La vampira Snob

1 Potrei dire che mia nonna è una cosmopolita, perché ha viaggiato in lungo e largo per il mondo e ovunque si è sentita fin dal primo momento a proprio agio. Ma da una cittadina del mondo non ci si aspetta certo che per lavarsi i denti usi un bicchiere di ceramica decorato con la cartina della Grande Ungheria e il motto «L’Ungheria mutilata non è la nostra terra, l’Ungheria intera è il paradiso in terra»*. Mia nonna è fatta così. Torna a casa all’alba dopo un abbondante salasso, e usa questo bicchiere per sciacquarsi la bocca insanguinata.

A volte mi sveglio al suono dei suoi gargarismi.

Accadde anche quella mattina. Mi trascinai così come mi trovavo nel bagno. Erano le cinque e un quarto. La nonna era intenta a denudare la sua scultorea avvenenza dalla perfetta mise con cui l’aveva rivestita per l’occasione.

Perché lei è bellissima, sembra una bambola di porcellana appena restaurata. Quando l’abito da sera di seta scivolò dal suo corpo flessuoso, la nonna rimase nuda e abbagliante

* Csonka Magyarország nem ország, egész Magyarország mennyország. Celebre e diffuso slogan irredentista che fa riferimento alle perdite territoriali inflitte all’Ungheria dal trattato del Trianon (1920). [N.d.T.]

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nel suo splendore, mentre io le stavo goffamente accanto, infagottata nella mia tuta-pigiama di cotone, che indossavo perché eravamo in autunno, di notte faceva ormai piuttosto fresco e non era ancora cominciata la stagione del teleriscaldamento.

«Hai fatto tardi, nonna», osservai.

«Sì. Per poco non scoppiavo. Il tizio di oggi è stato un vero disastro. Ho dovuto ricorrere all’intera gamma del linguaggio del corpo prima che capisse finalmente dove volevo arrivare. Abitava in una zona fuori mano: quando ho finito ho dovuto aspettare il taxi per un’ora. Nel frattempo l’ho guardato dissanguarsi. Quando è schiattato, sono venuta via.»

«Ti prego, risparmiami i dettagli.»

A volte, pensando al sangue, mi sento davvero male. Mi viene il voltastomaco. Con gli occhi della mente vedo le ferite aperte, ho quasi la sensazione di essere io a sanguinare. Mi sento venir meno.

«Adesso arricci ancora il naso, ma prima o poi ci prenderai gusto.»

«Lo spero, nonna.»

Può suonare strano che una come me chiami impertinentemente nonna una simile femme fatale, ma se da un lato il nostro legame di parentela è un fatto assodato, dall’altro la nonna ha già avuto più di trentatré nomi e non tiene particolarmente a nessuno di essi, mentre la sua nonnità è costante come i corpi celesti. E poi mi confonderei in continuazione se dovessi di volta in volta capire se è il caso di chiamarla Lilith, Lamia o Empusa.

«Guardami. Visto che bell’aspetto ho?» La nonna avvicinò il suo viso a pochi centimetri dal mio. Le sue labbra erano turgide e ancora umide. «È l’effetto del consumo regolare di sangue fresco. È ricco di ferro e sali minerali. Guardati», 10

proseguì, «hai i capelli sciupati e opachi, sei magra, con il viso così scavato il naso sembra ancora più grosso.»

Voltai la testa dall’altra parte perché mi ripugnava la vista di quella bocca sporca di sangue. La nonna catturò il mio sguardo e mi fissò profondamente negli occhi.

«Devi succhiare il loro sangue prima che loro succhino il tuo.»

Mi spaventai non poco, poi andai a preparare la cioccolata. Mi chiesi come interpretare il soggetto generico di quella frase mentre dosavo lo zucchero e il cacao in polvere. Io mi nutro di cose come queste, perché sono ancora viva. La nonna è una morta vivente da almeno duecento anni, perciò nella sua bocca ogni cosa sa indifferentemente di segatura, tranne il sangue umano, che naturalmente è saporito.

Con la tazza in mano andai a sedermi sul mio letto. Dalla finestra della mia stanzetta nel sottotetto si offriva ai miei occhi la vista dagli alberi spogli del Városliget immersi nella luce dell’alba.

Il Városliget, il parco cittadino, ridesta nel popolo di questo Paese il ricordo della sua epoca più gloriosa. Nel 1896 gli ungheresi organizzarono fastose celebrazioni perché, secondo il parere di alcuni, mille anni prima i loro antenati erano giunti nella loro sede attuale (gli storici non sono tuttora riusciti a stabilire il giorno e il mese esatti).

Poi fecerunt magnum áldomás*. O era stato un’altra volta? La storia ungherese non è mai stata il mio forte, ma da bambina mi aveva molto colpita l’episodio dei sette capitribù che avevano versato il loro sangue in una coppa e con esso

* Citazione dalla cronaca medievale Gesta Hungarorum dell’Anonymus (fine XII secolo). [N.d.T.]

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avevano brindato alla loro alleanza. Negli anni in cui ero alla ricerca della mia identità avevo percepito come una sorta di conferma il fatto che l’attività tipica della mia famiglia non fosse priva di precedenti in questo Paese. Nulla può prosperare senza affondare le radici in una qualche tradizione.

Ma qui c’è sempre motivo per festeggiare. Il clima è eccellente. D’inverno fa freddo, d’estate caldo. In autunno piove, in primavera il tempo è pazzerello. A rifletterci bene, secondo me, l’unica cosa di cui al co-alberghiera diventerebbe uno dei settori trainanti dell’ecomassimo si sente la mancanza è il mare, e allora l’industria turistinomia nazionale, le seppie avrebbero un prezzo più conveniente e i velisti ungheresi si piazzerebbero ai primi posti nelle competizioni internazionali. D’altra parte, però, mi darebbe fastidio che alberi di fico crescessero rigogliosi un po’ ovunque, fruttificando due volte l’anno.

Benché i popoli ugrofinnici non si siano mai rivelati sufficientemente combattivi, stretti com’erano nella morsa di aggressive orde slave e germaniche, l’Ungheria è comunque uno dei posti migliori da queste parti. Vi cresce un frumento con un alto contenuto di glutine, si producono frutti ricchi di zuccheri, mandrie di cavalli allevati allo stato brado galoppano sfrenati nelle praterie, pingui suini e bovini di razze tipicamente magiare pascolano nella puszta, dove all’orizzonte si stagliano spettacolari miraggi. Io, a dire il vero, non ho mai visto niente del genere, ma neanche mi interessa. In ogni caso, il clima è estremamente favorevole per l’agricoltura, questa è una terra fertile.

La nonna aveva già abitato dalle parti del parco all’epoca delle celebrazioni per il millenario, e il ricordo di molte indimenticabili succhiate di sangue la lega a un locale che si chiamava L’Antica Fortezza di Buda. Per questo motivo, 12

quando fece ritorno in Ungheria all’epoca di una qualche morte nazionale – non mi ricordo più quale – fu propensa a stabilirsi soltanto nelle vie circostanti il Városliget. Non si era soffermata neppure un attimo a riflettere su quale città scegliere: in questo Paese non vale la pena di vivere che nella capitale, a Budapest. Davvero non capisco che ci facciano gli altri otto milioni di ungheresi laggiù in provincia. Non ho mai varcato i confini urbani di Budapest, mi sono spinta al massimo fino all’aeroporto, ma m’immagino che la gente di provincia non faccia altro che contorcersi nel fango e sognare di poter un giorno trasferirsi nella metropoli magiara.

Dunque, tanto per sfatare le popolari leggende sui vampiri, non abitiamo in un castello diroccato. Al giorno d’oggi anche i vampiri perseguono soluzioni razionali, e d’altronde chi ha voglia di spendere un patrimonio per acqua, gas ed elettricità? Possediamo un bilocale dotato di ogni comfort, situato nel sottotetto di un palazzo che, grazie agli sforzi e alle conoscenze dell’amministratore del condominio, è in uno stato eccellente. L’intonaco non si stacca, le pareti non sono incrostate di salnitro, e non c’è neppure bisogno di puntellare i balconi. Ciononostante le scale pullulano di ratti. Non c’è da stupirsene. È la nonna a nutrirli, perché la loro presenza fa parte della sua immagine. Si cibano praticamente di tutto, ma la nonna preferisce viziarli con cibi destinati agli animali da compagnia. Abbiamo cercato anche in altri modi di attenuare l’impressione di sterilità derivante dalla fin troppo efficiente manutenzione dello stabile. Una volta d’estate abbiamo scrostato l’intonaco nel tratto delle scale di servizio che conducono al nostro appartamento, e abbiamo bagnato le pareti di acqua stantia finché non hanno cominciato a emanare un pungente odore di muffa. La nonna ha addirittura insistito affinché facessimo alcuni buchi nel 13

cemento, a imitazione dei fori lasciati dai proiettili. Sì, lo so, avremmo potuto andare ad abitare in uno stabile che versasse già in condizioni simili, ma in quelli ci vivono i proletari, così invece c’è stato anche il piacere del lavoro manuale.

2 Si stava facendo mattina. Quella giornata non fu particolarmente significativa, ma, se proprio devo indicare un punto, come un chiodo sporgente dal muro al quale appendere il filo della narrazione, mi sembra adatta a questo scopo. Fu da lì che mi mossi in cerca della conoscenza, sul sentiero dell’esperienza del mondo, che poi è il desiderio perverso di ogni umanoide dotato di sani istinti.

Rimescolai per un po’ la cioccolata nella tazza, poi con gesto deciso la bevvi d’un sorso e tornai dalla nonna. Si era già coricata nella sua bara, ma non aveva ancora chiuso il coperchio. Prese a lagnarsi.

«Ecco, mi tocca ancora una volta alzarmi presto, prima che chiudano le Borse. Una volta per vivere senza problemi mi bastava farmi passare per una vedova. Una specie di vedova allegra.» Canticchiò qualche battuta: «Wiener Blut, Wiener Blut… Nessuno veniva a chiedermi di che cosa vivessi, potevo andare dove mi pareva. E invece adesso? Vivo di notte e di giorno devo lavorare».

«Non te la prendere così! In fondo, sai come recuperare le energie perdute.»

«Questo è vero», ammise la nonna, cercando di trovare una posizione più comoda. «A volte però ho la sensazione di non farcela a sostenere questi ritmi. Detesto questa emancipazione femminile.»

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«In effetti, non è quella gran goduria.»

«Per me potrebbe anche andar bene, dato che non invecchio, ma le comuni mortali ci rimettono la salute.»

«Oppure no.»

«Va bene, lasciamo perdere. Va’ a fare quel che hai da fare, Jerne!» disse con un cenno della mano, e chiuse il coperchio della bara.

Io presi a sbrigare le mie faccende mattutine e di lì a poco fui pronta per uscire e recarmi al lavoro. Sono costretta a lavorare, proprio come la nonna che, poverina, si fa un mazzo così, e dire che di soldi ne abbiamo a bizzeffe. I vampiri hanno bisogno di una qualche attività di copertura. Ciò serve da un lato a fuorviare le autorità, dall’altro offre opportunità per il contatto sociale, che è indispensabile per adocchiare e agganciare le vittime.

La nonna fa girare in Borsa una somma di modesta entità, giusto per salvare le apparenze. Ciò non le è estraneo, perché si è sempre mossa in campo economico-finanziario, ora come ricca ereditiera, ora come facoltosa vedova. Ha un ottimo fiuto per gli affari. Quando invece giunse per me il momento di scegliere un lavoro, vale a dire un’attività di copertura, la mia ava e tutrice ritenne che il mondo dell’imprenditoria e della finanza non fosse adatto al mio animo sensibile. Se proprio dovevo occuparmi di qualcosa, avrei fatto meglio a orientarmi verso l’arte.

Abbiamo fin da subito escluso le arti drammatiche: sarei stata troppo sotto i riflettori, il mio vampirismo avrebbe dato nell’occhio. Per quanto intensa sia la mia passione per la pittura, e abbia anche dipinto alcune graziose scene di massa, è tuttavia emerso che il mio senso per la forma e il colore non mi avrebbe consentito di coltivare con successo nessuna branca delle arti figurative e applicate. È altresì 15

apparso in maniera inoppugnabile che l’orecchio musicale non è favorito dagli aguzzi e ampi padiglioni auricolari tipici di noi vampiri, né poteva essere compensato dall’amore per il canto. La scelta cadde infine sul terreno intermedio tra arte e scienza, vale a dire sulle discipline umanistiche, e tra queste la letteratura. Ottima decisione, specialmente quando non si ha la preoccupazione di come guadagnarsi il pane. E questo lo dico senz’ombra d’ironia. A me non piacerebbe affatto dover lavorare per guadagnarmi da vivere. Lavoro per dare l’apparenza di vivere del mio lavoro. A causa di ciò devo occuparmi di un mucchio di faccende dei generi più svariati e che richiedono una straordinaria quantità di tempo. È difficile, ma non impossibile. In fondo, di scrivere sono capaci tutti. Perfino io. Tanto più di scrivere favole, perché le favole sono chiare, hanno un linguaggio semplice. Bado però a non scriverne di troppo belle, poiché non voglio in nessun modo attirare l’attenzione su di me. Scrivo quel tanto che basta, così quando mi domandano: «Ma tu di che cosa ti occupi?» posso rispondere: «Scrivo favole su Initiative, il coniglietto spaccone ma codardo».

«E riesci a viverci?» mi chiedono allora, perché è soprattutto questo che interessa agli ungheresi.

«No», rispondo, per rassicurarli, poiché è davvero scocciante se uno se la passa bene – specie se è uno scrittore perdigiorno! Poi aggiungo: «E lavoro in una casa editrice».

Proprio così. Ormai da due giorni, presso l’editore Elettra & Socio. Quale unica dipendente di una ditta dove la dirigenza è composta da due persone: Elettra e il suo socio.

Ottenni questo lavoro pubblicando un’inserzione con il seguente testo: Fresca di laurea, senza alcuna esperienza, cerca impiego modestamente retribuito e privo di responsabilità e sfide.

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Mi giunsero due proposte e per un po’ fui afflitta dalla decidofobia: non riuscivo infatti a scegliere fra la traduzione di romanzi rosa e la correzione di bozze di libri di astrologia. Alla fine mi resi conto che l’esoterismo mi ripugnava di meno. Quel che mi disturba nei romanzi rosa non è il fatto che a leggerli siano solo donne, bensì che questi libri contengono le frasi che più mi fanno vomitare. Temevo che, a forza di essere esposta a testi di quel genere, avrei finito anch’io per dire cose come «Mi piaci perché mi fai ridere», oppure, «Mi hai fatto piangere. Mi hai spezzato il cuore». Oltretutto, questi romanzi ricalcano la realtà con una precisione agghiacciante: quando scatta quella misteriosa chimica, gli esseri umani si propinano davvero l’un l’altro simili scempiaggini.

Non volevo un lavoro che impegnasse eccessivamente il cervello, poiché volevo riservare le mie facoltà intellettuali per il mondo delle favole. Inoltre la casa editrice, attiva prevalentemente nei settori della psicologia divulgativa e dell’occultismo, non era molto distante da casa mia e avevo immaginato quanto sarebbe stato stimolante cominciare la giornata con una bella camminata a passo spedito.

«Il mio compagno.» Così Norma-Elettra, la responsabile della casa editrice, con un sorriso pudico aveva presentato il suo socio. Non mi era ancora capitato di incontrare l’individuo in questione. A quanto sembrava, in ufficio Norma-Elettra teneva il fronte da sola. Era di quelle donne che, anche se le incontri tre volte e ci parli per ore, la quarta volta ti passa davanti per la strada e nemmeno la riconosci.

Lo dico per esperienza, perché era successo esattamente lo stesso anche a me quella mattina. Così potei anche scoprire che era capace di trafiggerti con lo sguardo. Questo è quanto ritengo opportuno dire su di lei, per il momento.

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Norma-Elettra era in procinto di partire per acquisire i diritti del manuale di autoguarigione in cima alla classifica dei bestseller del «New York Times», quando un uomo discretamente ripugnante e tutt’altro che aitante fece il suo ingresso nel trilocale che ospitava la casa editrice. Si salutarono con un asettico bacio coniugale, la donna se ne andò, l’uomo si girò verso di me.

«E così tu sei Jerne. E così che ti chiami, vero? Io sono Jermák.»

Deploro questa maniera di entrare in confidenza senza alcun preambolo, già dal primo incontro, ma anch’io mi presentai.

«E allora, ti piace il lavoro?»

«Be’… è interessante.»

«Non ti ispira nessun entusiasmo questa tua missione culturale?»

«Ma sì, certo. Sono molto contenta di poter lavorare qui.»

Lanciai un’occhiata al di sopra della sua spalla e scorsi i titoli dei libri sullo scaffale. Lui nel frattempo passò dettagliatamente in rassegna le mie mansioni. «…ma non devi preparare il caffè.»

«Meno male, che sollievo. Non ne sono neppure capace.»

«Adesso però potremmo discutere delle altre tue mansioni davanti a una birra.»

«Non bevo birra.»

«Puoi bere qualsiasi cosa.»

«Non bevo neppure qualsiasi cosa», risposi in tono freddo e sprezzante, pur sforzandomi di sorridere per attenuare la scortesia della mia risposta.

«D’accordo.» Jermák si diresse con indolenza verso la sua scrivania. A metà strada si voltò a dirmi: «Allora mettiti al lavoro!»

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3 Affranta dopo una giornata di lavoro lunga come mai in vita mia, me ne tornavo stancamente verso casa per i vialetti ricoperti di cemento del Városliget. Solo di tanto in tanto alzavo lo sguardo per vedere se per caso si stesse avvicinando qualcuno che conoscevo e avere così il tempo di evitarlo. Quando varcai la soglia del nostro stabile, pensai che con questo mi stavo irrevocabilmente privando dell’eventualità che quel giorno mi succedesse qualcosa. Gettai un’occhiata fugace alla nostra cassetta delle lettere.

Il mio cognome è composto dall’unione del nome di due fisici, uno italiano e l’altro francese, entrambi strettamente legati al fenomeno dell’elettricità. Grazie all’inventiva di mia nonna, tutti i miei conoscenti hanno sempre qualcosa da chiedermi.

Cerco di evitare il più possibile le situazioni in cui devo presentarmi con il mio nome completo, sulla cassetta della posta figurano soltanto le iniziali del mio cognome, dato che «Jerne» può bastare per mettere il postino sulla buona strada. Spinsi verso l’interno lo sportello basculante della cassetta delle lettere e una busta oblunga con il timbro POLSKA cadde ai miei piedi.

Quando la esaminai meglio, potei constatare che quella lettera l’avevo scritta io due settimane prima a Edward Leszczycki, che vive in Polonia. Destinatario trasferito, restituire al mittente.

Aprii la busta, e mentre salivo su per le scale lessi la lettera.

Ecco quel che avevo scritto a Edward Leszczycki quattordici giorni prima, alle due di notte, a Budapest.

Caro Edward, forse ti ricorderai che quando sei partito io ti avevo detto che sarei rimasta e ti avevo deriso perché tornavi in Europa orientale. Pensa un po’, adesso anch’io mi trovo da queste parti!

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L’unica differenza è che io risiedo in Europa centro-orientale.

Ma secondo me ce la passiamo entrambi egualmente bene.

Non sono riuscita a resistere al richiamo di mia nonna.

Era venuta a trovarmi e aveva trascorso giornate intere a convincermi. Non faceva altro che raccontarmi quante cose eccitanti ti possono succedere vivendo in mezzo agli ungheresi. E aveva ragione. Dopo una lunga assenza, vivo ormai da due mesi in Ungheria e posso affermare che da nessun’altra parte si fa una vita più interessante.

Mi sei venuto in mente perché mi sono ricordata di una nostra vecchia polemica a proposito dei burocrati. Avevamo dibattuto a lungo chiedendoci a che cosa potessimo mai paragonarli, perché sin dall’inizio eravamo stati concordi nel ritenere che se fossimo riusciti a capire a quale essere vivente a noi noto fossero equiparabili, avremmo anche razionalmente compreso in che modo bisogna trattare con loro, riuscendo a spogliarli di quell’alone di mistica intoccabilità che li avvolge.

Io ribadivo che a me sembravano esseri umani, e in particolare autistici. Non voglio offendere gli autistici, con questo volevo solo alludere a una cosa che avevo letto a proposito dei burocrati, e cioè che si sconvolgono se una qualsiasi cosa diverge dall’ordine a loro consueto. Tu avevi replicato: lasciamo stare gli autistici, dato che tra loro ve ne sono alcuni dotati di un’intelligenza strabiliante. E avevi aggiunto che se avessimo invece trattato i burocrati alla stessa stregua dei minorati psichici, di certo avremmo avuto maggiore successo.

Perdonami se ti ho tediato rievocando la nostra discussione, ma questo dovevo assolutamente scrivertelo. Edward, credo che avessimo entrambi ragione. La teoria da noi elaborata mi è di grande aiuto nella vita quotidiana.

Per il resto, qui mi trovo benissimo. Mi capitano un sacco di 20

cose. Ad esempio, oggi sono stata a un colloquio di lavoro in una casa editrice. Sembra che lavorerò per loro, mi occuperò della revisione dei testi. Sarò io responsabile degli aspetti stilistici e ortografici, il che è piuttosto buffo perché, anche se ho parlato questa lingua fino all’età di quattordici anni, non posso dire di averne davvero padronanza.

La direttrice si chiama Norma-Elettra, dico sul serio. Nello scegliere un nome per i propri figli, talvolta i genitori si dimostrano di una crudeltà inaudita: portare il nome di ben due eroine tragiche allo stesso tempo mi pare quantomeno un’esagerazione. E poi non sorride mai. Però mi ha promesso che la casa editrice darà spazio anche alla narrativa e ai testi di autori emergenti. Nel senso che sarebbe disposta a pubblicare le mie favole qualora si rivelassero «all’altezza». Mi pare il minimo che possano fare per i collaboratori interni.

Spero che la presente ti trovi in ottima salute. Ti ricordi ancora di Winterwood? Scrivimi il tuo indirizzo esatto!

Tanti saluti dalla tua amica J. V. Ampère Ebbene sì. Dopo tutti questi anni, quando scrivo in inglese mi esprimo ancora in uno stile così lezioso e affettato.

Accartocciai il foglio e lo gettai nel cestino.

Winterwood. È lì che avevo trascorso gli anni più ricettivi della mia giovinezza e mi ero preparata con impegno e determinazione all’attività di copertura che avrebbe colmato di soddisfazioni me e chi mi stava intorno: scrivere favole.

Winterwood è un piccolo e anonimo college in una cittadina dell’Inghilterra meridionale. La nonna mi ci aveva mandato perché aveva sentito dire che vi insegnavano le reincarnazioni delle sorelle Brontë e dunque era l’ideale per un’aspirante autrice di favole. Devo riconoscere che la nonna, da tutrice 21

coscienziosa, ha sempre fatto di tutto per farmi diventare un cadavere erudito.

E quale luogo potrebbe essere più ideale dell’Inghilterra?

Quante esperienze! Grazie all’internazionalità dell’ambiente studentesco ho imparato a bestemmiare in francese – è così che da allora scarico la tensione derivante da piccole contrarietà, non mi piace ricorrere a volgarità esplicite. Ogni tanto dico: «che pezzo di Derrida», «gran figlio di Lacan». E se ad esempio inciampo a piedi nudi nello spigolo di un mobile mi scappa da gridare: «Foucault!» Potrei elencare all’infinito le abilità pratiche che ho acquisito, ma naturalmente mi ero anche sforzata di assimilare conoscenze teoriche durante i miei anni di college.

Di solito me ne stavo in biblioteca fino all’ora di chiusura, durante il fine settimana invece me ne stavo sdraiata sul mio letto e divoravo i monologhi di arvicole acquatiche e di talpe, le sbruffonate dei rospi, le prodezze di audaci topi domestici, i calembour dei pezzi degli scacchi, le avventure di scatenati fanciulli dai capelli rossi, il tragico destino di poveri orfanelli, le storie misteriose di folletti e coboldi, e poi c’erano tutti quei conigli dalla personalità così spiccata…

Alla fine scrissi una tesi intitolata La rappresentazione del coniglio nella letteratura britannica per l’infanzia, con particolare riferimento all’epoca vittoriana ed edoardiana, e tra le altre cose avevo parlato dei conigli di Beatrix Potter, Lewis Carroll e Milne, ma anche di figure più anonime, come ad esempio quelle che qualche autore si limita a definire come «un anziano coniglio».

La mia relatrice non approvava l’argomento da me scelto. Innanzitutto mi fece notare con perfido compiacimento che la celebre opera di Milne era stata pubblicata nel 1926, dunque l’autoritaria figura di coniglio presente 22

nel romanzo non apparteneva all’epoca edoardiana, bensì a quella di Giorgio V. Lei era una specialista di orsi, e siccome aveva letto da qualche parte che i popoli ugrofinnici avevano l’usanza di celebrare rituali dell’orso (nel senso che pigliavano un orso e gli facevano la festa), mi aveva proposto come tema proprio il predatore dalla pelliccia bruna, dicendo che magari avevo esperienze personali legate alla mitologia ursina. Io invece non avevo ricordi di questo genere, dato che in Ungheria, dove ho trascorso gran parte della mia infanzia, di queste creature dalle zampe impiastricciate di miele non se ne incontrano quasi mai, per non menzionare neppure il fatto che uno dei personaggi strettamente legati a tale argomento, vale a dire quel citrullo di Winnie the Pooh, mi fa letteralmente vomitare.

Il coniglio è un animale stolto, fetido e lascivo, e nelle favole ci appare come una creatura in carne e ossa, dotato delle più svariate debolezze umane, non come un idiota imbottito di segatura. Mi piacerebbe che finalmente tutti si rendessero conto che anche i conigli possono essere audaci e avventurosi come i comuni roditori domestici, e inoltre hanno una personalità assai più complessa. Non nego che per via delle loro dimensioni i topi si trovino in qualche modo avvantaggiati, ma non bisogna sottovalutare le doti fisiche dei conigli, poiché possono tornare utili per plasmare il carattere del personaggio. Io stessa ho basato la concezione delle mie opere proprio su tali caratteristiche.

E così Edward Leszczycki si era trasferito. Fa niente. Tanto non aveva mai risposto alle mie lettere.

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