La lezione di Obama

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1. SENZA ESCLUSIONE DI COLPI

Segreti e strategie della campagna più ricca di sempre

La chiave dell’empatia «Capire i problemi delle persone come me», «essere capace di identificarsi con la gente normale». È stata questa la chiave comunicativa della campagna elettorale più costosa della storia, che è riuscita a riportare Barack Obama alla Casa Bianca nonostante la crisi economica più grave dell’ultimo secolo. E a portare al voto, come nessuno si sarebbe mai atteso, un numero di persone superiore al 2008, tra cui quella «maggioranza di minoranze», mirante ad aggregare un nucleo etnico-demografico senza precedenti e composto da neri, ispanici, giovani, donne celibi ad alto livello di istruzione e gay. La scelta di puntare sull’empatia, dopo l’evocativo hope and change che tanta fortuna aveva portato nel 2008, è stata il frutto di un lungo processo di studio e riflessione. Numerose analisi politiche e sociologiche sull’elettorato americano, infatti, indicano chiaramente che, in tempi di crisi, l’attenzione dell’elettore medio verso le sensibilità umane e sociali dei candidati, risulta molto più spiccata. Quando poi, alla fine delle lunghissime primarie repubblicane, lo sfidante di Obama è risultato l’ex governatore del Massachusetts Mitt Romney, la scelta è divenuta quasi obbligata. 13


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Per molti mesi, infatti, le telefonate tra la Casa Bianca e il quartier generale obamiano di One Prudential Plaza, a Chicago, si erano incentrate su un solo punto: la strategia di attacco. Sarebbe stato più efficace, per Obama, criticare Romney come «opportunista», in quanto ex governatore centrista del Massachusetts mascherato da ultraconservatore pur di vincere la nomination nelle primarie repubblicane; oppure come ricchissimo ex capo della compagnia di private equity Bain Capital, dunque molto più vicino agli interessi dei privilegiati che alle preoccupazioni della classe media? All’inizio dell’estate del 2012, quando l’estenuante campagna per le primarie repubblicane volgeva ormai al termine, lo staff di Obama decideva di investire il 20% dei fondi allora disponibili per cristallizzare nell’immaginario americano l’idea dell’opulento Mitt lontano anni luce dai problemi della gente comune. Si trattava di un azzardo: se l’affondo non avesse funzionato, le casse del comitato si sarebbero ritrovate sguarnite alla vigilia del fondamentale sprint finale d’autunno. La squadra di Romney decideva di opporre a questo attacco un’olimpica attesa. Gli strateghi repubblicani puntavano infatti a conservare tutte le cartucce migliori per le ultime settimane, nelle quali gli elettori maturano le loro scelte definitive. Valutazione, questa, tutt’altro che insensata: l’inaspettato successo che il candidato repubblicano avrebbe ottenuto nel primo dibattito televisivo di inizio ottobre, ad appena un mese dal voto, avrebbe infatti completamente riaperto una gara che tutti consideravano già chiusa (basti pensare che agli inizi di settembre la percentuale di gradimento era di 51% a favore di Obama contro il 43% dello sfidante). Dopo mesi di bombardamenti mediatici, infatti, in occasione del primo confronto televisivo diretto gli elettori scoprivano un Mitt 14


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Romney assai diverso dallo stereotipo che gli era stato cucito addosso: brillante, preparato, e nel complesso molto più efficace di un Obama imbrigliato invece nel suo ruolo istituzionale e incapace di reagire ai rapidi fendenti dell’avversario. Una vera e propria catastrofe per Obama, che pochi giorni dopo è stato superato nei sondaggi per 49 a 45, rischiando di compromettere irrimediabilmente la sua carriera politica. Secondo molti commentatori, se non fosse stato per l’improvvisa irruzione nella campagna, a fine ottobre, del violentissimo uragano Sandy, che consentiva al presidente in carica di sfoggiare il suo migliore aplomb da «commander in chief» e riagguantare lo sfidante nei sondaggi, la recente storia politica americana avrebbe preso tutt’altro corso. Gli orientamenti di voto nell’ultimo mese della campagna 2012 60%

51%

49%

47%

50%

PARITÀ

48% Obama 45% Romney 40%

45%

43%

Elezioni 6 novembre 30%

20%

12-16 sett.

Notizia del commento di Romney sul 47% di americani che non pagano tasse

4-7 ott.

24-28 ott. 31 ott. - 4 nov.

Disoccupazione 7,8% Secondo confronto televisivo

Primo confronto televisivo

Confronto televisivo finale

L’uragano Disoccupazione 7,9% Sandy colpisce la East Coast

FONTE PEW RESEARCH CENTER: HTTP://WWW.PEOPLE-PRESS.ORG/2012/11/04/THE-CLOSE-FINAL-MONTHS-OF-CAMPAIGN-2012/

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Come si può notare nel grafico sopra, tutta la partita è stata dunque decisa solo negli ultimissimi giorni. Infatti al 31 ottobre, Obama veniva dato preferito su Romney al 48% contro il 45, nonostante i dati sulla disoccupazione indicassero un lieve peggioramento (dal 7,8% di inizio ottobre, al 7,9%), fattore che di solito favorisce la sfidante. Ma in quei giorni, tuttavia, sono stati raccolti i frutti di molti anni di lavoro.

Rompere l’assedio Era il gennaio del 2011 quando il top strategist di Obama David Axelrod, il campaign manager Jim Messina e altri consiglieri decidevano di abbandonare il «caotico chiacchiericcio» della Casa Bianca per piantare definitivamente le tende nel brulicante quartier generale di Chicago, soprannominato non a caso «la Bestia» per le sue mastodontiche dimensioni e, soprattutto, potenzialità tecnologiche. L’amministrazione non attraversava un momento facile. Pochi mesi prima, nelle elezioni di metà mandato, i repubblicani avevano trionfalmente conquistato la Camera dei rappresentanti con il più ampio margine di seggi (63) mai ottenuto da un partito dalla fine della seconda guerra mondiale. La polarizzazione politica aveva raggiunto il picco massimo degli ultimi 25 anni, e la disoccupazione era di ben due punti più alta di quando Obama si era insediato. Ad agosto 2011, dopo che i repubblicani avevano speso ben 16 milioni di dollari in pubblicità negativa contro il presidente, il suo gradimento aveva toccato la soglia d’emergenza del 38%, facendolo entrare in quello che un funzionario della Casa Bianca aveva laconicamente 16


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definito «perimetro Jimmy Carter», in ricordo degli angoscianti livelli di impopolarità in cui era precipitato l’ultimo presidente democratico non rieletto dopo il suo primo mandato (1980). Ad ossessionare gli strateghi di Obama, tuttavia, in quel momento era la corsa alle risorse. Le elezioni 2012 sono state infatti le prime a svolgersi dopo la sentenza della Corte Suprema (Citizen United ) che nel 2010 aveva rimosso sostanzialmente tutti i limiti ai finanziamenti privati alle campagne elettorali. La sentenza aveva suscitato l’immediato entusiasmo del campo repubblicano che, per ragioni tanto storiche quanto politiche, sapeva di poter contare sulla mobilitazione di imponenti risorse da parte di ampi settori del mondo finanziario. Ciò si sarebbe rivelato tanto più vero in seguito ai profondi mal di pancia che Obama aveva suscitato tra i giganti di Wall Street con la legge Dodd-Frank, la riforma dei mercati che la grande finanza giudicava eccessivamente restrittiva della libertà di investimento. Era dai tempi della luna di miele con il presidente repubblicano Ronald Reagan (1981-1989), del resto, che Wall Street non rompeva il suo tradizionale profilo bipartisan per schierarsi così apertamente a favore di un candidato repubblicano (si veda capitolo 4). In molti, infatti, erano consapevoli che le elezioni 2012 avrebbero rappresentato uno spartiacque: con l’economia già in parziale ripresa, il vincitore avrebbe posto una straordinaria ipoteca sull’intero decennio successivo, guadagnando un vantaggio strategico rispetto alle presidenziali 2016. In un contesto così magmatico e complesso per Obama, però, nel 2011 i repubblicani perdevano l’attimo decisivo per assestare il colpo di grazia al presidente. Apparentemente un errore strategico, che celava tuttavia ben più profonde e consistenti motivazioni 17


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politiche: dopo aver sobillato per quattro anni quasi tutte le forme di opposizione radicale a Obama, anche molto contraddittorie tra di loro, ora i repubblicani si misuravano con l’enorme difficoltà di tramutarle in una coerente piattaforma politica. Una debolezza che sarebbe platealmente deflagrata nel corso delle loro dilanianti primarie, molto più lunghe e divisive di quanto chiunque avrebbe osato immaginare. Proprio l’esitazione dei repubblicani nel 2011, consentiva ai democratici di ricominciare, dopo aver quasi toccato il fondo, a riorganizzare le forze. Anche se in un clima di totale assedio, se è vero che a campeggiare sulla porta di ogni ufficio del quartier generale di Chicago era l’appello Keep calm and carry on, usato nei rifugi antiaerei di Londra durante i bombardamenti nazisti nella seconda guerra mondiale. Per rompere l’accerchiamento, nel corso del 2011 lo staff Obama decideva così di investire 126 milioni di dollari, più del triplo di quanto speso da Romney nello stesso periodo. Larga parte di quei fondi era destinata a un capillare processo di radicamento sul territorio. Non solo attraverso l’apertura di centinaia di comitati elettorali, in particolare negli Stati che sarebbero stati determinanti per la vittoria finale (detti swing states, Stati in bilico). Ma soprattutto grazie al consolidamento di un colossale meccanismo di raccolta e organizzazione di dati sugli elettori. Sarebbe stata questa, infatti, l’arma letale sfoderata nelle ultime e cruciali giornate di fine ottobre, quando tutto si sarebbe deciso. E che avrebbe contribuito in modo determinante ad arginare la formidabile potenza di fuoco conclusiva della campagna di Romney. La profonda fiducia nei meccanismi di mobilitazione dal basso attraverso internet, del 18


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resto, non era solo il tratto distintivo di tutta la storia politica di Obama, ma anche una scelta politica in linea con la sensibilità più profonda dello schieramento democratico. «Tra la gente come te», recitava uno degli slogan locali della campagna Obama. Sul fronte della mobilitazione dal basso, tuttavia, la sfida dei Democrats era in realtà iniziata fin dal dicembre 2008, un mese dopo la prima grande vittoria. Allora, infatti, uno dei guru meno conosciuti della campagna Obama, il trentenne Jeremy Bird, aveva deciso di non seguire tutti gli altri a Washington DC, per auto confinarsi in un piccolissimo ufficio di Chicago. Obiettivo: iniziare a mettere ordine nella colossale quantità di dati raccolti fino a quel giorno, proiettandoli pirotecnicamente verso sviluppi futuri. Bird è infatti considerato un genio del ground game, il lavoro di persuasione e mobilitazione diretta casa per casa, elettore per elettore, che è stata portata a straordinari livelli di capillarità e precisione, incrociando migliaia di dati sui consumatori, anche attraverso nuove tecnologie come le applicazioni per tablet e smartphone, nonché facendo ricorso a centinaia di uffici locali con migliaia di volontari. Una stregoneria organizzativa che consente di arrivare a stabilire gli orientamenti individuali (da cui il nome di micro-targeting), e di cui avrebbe dato conto lo scienziato dell’era digitale Sasha Issenberg nel libro The Victory Lab, che svela i segreti dell’«estrazione mineraria di dati» (data mining) e dell’incrocio di un incredibile numero di informazioni provenienti da fonti diverse tra loro (si veda capitolo 5). In questo modo, la campagna Obama già nel 2008 aveva iniziato a spostare l’orizzonte dell’organizzazione politica anni luce 19


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avanti rispetto all’esperienza precedente, avviando un processo che avrebbe portato a veicolare i messaggi propagandistici sulla base delle caratteristiche sociali, economiche e culturali di ogni individuo e famiglia con cui voleva entrare in contatto. Alcuni dei dati che più sarebbe costato acquisire al comitato, non solo dal punto di vista economico, erano quelli provenienti dalle Tv via cavo sulle preferenze degli utenti e sui programmi più visti o più cliccati su internet (vedi capitolo 4). Tutto questo lavoro preparatorio sarebbe andato in larga parte disperso, per altro, se al momento opportuno non fosse giunto a «bussare alla porta» un volontario in carne e ossa disposto ad ascoltare anche le istanze dell’elettore e a «mietere» il possibile voto favorevole. Anche per questo, larga parte dei dati erano finalizzati a preparare l’intervento dei volontari e capire, casa per casa, non solo cosa i cittadini fossero orientati a votare, ma anche se volessero davvero votare o meno. L’approccio, le proposte e i temi di discussione dei volontari, sarebbero stati comunque modellati in base alle caratteristiche dell’elettore.

Rincorsa Romney Il capovolgimento degli orientamenti di voto che Romney è riuscito a determinare nelle ultime quattro settimane è assolutamente straordinario se paragonato alle condizioni di partenza della sua campagna. Dopo che per quattro anni i repubblicani avevano cavalcato qualunque protesta contro di Obama, consentendo ai movimenti radicali del Tea Party di condizionare l’agenda politica nazionale, 20


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a Romney era risultato molto più difficile comporre una proposta credibile anche da parte dei moderati. Era il nodo che il candidato repubblicano si ritrovava a ogni curva del suo accidentato percorso. Quando Romney aveva lanciato la candidatura nel giugno 2011, si era presentato come l’unico repubblicano in grado di rianimare l’esanime economia americana. L’ex governatore del Massachusetts, al secondo tentativo di scalare la Casa Bianca, riteneva che l’umore di fondo del Paese potesse in quel momento ben predisporsi verso un imprenditore di successo nel settore privato. Ciò che nessuno avrebbe potuto aspettarsi, tuttavia, era che la campagna per le primarie potesse durare dieci interminabili mesi, che avrebbero finito per indebolirlo sotto ogni profilo. Quando infatti, nell’aprile 2012, il suo avversario repubblicano Rick Santorum aveva gettato finalmente la spugna, le primarie erano costate a Romney più di 100 milioni di dollari. Ma ancora più grave per il bilancio della imminente campagna ufficiale, era il fatto che avevano costretto l’ex governatore del Massachusetts ad inseguire il suo sfidante sull’insidiosissimo terreno dell’ultradestra. Inducendolo, ad esempio, a sostenere proposte come la «deportazione» degli immigrati illegali, il cui effetto più diretto sarebbe invece stato quello di «deportare» valanghe di preziosissimi voti degli elettori latinos della Florida (Stato cruciale per la vittoria finale) verso Obama. Oppure costringendolo a definire la sua azione da governatore del Massachusetts come «severamente conservatrice». Tutte controindicazioni tipiche del processo delle primarie analizzate nel capitolo tre. Romney, del resto, aveva sulle spalle un altro fardello di non facile gestione, soprattutto in un momento di grave crisi econo21


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mica: essere uno dei più ricchi americani di sempre ad aver vinto la nomination presidenziale, con un patrimonio netto tra i 190 e i 250 milioni di dollari. E la sua riluttanza ad approfondire la propria situazione patrimoniale non faceva altro che alimentare le insinuazioni dei democratici sul fatto che avesse qualcosa da nascondere. Una volta conclusa la maratona delle primarie, Romney affrontava l’incandescente Convention repubblicana di Tampa, ad agosto 2012, e una base del partito per nulla entusiasta di lui. Troppe le incertezze emerse durante le primarie, nonostante lo straordinario vantaggio economico sugli avversari, scarsa la sua presa sull’elettorato più conservatore, e un profilo politico ormai irrimediabilmente ammaccato, lasciavano poche speranze nella possibilità di una miracolosa, e ormai necessaria, rimonta repubblicana. Anche per questo, dalla Convention emergeva l’idea di candidare alla vicepresidenza, al fianco di Romney, l’agguerritissimo Paul Ryan, deputato quarantaduenne del Wisconsin, riconosciuto leader intellettuale e politico del movimento conservatore americano e autore delle più aggressive proposte repubblicane sul bilancio. La scelta di Ryan, come notavano vari commentatori, era funzionale a rilanciare al centro della competizione un aspetto fondamentale e fino a quel momento rimasto colpevolmente in ombra: l’ideologia. La sua candidatura contribuiva infatti a sgombrare il campo da molte ambiguità e a trasformare l’elezione da un mero referendum su Obama, in un più definito confronto ideologico tra due visioni antitetiche del mondo, dell’economia e della società americana. Se lo staff di Obama, forse troppo ingenuamente, faceva trapelare malcelata soddisfazione per la scelta di Ryan, considerato 22


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troppo radicale, essa in realtà consentiva al candidato repubblicano una più raffinata operazione politica: offrendo una forte copertura al lato destro del suo schieramento, Ryan lasciava a Romney l’opportunità di lanciarsi più apertamente verso gli elettori moderati e indipendenti, rispolverando il suo originario, anche se ormai un po’ consunto, profilo moderato. Per consentire a Romney di compiere fino in fondo questa svolta, tuttavia, Ryan era costretto a pagare il prezzo di un netto ridimensionamento di visibilità e presenza mediatica, che lo avrebbe ben presto portato alla rottura con gli strateghi della campagna repubblicana.

Settembre nero A settembre di quel 2012, la politica estera si prendeva una rivincita sulla marginalizzazione che aveva patito nei mesi precedenti. L’11 settembre le missioni diplomatiche americane in Egitto e Libia venivano attaccate da estremisti inferociti contro un film ritenuto oltraggioso verso il profeta Maometto e prodotto in California. Pochi giorni prima, l’Ambasciata Usa al Cairo aveva criticato duramente il film mandando un messaggio conciliante ai manifestanti. Ma la notte dell’11, quattro cittadini americani, tra cui anche l’ambasciatore J. Christopher Stevens, venivano uccisi in un assalto al consolato di Bengasi, in uno degli incidenti diplomatici più gravi della storia americana recente. Ne scoppiava una polemica interna, cavalcata in parte da Romney, che non avrebbe aiutato la gestione della crisi e i cui toni sarebbero stati condannati da più parti. La vicenda rimaneva estremamente problematica anche per 23


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l’amministrazione, tanto che entrambi i candidati decidevano di non tornarci più sopra nelle settimane successive. Un sondaggio pubblicato dal «New York Times» la settimana prima del voto indicava tuttavia che la maggioranza degli elettori disapprovava il modo in cui il presidente aveva gestito l’episodio. La cattiva stella di Romney tornava a perseguitarlo il 17 settembre, neanche una settimana dopo la tragedia di Bengasi, quando il magazine «Mother Jones» pubblicava il testo di un video registrato segretamente in una cena elettorale in primavera, in cui Romney parlava in tono sprezzante del «47% di americani» che non pagano tasse. «Non li convincerò mai del fatto che devono assumersi le loro responsabilità personali e occuparsi in prima persona delle loro vite», spiegava alla platea di ricchi ospiti che avevano pagato 50 mila dollari a posto per partecipare all’evento. Il video si sposava perfettamente con l’immagine di un Romney opulento e lontano dai cittadini costruita per mesi dallo staff di Obama. I sondaggi dei giorni successivi segnavano un netto smottamento di elettori indipendenti verso Obama, e la corsa elettorale sembrava, con larghissimo anticipo, definitivamente conclusa.

La rivincita della Tv E invece, accadeva l’impensabile. La sensazione di avere la vittoria in pugno induceva Obama a compiere quello che sarebbe potuto diventare il più grave errore della sua carriera. Per mesi, prima del primo dibattito televisivo, il presidente era infatti stato incalzato dai suoi consiglieri affinché preparasse fin nei minimi dettagli il 24


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faccia a faccia con Romney. Ma lui si sottraeva infastidito e distratto da altre mille impellenze. Solo tre giorni prima del confronto, finalmente Obama accettava l’invito di John Kerry ad isolarsi nel deserto del Nevada per una full immersion dell’ultimo minuto. Ma evidentemente era troppo tardi. Romney aveva infatti individuato da tempo, nel dibattito, la sua ultima spiaggia, preparandosi per mesi su ogni minimo passaggio. E il risultato sarebbe stato chiaro a tutta l’America. Impacciato, poco preciso e anche irritato, nel dibattito di Denver Obama non riusciva a liberarsi della corazza «presidenziale» che aveva deciso di assumere e a rispondere «ad altezza uomo» ai duri attacchi di Romney. Pochi dibattiti nella storia televisiva Usa hanno contato davvero per gli esiti del voto, dopo quello storico tra Nixon e Kennedy nel 1960. Questo, invece, segnava una netta inversione di tendenza nella campagna, tanto che poco dopo la sua chiusura i sondaggi indicavano come le precedenti, anche se gravi gaffes di Romney, fossero ormai un vago ricordo. Un miracolo che riapriva completamente la corsa a tutto vantaggio dell’inseguitore, che nel mese di ottobre aveva già deciso di investire parte preponderante del suo capitale economico e politico. In una sola notte, Obama sembrava essere riuscito a dilapidare lo straordinario vantaggio conquistato in molti mesi di lavoro. Il vento era girato, e neanche i positivi dati sulla disoccupazione pubblicati nel mese di settembre sembravano riuscire più a contenere l’eclatante rimonta di Romney. Era in quel momento che la straordinaria macchina elettorale di Chicago, che per anni aveva scaldato i motori, sprigionava tutta la sua potenza. Centinaia di milioni di euro venivano spesi 25


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da entrambi i candidati negli Stati in bilico, ma i messaggi della campagna Obama risultavano molto più profilati, mirati e penetranti, ritagliati su misura per ognuno dei destinatari. Mentre gli slogan di Romney correvano solo lungo i canali tradizionali, le frecciate del presidente uscente dilagavano attraverso la rete cavalcando smartphone, tablet e un’infinità di nuove e nuovissime applicazioni. Ma, soprattutto, venivano affiancati dall’imponente mobilitazione di decine di migliaia di giovani. Che se per tutta la campagna avevano mantenuto un atteggiamento di complessiva freddezza e disillusione, adesso, spinti dalla rimonta di Romney, rompevano ogni indugio e tornavano in campo per Obama in gran numero. Proprio il loro voto, insieme a quello delle donne, sarebbe stato determinante in tutti gli Stati in bilico (come vedremo nel capitolo successivo). Se il vicepresidente Biden usciva brillantemente dal faccia a faccia contro un tenace Ryan, negli ultimi due confronti televisivi Obama riusciva a ritrovare se stesso, contenendo efficacemente la rimonta di Romney. Ma a due settimane dal voto, Stati chiave come Ohio, Virginia, Florida rimanevano estremamente incerti. Solo l’uragano Sandy avrebbe potuto abbattere definitivamente le ultime speranze di Romney. Il riconoscimento del governatore repubblicano del New Jersey, Chris Christie, pure molto vicino a Romney, dello straordinario lavoro svolto da Obama nelle ore più drammatiche dell’emergenza, costituiva il sigillo finale di una delle campagne elettorali più imprevedibili del dopoguerra. E spalancava i portoni della casa Bianca, per la seconda volta, al primo presidente afroamericano della storia.

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