione, Domino viola?» Il medico non rispose, quasi soffocando per la sorpresa, l’attesa, il brutto sogno, e rimase ad ascoltare per un lungo istante quella voce appena alterata: la voce di sua moglie. L’Anguilla lo fissava, seduta come un’amazzone, la testa piegata come un uccello. Poi scrollò le spalle, saltò a terra e si allontanò. Quella mossa ridestò il marito inquieto che, preso da un’immediata e normale gelosia, ricominciò a pensare e, senza fretta, si mise a seguire sua moglie. «È qui per qualcuno, con qualcuno. In meno di un’ora saprò tutto.» Cento maschere, viola e verdi, gli garantivano indifferenza e anonimato. Irène era davanti a lui, noncurante, mentre, stupito, si accorse che lei ancheggiava mollemente, trascinando un po’ i piedi come se indossasse delle babbucce. Un bizantino, in abito smeraldo e ricami d’oro, la afferrò al suo passaggio, e lei si piegò, rimpicciolendosi, tra le sue braccia, come se la stretta stesse per spezzarla in due. Il marito si avvicinò correndo, e raggiunse la coppia nell’istante in cui Irène gridò con voce seducente: «Ma che bruto!» Poi ricominciò a camminare, con lo stesso passo indolente e tranquillo, fermandosi spesso, attardandosi sulle porte spalancate dei palchi, senza mai voltarsi.
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Esitò ai piedi di una scala, deviò, tornò verso l’ingresso della platea, per poi infilarsi agilmente in un gruppo compatto e rumoroso, come una lama che rientri nel fodero. Dieci braccia la fecero prigioniera, un lottatore seminudo la spinse rudemente contro il parapetto dei palchi della prima galleria, tenendola ferma. Lei cedette sotto il peso dell’uomo nudo, buttò indietro la testa in una risata che venne coperta dalle risa altrui, e l’uomo dalla maschera viola vide brillare i suoi denti sotto il pizzo della mascherina. Liberatasi facilmente, andò quindi a sedersi sui gradini che portavano al palcoscenico. In piedi alle sue spalle, a due passi da lei, suo marito la osservava. Lei si sistemò la maschera, la casacca spiegazzata, il berretto. Sembrava tranquilla, come se si trovasse lì da sola e, dopo qualche minuto di riposo, si rialzò. Ridiscese i gradini, appoggiò le braccia sulle spalle di un guerriero che la pregò, senza proferir parola, di ballare, e danzò, stringendosi a lui. «Eccolo», si disse il marito. Ma lei non rivolse nemmeno una parola al ballerino bardato di ferro e madido di sudore, e dopo il ballo, se ne separò tranquillamente. Corse al buffet a bere una coppa di champagne, poi un’altra, pagò, assistette immobile e curiosa all’inizio di una rissa tra due uomini in mezzo ad alcune donne urlanti. Si divertì anche a posare le piccole mani sataniche, tutte nere, sulla gola bianca di un’olandesina con una cuffia dorata, che si mise a gridare nervosamente.
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Infine, l’uomo inquieto che la seguiva la vide fermarsi, come se nel passare l’avessero urtata, accanto a un giovane che, accasciato su una panchetta, senza fiato, si faceva aria con la mascherina. Lei si chinò, afferrò sdegnosamente per il mento quel viso brutale e fresco, e ne baciò la bocca ansimante, socchiusa… Ma suo marito, invece di lanciarsi e di strappare l’una dall’altra le due bocche unite, svanì tra la folla. Sbigottito, non temeva più, non si aspettava più il tradimento. In quel momento ebbe la certezza che Irène non conoscesse l’adolescente, ebbro di danza, che stava baciando, e nemmeno l’Ercole; era certo che non aspettasse né cercasse qualcuno e che nel momento in cui avesse abbandonato, come un acino d’uva svuotato, le labbra sotto le sue, si sarebbe subito allontanata, per continuare a vagare, raccogliere qualche altro passante, dimenticarlo e gustarsi semplicemente, finché non si fosse sentita stanca e desiderosa di tornare a casa, il mostruoso piacere di essere sola, libera, vera nella sua natìa brutalità, di essere una sconosciuta, solitaria e senza vergogna, che una mascherina e un costume ermetico avevano restituito alla sua irrimediabile solitudine e innocente disonestà.
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L’ALBA
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La repentinità chirurgica della loro rottura lo lasciò sbigottito. Rimasto solo in quella casa che la loro coppia, quasi marito e moglie, abitava da circa vent’anni, non riusciva, dopo otto giorni, a lasciarsi alle spalle lo smarrimento a favore della tristezza. Reagiva, comicamente, alla sparizione di oggetti a cui aveva fatto l’abitudine, rimproverando in modo infantile il suo cameriere: «Insomma, questi colletti, nessuno può averli mangiati! E non venga a dirmi che non c’è più sapone da barba: ce n’erano due tubetti nell’armadietto del bagno! Non vorrà farmi credere che non ho più sapone perché la signora non è qui!» Sgomento di non essere più richiamato all’ordine, dimenticava l’ora dei pasti, rientrava senza motivo, usciva per fuggire, annaspava, mezzo soffocato, all’estremità di un filo che un’imperiosa mano femminile non tendeva più. Si sfogava con gli amici, li metteva in imbarazzo, offendeva il loro riserbo di uomini infedeli o soggiogati. «È assurdo, mio caro! Uomini più scaltri di me non ci capirebbero niente… Aline se n’è andata.
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Se n’è andata, ecco. E certo non da sola, naturalmente. Se n’è andata. Potrei ripeterlo cento volte senza riuscire ad aggiungere altro. Pare che queste cose accadano tutti i giorni a non so quanti mariti… Che volete farci? Io non posso crederci. No, non posso crederci.» Sgranava gli occhi, apriva le braccia, le lasciava ricadere. Non aveva l’aria né tragica né umiliata, e i suoi amici un po’ lo disprezzavano: «Peggiora, ah, peggiora sempre di più… Un colpo come questo, alla sua età». Parlavano di lui come di un vecchio, segretamente felici di mortificare, infine, quel bell’uomo ormai brizzolato che non aveva mai subìto una delusione amorosa. «La sua bella Aline… Per lui era del tutto naturale che, a quarantacinque anni, si fosse all’improvviso fatta bionda, di una sfumatura tanto artificiale, e che avesse cambiato sarto e calzolaio. Non ha mai avuto sospetti…» Un giorno, l’uomo prese il treno, dato che il cameriere gli aveva chiesto otto giorni di permesso: «Visto che, a causa dell’assenza della signora, ho molto meno da fare, ho pensato…» e anche perché stava perdendo a poco a poco il sonno, addormentandosi di giorno dopo lunghe veglie notturne, agguati immobili nel buio, le mascelle serrate e un ronzio nelle orecchie. Partì di sera, evitando la casa in campagna che aveva acquistato e arredato per Aline quindici anni prima. Acquistò un biglietto per una grande città di provincia
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dove ricordava di aver «portato la buona novella» e banchettato a spese dell’Espansione economica. «Un bell’hotel», si disse, «un ristorante con la cucina francese di una volta, ecco che cosa mi ci vuole. Non intendo certo crepare per questa storia. Ebbene, cambiamo aria. Il viaggio, la buona tavola…» In treno, si ammirava nello specchio dello scompartimento, la figura ancora dritta, i baffi grigi che nascondevano la bocca. «Niente male, niente male. Al diavolo, non ne morirò! Che svergognata!» Ingiuriava l’adultera indirizzandole solo quell’aggettivo moderato, passato di moda, che, sulla bocca delle persone di una certa età, viene ancora usato per complimentare una gioventù impudente. In albergo chiese la stessa stanza dell’anno precedente: «Quella rotonda, ha presente, da cui si gode una splendida vista sulla piazza»; cenò con della carne fredda accompagnata da una birra e si coricò quando la notte stava già per finire. La stanchezza lo indusse a credere che un breve riposo lo avrebbe ripagato della fuga. Sdraiato supino, si gustava la freschezza delle lenzuola non completamente asciutte e misurava, nell’oscurità, la posizione dimenticata della grande finestra rotonda grazie a due lunghi raggi di luce bluastra che penetrava dalle tende aperte. Poi, si addormentò per qualche secondo, per poi svegliarsi senza alcun sollievo per avere inconsciamente rispettato, tirando indietro le gambe, il posto di colei che, ora assente giorno e
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notte, si ripresentava immancabilmente con il favore del sonno. Si destò e pronunciò coraggiosamente il solito scongiuro: «Ebbene, presto sarà giorno, un po’ di pazienza». E mentre i due raggi blu sfumavano nel rosa, udì sulla piazza quel rumore piacevole, un po’ sordo, dei secchi di legno bordati di ferro e il «clop» dei grossi zoccoli pazienti dei cavalli. «Proprio come il rumore delle scuderie a Fontainebleau, in quella grande villa che avevamo affittato nei pressi dell’albergo… Sul far del giorno, sentivamo…» Con un fremito, si girò, invocando nuovamente il sonno. D’altronde, cavalli e secchi ormai tacevano. Altri rumori, più discreti, raggiunsero la finestra aperta. Distinse il suono pieno dei vasi di fiori scaricati da un’auto, la pioggia leggera che annaffiava le piante, il dolce impatto delle grandi fascine di legna gettate a terra. «Un mercato di fiori», pensò l’insonne. «Non mi sbaglio di certo. A Strasburgo, durante il viaggio che facemmo, l’alba ci svelava un incantevole mercato di fiori sotto le nostre finestre, e lei diceva di non aver mai visto delle cinerarie così blu da…» Si mise a sedere, per affrontare meglio una disperazione che lo assaliva a ondate regolari, una disperazione nuova, fresca, sconosciuta. Sotto il vicino ponte, alcuni rami accarezzavano il fiume assopito, e il volo delle prime rondini garrule attraversò l’aria: «È come l’alba sul lago di Como, con le rondini che seguivano la barca del giardiniere, carica di frutta e verdura, il cui profumo raggiungeva la no-
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stra finestra a Villa d’Este… Dio mio, abbi pietà…» Ebbe ancora la forza di arrossire per quell’abbozzo di preghiera, nonostante il dolore della solitudine e dei ricordi lo piegasse sul letto come un uomo malato di cuore. Vent’anni… Le albe di quei vent’anni versarono sul capo di una compagna addormentata o sveglia al suo fianco i loro raggi pallidi o vivaci, le loro grida di uccelli, le loro perle di pioggia, vent’anni… «Non voglio morirne, no! Al diavolo… Vent’anni sono tanti… Certo, prima di lei ho visto altre aurore… Allora, vediamo, quando ero un giovanotto…» Ma tutto ciò che riuscì a riportare in vita furono solo i crepuscoli di uno studente povero, mattinate grigie di lezioni di diritto riscaldate dal latte o dall’alcol, mattinate di camere ammobiliate, di minuscole bacinelle e secchi di zinco. Se ne allontanò, chiamando in aiuto la sua adolescenza e le albe di tanto tempo prima, ma quelle arrivarono spente, colme di amarezza, scese da un letto di ferro traballante, prigioniere di un’epoca triste, segnata da uno schiaffo caldo sulla guancia, portando con sé ciabatte dalla suola spugnosa… L’uomo abbandonato capì che per lui non c’era rifugio, che l’armonia crudele e familiare della prima ora del giorno avrebbe invocato un solo nome, avrebbe riaperto un’unica ferita, ogni volta nuova, ogni volta fresca. Allora, tornò a sdraiarsi e, piano piano, scoppiò in singhiozzi.
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