Alla mia famiglia‌ senza di voi non sarei qui. Per tutto ciò che sono, grazie. Vi voglio bene.
SONYA
La voce di mia madre echeggia in sottofondo, mentre il suo messaggio esplode dagli altoparlanti del mio cellulare. Ogni sua parola evoca ricordi, filtrati attraverso schegge di vetro. Voglio, devo, spegnere il telefono, ma il mio corpo si rifiuta di muoversi. La sua voce diventa sempre più alta mentre ripete il mio nome, con una disperazione che squarcia la nebbia che mi offusca la mente. Di quasi sette miliardi che siamo al mondo, come può la voce di una sola persona avere un simile effetto? Mi immagino di essere più forte di un tempo, più tenace. Di essere io la padrona del mio destino, e gli altri una pedina nelle mie mani… non viceversa. Perché se sono io la pedina, allora devo aspettare di vedere come sarò giocata. L’ignoto ci fa paura. Forse per questo ci affanniamo a governare il nostro mondo, è l’unica speranza che abbiamo per dare un senso alla nostra vita. Dalla finestra aperta entrano i rumori della città. Il mio appartamento si trova al decimo piano, però i clacson dei taxi e le voci dei passanti giungono fin quassù. È inverno, ma gli unici segni tra i grattacieli di Manhattan sono i giacconi pesanti e l’odore del sale misto a quello della neve nelle strade. Per il resto, nessuno rallenta il passo. Una tenacia che ho imparato ad apprezzare nei tre mesi che sono trascorsi dal mio arrivo. Mi guardo intorno, osservo le fotografie incorniciate che riempiono questa mia casa provvisoria. Tutti i luoghi dove
sono stata, immortalati su carta patinata. La bellezza del mondo che ho visto attraverso la lente di una macchina fotografica. I monumenti costruiti dagli uomini in competizione con l’arte scolpita dalla natura. Ogni immagine serve a ricordarmi che spesso, dentro un volto, splende una luce. Eppure io, per quanto lontano possa andare, non riesco a sfuggire alla mia ombra. «Vieni a casa, ti prego. Ho bisogno di te. Abbiamo bisogno di te. Tuo padre, Brent…» la voce di mia madre – Ranee – vacilla. Quella donna, così taciturna quand’ero bambina, adesso non smette di parlare. «Sonya», dice, «tuo padre è in coma, non so quanto gli resta.» Come se mio padre fosse qui, dentro il santuario che ho costruito, mi sento addosso il suo respiro, mentre il mio è diventato un ansito. Mi appoggio contro il bancone della cucina, premo le dita sulle fredde piastrelle. Immagini del passato invadono la stanza, una più potente dell’altra. Scuoto la testa e mi aggrappo più forte, i muscoli tesi nello sforzo. Finalmente il dolore spezza il cappio del passato che mi strangola, e ricomincio a respirare. Chiudo gli occhi, e cerco di immaginarlo in un letto d’ospedale, la sua vita attaccata a una macchina. Non riesco a crederci. Eppure sono sicura che mia madre non stia bluffando. Sono passati più di sei anni da quel giorno che, ferma sulla porta di casa, mi guardò andare via. Da allora non mi ha mai chiesto di tornare. Non ha mai supplicato di rivedere la creatura che ha messo al mondo, che ha cresciuto. La sua angoscia non è uno stratagemma, ma io non sono in grado di alleviare la sua pena. Guardo le testimonianze dei miei viaggi, ogni fotografia è una prova del mio tentativo disperato di trovare un posto da chiamare casa. Adesso, l’unica casa che abbia mai considerato tale mi chiama, pretende il mio ritorno. Sono una donna ormai, in grado di fare le mie scelte, ma non ci sono scelte
da fare. I segreti a cui io e le mie sorelle ci teniamo avvinghiate come a un cavo di sicurezza mi rimbombano dentro, inesorabili. Chiedono di uscire allo scoperto, vogliono farsi sentire dal mondo intero. Ma io non sono pronta. Non lo sarò mai, temo. PerchÊ se i segreti escono allo scoperto, che ne sarà di me?
MARIN
Siede accanto a lui perché non ha un altro posto dove andare. È la maggiore delle tre sorelle, è quella rimasta più a lungo con lui. Per una figlia potrebbe essere motivo di gioia essersi goduta per prima i genitori. Per Marin invece è solo un’ulteriore prova che la fortuna te la devi creare, non ti piove dall’alto. È sempre stata la prima in tutto: la prima delusione d’amore, il primo dolore. Le sue sorelle, Trisha e Sonya, la osservavano, prendevano esempio da lei. Quando Marin soffocava le lacrime, lo faceva per loro, così diceva a se stessa. Per dimostrare che essere forti era la scelta migliore. Adesso, da donna adulta, quando i suoi occhi restano asciutti, senza una lacrima, ammette che è solo perché non riesce a sentire nulla. Marin accavalla le gambe fasciate nei pantaloni e guarda l’orologio: sono le sette di mattina. Raj le ha detto che si sarebbe occupato lui di Gia e che l’avrebbe accompagnata lui a scuola in orario. Marin non è preoccupata, perché, a quindici anni, sua figlia sa programmarsi la giornata senza sgarrare di un minuto. Marin è molto fiera della sua autodisciplina, perché le tornerà utile per fare carriera. Si congratula con se stessa per questo tratto caratteriale della figlia. Anche lei era così, è normale che la figlia le somigli. Diventata rapidamente direttore finanziario della sua società a seguito di una brillante carriera, Marin è consapevole di essersi fatta dei nemici. Sente spesso mugugni sommessi quando presiede le riunioni e guida con grande successo la
società attraverso fusioni e acquisizioni. Ha lavorato sodo per raggiungere il suo posto nel mondo; le invidie e le critiche degli altri non sono per lei un problema né un limite. Conosce tante donne che basano la loro autostima sul giudizio altrui. Che si vestono secondo la moda del momento, anche quando non è di loro gusto. Che lasciano che siano i colleghi a stabilire i confini delle loro carriere. Che vivono seguendo regole imposte da estranei. Marin è fiera di essere diversa. Di avere raggiunto da sola la propria posizione, di avere ottenuto il successo e di essersi costruita una vita perfetta. Di Brent ha saputo il giorno prima da una telefonata di sua madre, mentre era in ufficio. Ha ascoltato attentamente per qualche minuto, poi le ha spiegato di essere in ritardo per una riunione, e che avrebbe cercato di passare in serata. Ma è riuscita ad arrivare in ospedale solo il giorno dopo. «Buon compleanno a me, papino», dice Marin. Rimbocca le lenzuola al padre. Ha passato i sessanta ma il suo volto non mostra i segni dell’età. È buffo, io non mi sento più vecchia. Marin si tira indietro i capelli, un tic nervoso di quando era piccola. Ultimamente ha notato che anche Gia lo fa, e si ripromette di parlargliene. I tic nervosi sono indice di debolezza, di vulnerabilità, e Gia non può lasciar trapelare niente del genere durante i colloqui per il college, anche se mancano ancora due anni e probabilmente ha tutto il tempo di prepararsi alle domande introspettive di chi determinerà il suo futuro. Ma è adesso che bisogna gettare i semi per poi godersi i frutti. Marin non ha detto a Raj che andava in ospedale questa mattina. Di certo lui ha pensato a una riunione e lei gliel’ha lasciato credere. Non è una bugia, solo una verità taciuta. Una delle tante nella loro vita di coppia. Il loro è stato un matrimonio combinato, l’unione tra due estranei; ma sono comunque riusciti a farsi una vita insieme. La loro figlia ne è il risultato.
«Ti ricordi il mio primo compleanno qui in America?» chiede Marin, scrutando Brent in cerca di un segno che lui la riesca a sentire. Ma invano. Quel giorno, non avendo i soldi per offrirle una festicciola di compleanno, suo padre l’aveva portata in una gelateria. Trisha era rimasta a casa con la madre, Sonya non era ancora nata. È il tuo giorno speciale, così le aveva detto Brent. Poteva avere due palline di gelato, e Marin si era messa a studiare attentamente i vari gusti. Il profumo della panna e dello zucchero riempiva l’ambiente, e le faceva venire l’acquolina in bocca. «Sbrigati a scegliere», le disse suo padre, con ancora addosso la tuta sporca di benzina. Non avendo trovato un lavoro come ingegnere, lavorava a un distributore. Marin fece di sì con la testa, ma eccitata com’era, non si accorse del nervosismo crescente di suo padre. «Posso provare questo?» domandò al ragazzo dietro il banco. «Certo», rispose lui e con fare annoiato le porse un cucchiaino rosa con un assaggio. Marin passò la punta della lingua sulla morbida crema. In India la cosa più vicino al gelato era il sorbetto, ma non era niente in confronto. Non aveva mai mangiato una simile delizia. «È molto buono, grazie. Posso provarne un altro?» disse in perfetto inglese. Il ragazzo alzò le spalle, del tutto indifferente davanti al suo entusiasmo. «Sì, quale?» le chiese. Marin provò altri tre gusti prima di scegliere la vaniglia e il cioccolato. «Grazie, signore», disse al ragazzo mentre suo padre stava pagando. Uscirono dalla gelateria e si avviarono verso il loro appartamento. Marin leccava scrupolosamente ogni lato per non far cadere nemmeno una goccia. Poi chiuse gli occhi e assaporò i due gusti insieme. «È davvero buono, papà! Devi assaggiarlo!» Marin alzò il braccino per avvicinargli il cono. Ma mentre Brent si chinava per dare una leccata, le tremò la mano e le palline di gelato si
spiaccicarono in terra. La poverina aveva le lacrime agli occhi, stava per mettersi a piangere, quando si prese uno schiaffo in faccia. Scioccata, guardò suo padre. Non capiva, lui non l’aveva mai picchiata. «Guarda cos’hai fatto!» tuonò Brent. E scavalcando il gelato in terra, si avviò verso casa, lasciandola lì a guardarlo. «Un vero spreco! Non avrei dovuto comprartelo!» Fu quella un’importante lezione per Marin, una lezione che non avrebbe più dimenticato: non affidare mai agli altri la tua felicità. Perché come te la danno, così possono portartela via.
TRISHA
Controllo di nuovo la tavola per accertarmi che ogni cosa sia al suo posto, poi passo un panno sui bicchieri. Il bicchiere di vino dev’essere esattamente a dodici centimetri dal piatto. Ho scelto le posate migliori, quelle che mi sono regalata dopo il matrimonio. Dalla cucina entra l’aroma del pollo che cuoce lentamente. Eloise, la domestica con noi da due anni, non è indiana, ma ha imparato a cucinare i miei piatti preferiti. Mia madre ha trascorso ore a insegnarle con infinita pazienza l’esatta quantità di cumino da mischiare con lo zenzero e il peperoncino per rendere più saporite le verdure cotte. Con gli anni, ho scoperto che vorrei mangiare tutti i giorni i piatti indiani di quando ero piccola. Eric ride quando glielo dico. Ha dodici anni più di me, dice che a trent’anni sono ancora una bambina. «Tutto perfetto. Come sempre», sussurra Eric alle mie spalle cingendomi la vita e infilando le mani sotto la camicetta per toccarmi la pancia – che è piatta, grazie alle tante ore di palestra. «Stai bene?» Rovescio indietro la testa, per assorbire la sua energia, poi mi sciolgo dal suo abbraccio e mi giro a guardarlo. I suoi occhi verdi si accendono. Gli accarezzo i capelli biondi, un po’ mossi, gli poso la mano sulla nuca. «Voglio che tutto sia perfetto per Mami», dico guardandomi attorno. Mia madre è in piedi accanto alla finestra, in attesa. Sento il risentimento salirmi in gola, ma lo caccio indietro. Non è questo il momento. «Sono anni che non vede Sonya.»
«Anche tu, no?» Riempio la caraffa dell’acqua, la metto al centro della tavola, poi ammiro il risultato: un sontuoso ricevimento per dare il benvenuto alla sorella che da anni ci ha abbandonati. Eric mi guarda aspettando una risposta che non ho. «Non ha importanza», dico alla fine. «Ha fatto la sua scelta.» Una scelta che non ho mai capito, ma che ho dovuto accettare. «Sono curioso di conoscerla.» Da piccole io e Sonya dividevamo tutto. È incredibile che non abbia ancora conosciuto mio marito. Le avevo mandato l’invito di nozze, l’avevo chiamata per spiegarle ogni minimo dettaglio, ma all’ultimo non si è fatta vedere. Lasciandomi senza damigella d’onore. Marin, mia sorella più grande, ha preso il suo posto, come ero certa avrebbe fatto. Senza risentirsi di essere un ripiego, o che glielo avessi chiesto solo qualche minuto prima di entrare in chiesa. Marin fu al mio fianco sull’altare e poi attorno al fuoco durante le due sontuose cerimonie simbolo delle nostre religioni. «Mammina è decisamente emozionata», dice Marin entrando dal soggiorno dove ha aiutato Gia con gli esercizi di algebra. Ogni sorella chiama in modo diverso i nostri genitori. Io li chiamo affettuosamente Mami e Papi, mentre Marin usa i tradizionali Mammina e Papino. Sonya proprio non ricordo come li chiama, forse perché raramente l’ho sentita chiamarli. «Sono ore che aspetta alla finestra.» Marin ha i capelli raccolti in una crocchia. Quando è arrivata si è tolta la giacca del tailleur ed è rimasta con la camicetta di seta e i pantaloni che sottolineano il suo fisico asciutto per le ore di palestra e per lo stress. Ha cinque anni più di me, ma nessuno potrebbe pensare che siamo sorelle. I suoi capelli castani, baciati dal sole della California, hanno riflessi biondi inspiegabili per la genetica. Gli occhi verdi li ha presi da una lontana prozia, dice la mamma. Da ragazze, tutti credevano che solo io e Sonya fossimo sorelle, a volte
perfino gemelle. Ma Sonya diceva di no. Sosteneva che io fossi quella bella. Gli amici dei miei genitori mi chiamavano la principessa della casa. L’unica spiegazione per l’infanzia che ho avuto. «Devo servire la cena?» chiede Eloise sporgendo la testa dalla cucina. Cresciuta in Messico, non ha nessun famigliare qui negli Stati Uniti. Guardo l’orologio d’oro tempestato di diamanti che circonda il mio posto. È stato un regalo di Eric per il nostro quinto anniversario. Dopo la sua recente promozione ad amministratore delegato, quello che prima era considerato un lusso è diventato una necessità. «Il suo volo dovrebbe essere arrivato. Aspettiamo ancora quindici minuti», dico. «Sempre che abbia deciso di venire. Non sappiamo se ha preso l’aereo.» Marin è così, dice sempre quello che pensa. La mamma si gira verso di noi con una smorfia di angoscia subito mascherata. «Sarà qui tra poco, ne sono sicura», dice. Ma nella sua voce manca la solita fermezza e un sorriso tirato ha sostituito quello radioso di poco prima. Si stringe nel cardigan di lana, anche se fuori splende il sole e soffia una brezza calda. Da quando mi sono sposata, ha smesso di indossare il sari. Non c’è più bisogno di seguire le tradizioni, ha detto. Non mi ha mai accennato se papà gradiva il suo nuovo abbigliamento. «Sonya mi ha chiamato appena prima di salire a bordo.» «Questo non vuol dire che poi l’abbia fatto», insiste Marin. Lancio di sottecchi un’occhiata d’intesa a mamma. È un giochino che abbiamo imparato anni fa, quello di muoverci in punta di piedi attorno alle parole di Marin. Fu una sorta di tacito accordo che stringemmo quando Marin tornò ad abitare in città. Non permettiamole di spezzare la fragile famiglia che ci è rimasta. Dopo aver già perso Sonya per colpa del passato, mia madre non voleva perdere un’altra figlia. «Be’, anche se in ritardo possiamo sempre festeggiare il
compleanno di Marin con una deliziosa cenetta. Anche questa volta Eloise ha superato se stessa. Tesoro», dico porgendo una bottiglia di vino a Eric, «perché non ci versi da bere?» Con la naturalezza nata dalla pratica, Eric stappa la bottiglia. Mentre guardo il liquido rosso riempire i bicchieri di cristallo, mi torna alla mente un’immagine di me e Sonya da piccole che giochiamo a Facciamo finta che… Che io fossi la proprietaria di un ristorante, o la padrona di casa o semplicemente una donna bellissima, proponevo sempre di fare un brindisi con del succo d’uva. A noi! esclamavo. E Sonya, sempre d’accordo e sempre felice di giocare con me, mi assecondava. Poiché era sempre stato così, immaginavo che sarebbe stata sempre al mio fianco, pronta a fare qualsiasi gioco decidessi di fare. Da grandi lei sarebbe stata l’altra mia metà, quella che mi rendeva intera. Lei l’ombra, io la luce; lei la tristezza, io la felicità. Osservo mia madre in attesa; la sua testa china tradisce il cuore pesante. Quando Sonya se ne andò, si aprì un vuoto nella nostra vita. Raramente mia madre la nomina. Come se, non dicendo il suo nome, lei fosse ancora qui con noi. Io ho cercato di riempire la mia solitudine in altri modi – Eric, la mia casa, mamma e papà – ma niente ha potuto colmare completamente il vuoto lasciato da Sonya. Imparai una cosa importante il giorno in cui lei se ne andò: non puoi trattenere chi ti ha già abbandonato. Al di là dei miei desideri o dei miei bisogni, Sonya aveva anteposto se stessa. Io venivo dopo. Per un po’, finsi di fare qualcosa ogni giorno e a un certo punto mi dimenticai che mi mancava qualcuno. Solo ora, al pensiero del suo ritorno, riconosco il vuoto rimasto dentro di me. Ma non posso mostrare la mia eccitazione. Se Sonya non si fa vedere, se ci delude, se le cose resteranno come sono, allora mi sentirò di nuovo abbandonata, ancora in attesa. «È arrivata!» esclama Gia entrando di corsa dallo studiolo
con ancora in mano il libro di matematica che Marin le ha comprato. È un sorprendente ritratto della madre, le divide solo qualche centimetro in altezza. A quindici anni, sembra già una donna. «Sta pagando il taxista.» Butto fuori il respiro che non mi ero accorta di trattenere. Con le mani giunte, guardo la mamma che, distratta dalla conversazione, non ha visto arrivare Sonya. Ha gli occhi velati di lacrime, ma le dissipa battendo le palpebre. Raddrizza la schiena, tornando alla sua altezza di poco più di un metro e mezzo. Si dirige a passi veloci verso la porta, aspetta un attimo prima di aprirla. Noi ci stringiamo attorno a lei, aspettiamo di vederla dare il bentornato alla figlia perduta. «Mamma?» le dico mettendo la mia mano sulla sua che stringe forte la maniglia. «È fuori che aspetta.» «Certo», mormora lei con una risatina incredula, e poi apre la porta. E come se la trova davanti si morde il labbro. «Sonya!» Sonya ha i capelli più lunghi di come li ricordavo, ed è anche più magra. I suoi jeans e il maglione pesante contrastano con il mio vestito primaverile. Le rughe attorno agli occhi e alla bocca, il sorriso tirato, la fanno sembrare più vecchia dei suoi ventisette anni, tre meno dei miei. «È passato un sacco di tempo.» Sonya esita, non sa bene come reagire davanti a tanta accoglienza. Fa un passo verso mia madre, come un automa, l’attira a sé in un abbraccio di circostanza. La stringe per un istante, poi lascia ricadere le braccia lungo i fianchi. «Marin! Che bello rivederti.» Le due sorelle si abbracciano appena. Tanti anni di lontananza hanno creato tra loro una distanza maggiore di quanto non abbia mai fatto la differenza di età. «Trisha?» Lo dice con un sorriso, e finalmente i suoi occhi si accendono d’emozione. Mi viene incontro a braccia tese. Le afferro la mano… la mia sorellina… e la stringo a me. «Mi sei mancata.» È un soffio fra i capelli, parole così lievi che quasi vanno perdute.
Ho la gola serrata, non mi escono le parole. È qui, dopo tutti questi anni passati ad aspettarla, a chiedermi dove fosse. La sua presenza comincia a riempire il vuoto dentro di me. Da piccola, la davo per scontata. Adesso so che non lo faro mai più. Le mie lacrime le bagnano la spalla mentre ci teniamo strette. Le cingo la nuca con il palmo della mano, come farebbe una madre con la sua creatura, e la avvicino ancora di più a me. Se la stringo forte non se ne andrà più via. «Benvenuta a casa», le sussurro con un misto di disperazione e di sollievo. *** A un osservatore casuale sembreremmo una famiglia normale. Ci passiamo i vassoi, riempiamo i piatti di cibo, finiamo la bottiglia di vino, mentre Sonya ci racconta dei suoi lunghi viaggi. Ha vissuto in ogni luogo immaginabile, dall’Alaska alla Russia. In Thailandia, racconta a Gia, ha cavalcato un elefante, in Alaska ha sorvolato i ghiacciai con un aeroplano a elica. «Dove abitavi?» le chiede Gia incantata. «Non dev’essere stato facile continuare a spostarsi da un posto all’altro.» «Ne è valsa la pena», risponde Sonya evitando gli sguardi indagatori. Giocherella con il tovagliolo di lino, poi lo piega in un quadrato perfetto. «Per le foto.» «Saresti dovuta tornare a casa.» Mami lo sussurra appena, ma il chiacchiericcio cessa di colpo. «I tuoi viaggi ti hanno portato molto lontano.» È immigrata in America dall’India più di venticinque anni fa, ma le è rimasto un leggero accento. «Era il mio lavoro», dice piano Sonya. «E quando non eri via per lavoro, dov’eri?» le chiede la mamma pulendosi la bocca con il tovagliolo. Una tensione palpabile si diffonde attorno alla tavola. Sonya mi lancia un’occhiata, sembra esitare. E di colpo rivedo
la bambina rannicchiata accanto a me nel letto, a cercare protezione sotto le coperte. La bambina che rideva, per non mettersi a piangere. «Adesso è a casa», dico. «Conta solo questo, no?» E, senza aspettare una risposta, chiamo: «Eloise!» lei subito si affaccia sulla porta. «Puoi portare la torta di compleanno e il dessert?» le dico. Eloise ha fatto il gulab jambu, il dolce preferito di Sonya fin da quando era bambina. Frittelle affogate in uno sciroppo dolcissimo. Sonya ne mangiava almeno una mezza dozzina quando Mami le faceva. Comincio a sparecchiare. Eric si alza immediatamente per darmi una mano, e anche Raj, il marito di Marin, rimasto silenzioso durante tutta la cena. È un uomo di poche parole, preferisce lasciar condurre la conversazione a sua moglie. «Appena arriva il dessert, dovremmo metterci d’accordo per andare a trovare papà», dico mentre impilo i piatti di porcellana e li passo a Eric perché li porti in cucina. «Sono ammessi solo due famigliari alla volta, ma sicuramente il medico farà un’eccezione per un’occasione così speciale.» «Come sta?» chiede Sonya guardandosi le mani intrecciate. I due uomini e Gia sono in cucina, a tavola ci siamo solo noi donne. Faccio per rispondere, ma Marin mi precede. «È in coma», dice con voce priva di emozione. «Non è messo bene, secondo il medico.» Mi irrigidisco all’immagine di lui in un letto d’ospedale, tenuto in vita da dei tubicini. Ogni mattina appena mi alzo vado a trovarlo; ogni volta è più dura della precedente. Ma essendo la sua figlia prediletta, mi sento in dovere, e accetto di buon grado di ricambiare il suo dono d’amore. «Pensano possa uscirne?» chiede Sonya in tono pacato. Si rivolge direttamente a Marin – due donne che discutono la situazione alla pari. Mentre le osservo, mi rendo conto di quante cose abbiano in comune: un’ottima istruzione,
la passione per il lavoro, nessuna delle due ha mai chiesto scusa per le proprie scelte di vita – senza curarsi di chi ne ha sofferto. Tutte e due bellissime, ma nessuna delle due si preoccupa di migliorare il proprio aspetto. Sono le mie sorelle, eppure mi sono spesso chiesta se fossi io l’unica vera figlia e loro facessero solo finta. Come figli adottivi che non dimenticano mai le proprie origini, si sono sempre tenute ai margini della cerchia famigliare. «Sono sorpresa che ti importi», risponde Marin. Poi si appoggia allo schienale valutando attentamente la persona che Sonya è diventata. Mi ritrovo a fare anch’io la stessa cosa. In verità, siamo tre estranee sedute attorno alla stessa tavola. Anche se abbiamo abitato nella stessa casa, e siamo sopravvissute a sofferenze simili, ognuna di noi adesso è una donna diversa. Nel corso degli anni, abbiamo imparato a tenerci dentro i nostri segreti, anziché condividerli. È il nostro retaggio, è ciò che ci si aspetta da una brava donna indiana. Abbiamo imparato fin da piccole a non condividere le nostre delusioni, la nostra disperazione. Perché altrimenti gli altri potrebbero vederti sotto una cattiva luce, avere poca stima di te. «E perché non mi dovrebbe interessare?» ribatte Sonya raddrizzando la schiena. Non ha nessuna intenzione di scusarsi per la propria fuga, la guarda senza battere ciglio. «Perché non ti è mai interessato in tutto questo tempo.» L’istinto mi dice di intervenire, di rassicurarle che non è successo niente. Faccio per parlare, ma Sonya mi precede. Allora chiudo gli occhi con la sensazione che i fragili legami della mia famiglia siano sul punto di allentarsi ancora di più. «Potrei dire la stessa cosa di te», ribatte in tono aspro. La sua amarezza sembra essersi accresciuta negli anni. «Se non ricordo male, non ti sei voltata indietro quando te ne andasti di casa a ventun anni.» «Mi sono sposata», sottolinea Marin. «E poi sono tornata.»
«Anch’io.» Finito il battibecco, Sonya si gira verso di me. «Sanno dire perché è entrato in coma?» «Non ha importanza», interviene Mami. Lancia un’occhiata a Marin e Sonya, con un tacito messaggio: basta così! Poi mi guarda con un sorriso riconoscente per essere sempre stata quella più equilibrata. La figlia che non solleva mai inutili polveroni. «Le cose stanno così. Dobbiamo concentrarci sul futuro.» Si alza, non vuole più sentire ridicoli battibecchi. «Se non esce dal coma, dobbiamo pensare alla cremazione, a disperdere le ceneri.» «E se ne esce?» La domanda mi viene spontanea, non ho ancora rinunciato alla speranza, anche se capisco perché lei invece sì. «Cosa succede?» «Allora tutto torna come prima.» *** Mi assicuro che la porta sia chiusa a chiave e inserisco il sistema di sicurezza. Al bagliore intermittente della lucina rossa, giro per la casa buia, raddrizzo i cuscini del divano, sistemo le sedie della sala da pranzo. Eloise se n’è andata ore fa, dopo aver rigovernato, e subito dopo tutti gli altri. Sonya con la mamma, Marin e Raj con Gia. Ci rivedremo domani in ospedale. «È andata bene», dice Eric sbucando alle mie spalle. Ha la cravatta slacciata e i capelli arruffati, ha appena finito un’inattesa teleconferenza. «Considerate le circostanze.» Mi sposta alcune ciocche e mi bacia il collo. Poi mi massaggia le spalle e scivola lentamente con le mani lungo la mia schiena. Mi afferra i fianchi e mi attira contro di sé. «Stai ovulando?» Da quattro anni Eric desidera avere un figlio. Per due volte è stato convinto che fossi incinta e lo vidi soffrire molto quando mi vennero le mestruazioni. È cresciuto in
un orfanotrofio e ora desidera avere una grande famiglia. Si innamorò all’istante di questa casa con cinque camere da letto e la comprò appositamente per potervi crescere i nostri figli. Ci abbiamo messo tre mesi per trasformare in nursery la stanza in fondo al corridoio di fronte alla nostra. È ancora vuota, in attesa di riempirsi dei vagiti di un neonato. «Sì», dico, anche se lui sa già la risposta. Quando ovulo e quando ho il ciclo, nell’ordine esatto, se lo ricorda meglio di me. Ripenso alla mia famiglia. «Mami e Sonya… va tutto bene, secondo te?» Lui sospira e lascia cadere le braccia. Quando mi giro a guardarlo, il suo sguardo si intenerisce, mi accarezza una guancia. «È stata tua madre a chiamarla, a dirle di tornare a casa. Troveranno il modo di cavarsela.» Mi sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Non hai ancora risposto alla mia domanda. Stai bene?» «È cambiata», dico. «Sembra più vecchia, più stanca.» Ma è tornata a casa e di questo sono felice, penso. «È diversa da come me l’immaginavo.» Eric ha visto Sonya nelle foto dell’album di famiglia; quasi tutte mostrano una ragazzina che fissa seria la macchina fotografica. È sempre stata più a suo agio dietro l’obiettivo che di fronte. L’ultima sua foto risale alla festa di laurea. A Stanford, summa cum laude. C’era tutta la famiglia a festeggiare il suo successo. Ma per mio padre anche quello non era abbastanza; anche quella sera ripeté quello che aveva detto tante volte: Sonya non sarebbe dovuta nascere. Però non fu quello a farla andare via di casa. Fu quello che disse in seguito mia madre. Nessuno di noi poteva immaginare che Sonya avrebbe deciso di lasciarci quel giorno, di andarsene per non tornare più. «Come te l’eri immaginata?» «Come una donna spezzata», risponde senza esitazione. È la prima volta che ne parla. «Dalle cose che avete detto di lei in tutti questi anni… mi ero fatto l’idea di una che… non
conosce la sua strada.» Si china e mi sfiora le labbra con le sue. «Diversamente da te.» «Io conosco la mia strada?» «È ciò che amo di te. Sei una donna straordinaria.» Mi irrigidisco, ma lui non lo nota. Non sono una donna straordinaria, dice una voce dentro di me. Se mi guardi bene, vedi le cicatrici. Sì certo, non posso lamentarmi, me ne vergognerei. Mentre le mie sorelle desideravano così tanto quell’amore che io ricevevo spontaneamente. Io ero speciale, mi sentivo profondamente amata. «Sei bellissima», mi sussurra. Mi sbottona il vestito, me lo fa scivolare fino alla vita, mi slaccia il reggiseno. Mi prende un seno nel palmo della mano e mi titilla il capezzolo. «Questa potrebbe essere la sera giusta.» Per un bambino. Sono queste le parole che non dice. Non riesce a dirle, tanto forte è il desiderio. «Solo un istante», dico. Lui mi guarda confuso mentre io mi sciolgo dal suo abbraccio e vado in bagno. Infilo le braccia nel vestito. Nello specchio vedo l’immagine di una donna tormentata, che non riesce a vedere la verità. La ignoro e, con la mano sul ventre, fisso l’unica verità che conosco. Faccio un profondo respiro; la mia decisione l’ho presa anni fa.