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Bastava aspettare che facesse buio, che i passi per strada diradassero fino a diventare un sottofondo, un fruscio, bastava aspettare l’ultimo fischio dell’ultimo padrone con l’ultimo cane. Bastava aspettare. Ci vogliono occhio e pazienza, poi. Bisogna individuare il palazzo e soprattutto il portone. Se il portone rimane socchiuso si può fare. Quei portoni massicci, marron, con la maniglia grossa d’ottone. Quei condomini di pensionati sbadati, con la testa un po’ andata, poveri cari, così presi a ricordare l’orario dell’Aspirinetta – l’avrò presa l’Aspirinetta? – da scordare il portone aperto nonostante il cartello dell’amministratore. pregasi chiudere bene per evitare danni a cose o persone. C’era sempre lo stesso odore, oltre quei portoni. Odore di minestrina, caffellatte e piscio di gatto, candeggina e buone maniere. Un odore di muffa e pastiglie Valda. E dentro c’era sempre lo stesso androne: un ingresso fotocopiato all’infinito con la luce al neon lievemente a intermittenza, le mattonelle a
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scacchi, la fila delle cassette della posta con anni di cognomi sovrapposti appiccicati uno sull’altro e la pubblicità per terra. E poi c’erano loro, c’era da giurarci ci fossero loro. Otto su dieci in un angolo c’erano le Aspidistre. Se ne fottono della luce che non arriva, della domestica che se ne fotte di bagnarle, se ne fottono della polvere. Si nutrono di mozziconi, di sputi, della cingomma del nipote di quello del quarto piano. Secche e svettanti, di un verde doloroso, sintesi di una fotosintesi marziana. Me ne faccio carico io delle Aspidistre. Me le vado a prendere io. Due viaggi al massimo e sono già in macchina. Al sicuro. Poi, con calma, in terrazza. A casa mia, dopo aver richiuso per bene porta e portone. Che io ci sto attenta ai regolamenti, alle norme. A Roma le Aspidistre le chiamano «foglioni». Non c’è più un vivaio che le venda, le coltivi, le moltiplichi. Anche Sabino dice che è inutile, che «il prodotto non va più perché siamo circondati da pecoroni». Sono piante degli anni Sessanta. Piante per vecchi portoni, per le sale d’attesa di vecchi dentisti, piante dimenticate vicino agli zerbini logori di certe trattorie untuose, sbattute davanti all’implacabile lente di ingrandimento di finestre in alluminio anodizzato. Eppure sopravvivono, con quei cispi legnosi che si intrecciano, che si spingono, si sovrastano, s’ammucchiano. Sono piante vecchie, «desuete», dice Michele. A me piacciono. Soprattutto mi piace rubarle e poi
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restituirle alla luce tenue, ripulirle, trapiantarle, nutrirle. Hanno bisogno di poche cure. Stanno là, nella zona d’ombra, fiere e cazzute. Una macchia smeraldo sopravvissuta all’atomica, al disastro nucleare, all’Hiroshima condominiale. Ne ho quindici, bellissime. Loro ricambiano l’affetto. Sembrano spade. Dai portoni raccatto quello che trovo. A volte mi spingo fino ai pianerottoli. E allora il cuore mi batte all’impazzata. Bisogna agire velocemente. Occhio e destrezza ci vogliono, come uno scippatore sull’autobus. Dalle porte chiuse non arriva mai una voce, solo il ronzio del televisore. Talvolta il pianto di un bambino, un miagolio, un latrato. Ma voci non se ne sentono in questi condomini che hanno avuto tempi migliori, altra vita, e gambe più forti per salire e scendere scale. Bisogna agire veloci e non farsi fregare dal silenzio. Dietro i battenti ci può sempre essere un vecchio insonne attaccato allo spioncino per controllare gli affari dei vicini. Quindi prudenza. Ho il kit missione in macchina: un paio di scarpe di corda, una borsa di plastica grossa e capiente, forbici. E soprattutto, ora, so come si fa. Ora. Prima mi lasciavo intenerire da un germoglio, restavo attonita davanti a queste misere giungle dimenticate. L’orto botanico dei pianerottoli, di questi pianerottoli modesti ma perbene, questi pianerottoli di pensionati, è quasi sempre uguale: stecchi mezzi morti di Euphorbia pulcherrima, la Stella di Natale
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per intenderci, piccoli labirinti spelacchiati di Pothos. Roba così. Al massimo una Sansevieria. Prendo i Pothos, facili da trasportare, autofiglianti. Pochi minuti e l’operazione è già risolta. Ce ne fuggiamo via nella notte, io e le piante. Col cuore allegro. Verso casa. Casa mia è all’ultimo piano, ottavo. Dove prima c’erano i lavatoi. Praticamente una stanza ma con un terrazzo che gira, cento metri quadri di terrazzo in un quartiere di lusso, secondo me più di lusso di tutti i quartieri di Roma. Perché è sottilmente snob senza darlo a vedere. E, considerato il mezzo sangue alla clorofilla che mi scorre nelle vene, non potrei abitare altrove. Si chiama Monteverde Vecchio. L’aggettivo «vecchio» fa la differenza. Palazzi eleganti, ingressi col portiere, villette liberty e parallelepipedi blindati. E giardini interni invisibili alla vista. Qui, tra il Gianicolo e Villa Pamphili, Garibaldi fece la sua parte per ricacciare indietro i francesi e salvare la Repubblica Romana. Ci abitavano Pasolini, i Bertolucci, Caproni, Gadda. Roba seria. È un monte ed è verde. Il mio posto, anche se casa è un ex lavatoio. Qui io abito con le piante. All’inizio non sapevo nulla di torba, concimi, sfagno e cesoie da disinfettare con il fuoco, di perlite e temperature, di esposizione e acidofile. Avevo una casetta e un terrazzo immenso che era un deserto. Ho iniziato fidandomi del mio intuito, con il basilico e una gardenia,
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le gardenie sono le mie preferite. A un certo punto è arrivato un bonsai di olivo che ho trapiantato subito per farlo respirare, fargli allargare finalmente le radici. Mi faceva pena così contrito e costretto. Ho agito d’istinto. L’ho liberato e mi sono sentita meglio. Quasi felice. In uno di quei giornali per la casa che mi regala Michele ho letto un servizio su come realizzare un piccolo orto sul balcone. Era riportata la frase di un esperto, Guglielmo Betto. L’ho ricopiata sul quaderno dove segno tutti i consigli di Sabino: «Il giardinaggio deve essere anche sperimentazione, tentativi da fare contro ogni regola codificata, gusto dell’avventura coltivata in pochi metri quadrati di terra». E io ho sperimentato, mi sono avventurata e sul terrazzo è arrivato tutto il resto. Spesso trovato in strada, dragando nei cassonetti dell’immondizia. Ogni volta è un colpo vedere un ramo che spunta tra i rifiuti, una manina secca e tesa. Succede soprattutto a gennaio quando l’albero di Natale è già cotto, mezzo morto, provato dalle palle, dalla neve artificiale, dall’idiozia umana. Rimettere in sesto un abete o una conifera non è facile. Ci vogliono tigna e pazienza. Ci vuole culo. Bisogna arrivare sempre un attimo prima. Un po’ come nella vita, intendo. Nel resto della vita. Se c’è un trasloco, ad esempio. Se c’è un trasloco ci saranno senz’altro feriti gravi o cadaveri abbandonati
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sul marciapiede: uno scheletrino di Ficus benjamina con una sola foglia appuntata su un ramo come una bandiera stanca, ci sarà uno stecco di orchidea con le radici marce d’acqua o un vecchio vaso di coccio infestato dagli afidi con un’ipotesi di geranio. E se c’è una speranza di clorofilla, io intervengo. Carico, porto sul terrazzo. Poi taglio, recido, cambio la terra, bacio, annaffio, asciugo, irroro, pulisco, tratto, concimo, carezzo. La mia sfida, il mio ospedaletto senza sangue dove salvare creature verdi poggiate come pietre in saloni senza luce, in ingressi angusti, in studi medici con l’aria condizionata a palla. La gente è irriconoscente verso la bellezza. Non ha poesia, non ha ruggiti, non ascolta, non vede. È svagata, incoerente, modaiola. Uomini e donne che s’invaghiscono delle Kenzie, delle Pachire a seconda della stagione, dell’architetto. Non valutano correnti, luce, acqua. Usano le piante come gli animaletti di peltro in vetrina. Quando le foglie cadono, ingialliscono, non si pongono domande. Buttano, ricomprano, buttano e ricomprano. È il loro ciclo. Il mio è diverso. Ho il ciclo delle piante. A volte mi sembra che parlino, mi ringrazino con un fiore, una foglia nuova. Respirano. Io le sento, ho imparato ad ascoltarle. A vederle. È iniziata così. Salvando un abete, riportando in vita una Yucca. Solo poi sono diventata una ladra. Ma anche questa è una faccenda che ho capito dopo.
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C’erano, in effetti, dei segnali che ho sottovalutato. Per esempio questa mania dei funerali. Appena mi imbattevo in uno, non c’era verso. Dovevo entrare in chiesa, possibilmente sedermi nelle primissime file, con i parenti più stretti. Parenti rossi in volto, sudatissimi, con le giacche strette sulla pancia, parenti sgomenti che, un po’ per lo stordimento da cordoglio e un po’ per la paura di fare figuracce, non chiedevano mai «Scusi, ma lei chi è?» E io stringevo mani, baciavo guance, a seconda della predica mi appassionavo e riuscivo anche naturalmente a commuovermi. Poi sfilavano le corone, il vero dolore. Ho visto morire con i morti tonnellate di lilium, orchidee, gerbere, iris e tulipani. Un genocidio di mazzi inconsapevoli, di innocenti cuscini votati al martirio, mollati come figli illegittimi all’ingresso di cimiteri incandescenti. Fiori fragili sotto la neve, sotto il sole. E null’affatto consolanti per il defunto nella bara di palissandro e neppure per i familiari, spesso così attoniti da non potersi godere, neppure per un attimo, le bellissime corolle, gli steli eleganti, i profumi. Finita la messa, con il carro funebre iniziava lo stillicidio. Era a quel punto che mi scappava da piangere, tanto da essere abbracciata dai più emotivi del parentado. L’unica consolazione è che sono certa esista un racket di fiori usati. E ne avrei fatto volentieri parte se solo avessi avuto il coraggio di frequentare i campo-
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santi o certi giri malandrini. Sono sicura che i Lisianthus dei funerali siano quelli che poi, la sera, arrivano nei ristoranti. E le Vinche, strizzate come salami tra retine e nastri, diventino un bouquet per spose o per battesimi. Tutto di nuovo al proprio posto. Petali lievemente afflosciati, prezzi stracciati. Solo con mio padre fu il contrario. Le rose avanzate di chissà quale trattoria sul mare, riciclate per una cerimonia funebre. Michele dice che il peso delle piante, moltiplicato per il peso dei vasi, moltiplicato per il peso dell’acqua e della terra farà crollare il terrazzo. Mi ha mostrato anche un’equazione. «Anna, hai troppe piante. Soprattutto qui», indica con il dito. Qui è il nord del terrazzo. «Per giunta, scusami, sono spesso malmesse, di troppi tipi, senza ordine. Sembra una foresta. Potremmo comprare qualche rosa, un paio di sdraio o dei guanti, hai presente i guanti colorati? Potremmo comprare delle lanterne…» Suggerisce i guanti perché ho le mani rovinate. Mi lavo le unghie con lo spazzolino ma un po’ di terra rimane sempre. Un puntino di terra. «Potremmo comprare dei cuscini…» Michele voleva essere architetto, coltiva il concetto di bello e armonico attraverso queste riviste
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d’arredamento tutte uguali. Invece fa il tipografo al centro stampa di Ciampino. E quando dalla rotativa escono le riviste per la casa lui ne acchiappa due copie. Una per me, una per lui. Una per me che la sfoglio appena. Carezzo la foglia di Aspidistra. «Anna, mi senti? Con 200 euro al massimo lo trasformiamo ’sto terrazzo. Magari un po’ di queste piante verdi le potremmo portare giù, nel patio del palazzo…» Devo aver fatto un salto. Qualcosa, qualcosa di visibile, di meccanico, spaventoso perché Michele arretra. Devo provare a ricordarmi perché Michele è entrato nella mia vita. Quest’uomo magro come un Ficus elastica. Devo cercare di ricordarmi cosa condividiamo.
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