La villa triste

PROLOGO

Vienna, novembre 1944 «Daccapo», disse l’ufficiale della Gestapo, stravaccato dietro la sua scrivania. «Il momento dell’incidente. Mi racconti quella parte, di nuovo.»

Reinhardt si sentiva la bocca secca e tumefatta, una conca di sangue pastoso e appiccicaticcio; da quando lo avevano trascinato là sotto, non gli avevano concesso neppure un goccio d’acqua.

Poi, respirando affannosamente dal naso: «Ci hanno attaccato a sud di Brod…»

«Sulla strada per interrogare il Generale Verhein.»

«No», ribatté. Qualcosa nella sua bocca era decisamente fuori posto, una sensazione di vuoto e movimento là dove non avrebbe dovuto esserci. Si concentrò sul pavimento, una distesa di piastrelle male assortite sia per colore che per dimensione. Ne scelse una e ci piantò sopra gli occhi, nel tentativo di ignorare il monotono andirivieni del secondo agente presente che si aggirava per la stanza, quello che, senza preavviso e con assalti furtivi, gli piombava addosso per assestargli colpi a proprio piacimento.

«Ci eravamo persi. Prendemmo la strada verso sud per errore.»

«Dunque non eravate alle costole di Verhein?»

«No.» Dita si insinuarono fra i suoi capelli e gli strattonarono la testa all’indietro, mentre l’altro ufficiale lo squadrava da capo a piedi.

«E così non stavate cercando Verhein.»

«No.»

«L’incidente…?»

«Ve l’ho già detto», biascicò Reinhardt, soffocandosi con il sangue che gli si addensava in gola per via della nuca forzatamente piegata all’indietro. «Un attimo prima stavamo guidando, e quello dopo ci tartassavano di proiettili; la sola cosa che ricordo è che abbiamo sbandato e siamo finiti fuori strada.»

«Si trovava da solo?»

L’altro tizio mollò la presa, spintonandogli la testa in avanti.

Reinhardt si sporse sul fianco e sputò fiaccamente.

«Il mio autista è morto.» Quando un nuovo rigolo di saliva gli stillò dalle labbra, lui dovette contemplare la traiettoria che un suo dente disegnò ruzzolando sul pavimento.

I due ufficiali scoppiarono a ridere. «Un dente, Reinhardt?

Farà meglio a trattarli con un po’ più di riguardo. Anche se, sbaglio o ce ne sono ancora parecchi nella fogna da cui è appena saltato fuori?!»

«Capitano Reinhardt.»

Reinhardt ritrasse lo sguardo dal passato, concentrandosi prima sul bicchiere intonso fra i suoi avambracci, e poi sull’altro che, ancora ricolmo, era al capo opposto del tavolo. Una sigaretta bruciava lentamente fra le sue dita, mentre una lama di luce penetrante fendeva l’interno della taverna, prendendo corpo nell’ombra, torcendosi per lambire gli avventori del bar e infine frangersi contro il fumo che agitava la corrente in torbide spirali.

«Capitano Reinhardt.»

Sentì la schiena intirizzirglisi, poi, guardandosi attorno cautamente, adocchiò un sergente della Feldgendarmerie ritto sulla soglia all’altra estremità del locale, con tanto di gorgiera che gli risplendeva lucida sul petto e, accanto a lui, un secondo Feldgendarme, stavolta un tenente. Fu allora che il suo stomaco si serrò in una morsa, mentre lui si domandava se alla fine non l’avessero stanato, e se nell’arrivo inatteso

dei due ufficiali non si celasse lo zampino del tale che era in procinto di incontrare.

«Capitano Reinhardt. Si identifichi.» Gli sguardi dei Feldgendarme setacciavano incessantemente la stanza, posandosi con fare inquisitorio da un viso all’altro.

«Sono il capitano Reinhardt», disse lui, voltandosi e alzandosi in piedi.

Quando entrambi gli agenti si girarono all’unisono nella sua direzione, lui fu pervaso da un autentico terrore. Quei due non erano Feldgendarme. Potevano sembrarlo, dopotutto indossavano la stessa uniforme, senza contare la gorgiera metallica appesa al collo, ma sulla manica del braccio sinistro, rimasto nascosto alla sua vista, campeggiava una fascia rossa con una scritta in nero, e sul pettorale sinistro di entrambi riluceva opaca una Croce di Ferro.

Erano Feldjäger.

«Deve seguirci», gli intimò il sergente.

«Per quale motivo? Non ho fatto niente di male.»

«Abbiamo l’ordine di condurla al quartier generale dei Feldjägerkorps.»

Il bar era precipitato in un silenzio persino più fitto. Senza fiatare, Reinhardt si sforzò di deglutire la massa grumosa che tutt’a un tratto gli occludeva la gola. Che Koenig l’avesse tradito? O, al contrario, che avesse cercato di raggiungerlo per avvertirlo?

«Che vogliono i Feldjägerkorps da me?»

«Lo domandi a chi ne è al corrente», rispose il tenente. «Si muova, capitano, venga con noi.»

Nessuno, all’infuori di un Feldjäger, poteva permettersi, benché subalterno, di dare ordini a un ufficiale anziano con tanta sbruffoneria. Proprio per questo Reinhardt decise di ignorare qualunque moto di ribellione del suo orgoglio ferito; lanciò un’ultima occhiata al suo drink, indeciso se buttarlo giù tutto d’un fiato, mimando la smorfia in reazione

al bruciore dell’alcol che gli invadeva la bocca. Dopodiché si limitò a spegnere la sigaretta e gettarsi il cappotto sulle spalle, sperando che nessuno dei due Feldjäger si chiedesse perché mai un bevitore solitario avesse due bicchieri al tavolo.

Attraversò la taverna, ormai ammutolitasi, scegliendo accuratamente i propri passi, districandosi fra una selva di gambe e scavalcando le gobbe di tessuto là dove i pastrani appesi allo schienale delle sedie si spandevano come grigie sottane sul pavimento di piastrelle. I due Feldjäger si divisero per presidiare entrambi i lati della porta così da lasciarlo passare, seguendolo con aria impassibile mentre lui sfilava sotto la luce fioca dell’insegna posta all’ingresso e poi lungo la rampa di scale che conduceva in superficie, alle strade malamente illuminate e nel freddo umido e sferzante.

Lo stomaco di Reinhardt fu scosso da un brontolio, e lui fece saettare la lingua sulle pareti tumide e appiccicose della bocca, indugiando sul solco fra i suoi molari. Serrò la mascella e inalò un’avida boccata di aria gelida che finì per pungergli le gengive, ridestandolo, pietrificandolo; poi, mentre il tenente gli si piazzava davanti, il sergente gli piantò una mano decisa sulla schiena e lo scortò verso un’auto nera la cui silhouette era imperlata di goccioline umide. L’altro spalancò la portiera e seguì Reinhardt sul sedile posteriore, e la macchina dondolò ondeggiando sulle sospensioni finché il sergente non fece rombare il motore e trascinò il veicolo sulla carreggiata.

Durante il tragitto, Reinhardt guardò assorto fuori dal finestrino, alle strade buie, color nero pece, che scivolavano oltre il vetro lucido come una città sommersa. Continuava inutilmente a chiedersi cosa poteva essere successo da condurre la polizia militare dritta da lui. Quella gente, la loro cosiddetta cellula di resistenza, se n’era stata con le mani in mano sin dal mese di luglio, quando il mondo intero era parso impietrirsi dinanzi al tentato assassinio di Hitler. Era

rimasta a guardare mentre altri si giocavano altrove la loro occasione. La gente di quella cellula aveva pazientato mentre la macchina che speravano esalasse l’ultimo respiro aveva ripreso a funzionare, prima con un rantolo e poi con un ruggito furioso. Dopodiché quella gente aveva sperato e pregato per il meglio, finché uno di loro era scomparso dentro edifici di cemento e acciaio. Poi era toccato a un altro, e nessuno aveva fatto ritorno, e a quel punto la cellula si era smembrata con solo qualche frettoloso e rubato arrivederci – sempre che di un arrivederci si trattasse – i volti scuri e gli occhi infossati sotto palpebre pesanti.

Erano passati giorni, settimane, mesi, senza ricevere quasi nessuna notizia dagli altri, senza che nessuno si fosse presentato a bussare alla sua porta. Almeno, fino a quella sera. Reinhardt continuava a rimuginare, e alla fine giunse a chiedersi – inchiodato da un’improvvisa disperazione – perché mai erano venuti a prenderlo i Feldjäger, anziché la Gestapo o le SS. L’auto si fece largo con prepotenza nella notte piovigginosa, percorrendo l’ampio Stubenring fino al palazzo in cui Reinhardt riconobbe la ex sede del Ministero della Difesa austro-ungarico, ora uno dei principali quartier generali tedeschi della città. Un’enorme bandiera con la croce uncinata pendeva come una macchia rosso sangue sulla facciata austera e livida dell’edificio, un trionfo di linee verticali e pietra riccamente lavorata sotto un tetto color rame. Proseguirono sul lato dell’imponente costruzione e svoltarono sul retro, serpeggiando fra le barricate e costeggiando un cumulo di calcinacci di un’ala crollata dopo un recente bombardamento.

Il tenente fece segno a Reinhardt di scendere dalla vettura, e lui rabbrividì per il freddo, appena fuori. Seguì l’ufficiale oltre la soglia, superando un paio di Feldjäger di guardia impegnati a scaldarsi le mani davanti a un braciere di metallo. Là dentro, l’aria sembrava persino più gelida, mentre

lui si lasciava guidare attraverso quel tortuoso labirinto, su per scale e pianerottoli, finché il tenente bussò a una porta, e scortò Reinhardt dentro un’anticamera.

Un caporale con la casacca tempestata di onorificenze prese in consegna il suo soprabito e bussò a una seconda porta, da dietro cui giunse una risposta ovattata. A quel punto, Reinhardt si ritrovò in un profondo ufficio alla cui estremità, specularmente a una cascata di pesanti tendaggi, vide una scrivania con una lampada dal paralume verde, il cui bagliore scolpiva i lineamenti di un ufficiale che se ne stava seduto in un reticolo affilato di luce e ombra. Il resto della stanza era immerso nel buio, e Reinhardt impiegò un istante di troppo prima di avvertire la presenza di un terzo uomo, sprofondato in una poltroncina nella piena oscurità.

«Capitano Reinhardt», esordì l’ufficiale alla scrivania, mentre il caporale chiudeva la porta con un fruscio legnoso.

Quando l’uomo indicò un punto davanti a sé, Reinhardt scattò sull’attenti. Si trattava di un maggiore e, come ogni Feldjäger che si rispetti aveva un mucchio di decorazioni, a cominciare dalla Croce di Cavaliere della Croce di Ferro appuntata sulla gola.

«Capitano Gregor Sebastian Reinhardt», continuò il maggiore, leggendo da un fascicolo che giaceva aperto fra i suoi gomiti. «Nato nel 1898 a Köpenick, Berlino. Padre, professore universitario di filosofia. Madre, casalinga. Figlio unico. Accademia militare dal 1914 al 1916. Servizio attivo al Fronte Orientale. Trasferito al al Fronte Occidentale e arruolato nelle truppe d’assalto nel 1917. Ha servito con onore nell’Operazione Micheal. Ha ricevuto la Croce di Ferro ad Amiens nel 1918. Conferita la Croce di prima e seconda classe nello stesso giorno.» Il maggiore s’interruppe, sollevando lo sguardo su Reinhardt e posandolo sulla sua Croce di Ferro. Al cospetto di quel suo scrutinio minuzioso, senza contare quello del secondo uomo che a malapena riusciva a

intravedere, Gregor si sentì invadere da un’angoscia disperata.

La pelle gli prudeva oppressa da una coltre di sudore, e lui si sforzava di respirare adagio, con cadenza regolare, ignorando il lieve tremore che minava ogni sua singola boccata d’aria.

«Gravemente ferito», proseguì il maggiore, riferendosi a Reinhardt in terza persona, «e congedato con onore, nonché con un terzo di invalidità riconosciuta, nel dicembre 1918.

Si unisce al corpo di polizia di Berlino in qualità di detective nel 1920 per poi salire al rango di ispettore capo. Trasferito all’Interpol di Vienna nel 1938. Dimessosi dalla Kripo nel 1938, diventa successivamente membro dell’Abwehr. Assegnato al compito di ufficiale dei servizi segreti militari durante la campagna di Norvegia. Decorato con lo Scudo di Narvik.

Partecipa all’invasione della Francia nel 1940, e all’invasione della Jugoslavia nel 1941. Assegnato agli Afrikakorps nella divisione di intelligence. Dispensato dagli Afrikakorps nel 1942. Stanziato presso l’unità dell’Abwehr di Sarajevo, controspionaggio partigiano.» L’ufficiale tacque di nuovo, prima di sollevare la pagina e lasciarla ricadere mollemente all’indietro. «Ed eccoci al punto in cui una carriera discretamente onorevole finisce per deragliare. Divenuto oggetto di inchiesta da parte della Gestapo riguardo il suo ruolo all’interno di un’indagine per omicidio che coinvolgeva un generale, successivamente rimasto ucciso in battaglia.» Il maggiore alzò gli occhi. «Con questa storia ha messo i bastoni fra le ruote a parecchia gente, non è così?» Incerto sulla reale necessità di dover rispondere, Reinhardt preferì non aprire bocca, concentrandosi su un punto imprecisato oltre la spalla dell’ufficiale e pigiando la lingua nell’incavo di gengiva nuda. «Di nuovo ferito in battaglia, interrogato… intensivamente… dalla Gestapo. Assolto, manco a dirlo. Ciononostante, pare che nessuno sappia bene che cosa farsene di lei. Riassegnato dall’Abwehr e trasferito nel ruolo di ufficiale di intelligence di collegamento nell’agosto 1943, prima con la 1ª Divisione

Panzer in Grecia, poi con la 12ª Armata a Belgrado. Roba piuttosto noiosa, ma immagino che il punto fosse proprio quello, no? Però, sbaglio o la calma piatta non durò molto a lungo?» Con lo sguardo del maggiore che lo punzecchiava, Reinhardt sentì la pelle irrigidirsi in preda a un formicolio.

«Evacuato da Belgrado a Vienna nell’ottobre 1944 in seguito all’offensiva sovietica. Menzionato nei dispacci per l’estremo coraggio dimostrato nel coprire la ritirata da Belgrado.

Conferita la Spilla di Ruolo d’Onore dell’esercito tedesco a novembre di quest’anno.»

Si udì un rumore di cuoio che crepitava, mentre il terzo uomo si alzava per rivelarsi alla luce. Era un colonnello con un casco di capelli scuri, tagliati corti e screziati di grigio, il cui cranio sferico faceva perno su due spalle ben piantate. Si chinò sulla scrivania e, con gesto quasi delicato, sfilò il foglio dalle mani dal maggiore facendo per voltarlo. Dopo averlo scorso frettolosamente, affondò gli occhi su Reinhardt.

«Quell’indagine sul generale Verhein, a Sarajevo. Mi dica di più.»

«Che cosa vuole sapere esattamente, signore?» rispose lui, sorpreso dalla fermezza nella propria voce.

Il colonnello contrasse le labbra e drizzò la schiena. «Tirando a indovinare, azzarderei che le abbiano ordinato di interrompere le indagini non appena un certo generale le è capitato a tiro. Peccato solo che lei abbia disobbedito. Che altro?»

«Ho solo portato un’indagine a termine.»

«Sarebbe a dire?»

«Che ho battuto la pista indicatami dalle prove e non quella suggeritami dalla convenienza.»

«Mi parli della ritirata da Belgrado.» Dinanzi al silenzio di Reinhardt, il colonnello assunse un’aria quasi mansueta. «A che cosa si deve la sua menzione nei dispacci?»

«Alla copertura della ritirata dall’ospedale da campo prin-

cipale.» Il colonnello tacque, incoraggiandolo a continuare.

«Ricevetti una soffiata tardiva sulla minaccia che parte dell’avanzata sovietica avrebbe comportato sul ripiegamento dall’ospedale. Dal momento che le comunicazioni erano interrotte, sono andato lì per avvertirli.»

«E così ha radunato una truppa alla buona, senza disdegnare feriti lievi e sbandati, e ha dato filo da torcere ai russi abbastanza a lungo da permettere ai rinforzi di raggiungerla.

Davvero notevole. Era la prima volta che se la vedeva con i sovietici?»

«Dal 1917, sì.»

L’ufficiale ridacchiò, e al suo collega sfuggì un sorriso, poco più che una lieve increspatura delle labbra. «E?» «E sarei ben lieto di lasciar passare altri diciannove anni prima di trovarmeli di nuovo fra i piedi.»

Il colonnello piantò lo sguardo prima su Reinhardt, poi sul maggiore. Fra i due sembrò saettare una corrente impercettibile, dopodiché il primo tornò a ritirarsi nell’ombra e il secondo, una volta richiuso il fascicolo, fece frusciare un foglio tra i polpastrelli.

«Capitano Reinhardt, lei è trasferito ai Feldjägerkorps con effetto immediato.»

Le sue parole s’inabissarono in un silenzio greve. Reinhardt se ne restò lì, impalato e senza fiatare, incredulo su quanto le sue orecchie avessero appena udito.

«Lei conosce i Feldjägerkorps, capitano?»

«Sì, maggiore.» Deglutì. «Grossomodo.»

«Si spieghi.»

«Polizia militare.»

«Vada avanti.»

«Ma c’è una differenza.»

«Proprio così», annuì il maggiore. «I Feldjägerkorps reclutano solo ed esclusivamente veterani decorati. Ufficiali e sottufficiali, mai soldati semplici. Rispondiamo direttamente

al Comando generale delle forze armate, e ciò significa che persino un caporale, qualora decidesse di farne uso, può godere di un’autorità superiore a quella di un ufficiale. Svolgiamo incarichi indipendenti ed esercitiamo pieno potere sul mantenimento della disciplina nelle retrovie.»

«Pieno potere», lo scimmiottò Reinhardt; dentro di sé sentì smottare qualcosa, quella piccola parte di lui che, in circostanze del genere, non sapeva resistere al desiderio di pungolare, aizzare, provocare. «Corte marziale straordinaria ed esecuzioni sul posto.»

«All’occorrenza», replicò il maggiore. «Tuttavia, c’è di più.»

«Dovrà rimettere i panni da poliziotto», intervenne il colonnello a bassa voce, dall’oscurità. «Non è forse questo che faceva un tempo? O quello che ancora crede di fare.»

«Intendete un poliziotto militare?»

«Le ricordo che siamo entrambi agenti di polizia militare, capitano», lo ammonì il colonnello.

«Sì, signore, chiedo scusa», rispose Reinhardt, sforzandosi di non perdere il controllo. «Non è ciò che intendevo. Quello che volevo dire…» La sua voce si spense, e il suo sguardo si dileguò a caccia di un appiglio, un qualunque appiglio, fra le pareti spoglie e i barocchi drappeggi color nero seppia delle tende. «Voglio dire che al mio risveglio, stamattina, ero ancora un ufficiale della divisione di intelligence.»

«Non immagina che razza di sorpresa sia anche per noi», ribatté il maggiore, secco.

«Signore, se mi è concesso, chi mi ha raccomandato per questo ruolo?»

«Per la verità», disse il colonnello, lasciando la sedia e muovendo un passo verso la luce. «Il suo generale in comando è stato parecchio convincente.»

«Signore, mi è concesso scegliere?»

«No.» Fu allora che il tono e i lineamenti del colonnello si indurirono per la prima volta, il suo volto teso come

un muro di confine che, Reinhardt capì, non dava adito a compromessi.

«Molto bene», disse lui, stiracchiando le spalle. «Vi sono grato per avermi concesso questo onore, signore.»

Sulle labbra del maggiore tornò a baluginare l’ombra di un sorriso. «Adesso non esageriamo, Reinhardt», mormorò.

«Dove ci dislocheranno?»

«Saremo distaccati dal Feldjäger III, qui a Vienna, e ci dirigeremo a sud. Non c’è tempo da perdere. Il fronte meridionale versa nel caos.»

Il maggiore fece il giro della scrivania per consegnargli un pezzo di carta. «Il suo ordine di trasferimento. Si ripresenti qui domattina entro mezzogiorno e porti con sé il suo libretto personale. Glielo restituiremo aggiornato il prima possibile. Ah, e indossi questo», aggiunse, porgendogli un lembo ripiegato di tessuto rosso che custodiva un oggetto pesante.

Il panno non era altro che una fascetta avvolta attorno a una gorgiera a forma di mezzaluna. Reinhardt esitò, dopodiché lasciò scivolare la banda lungo il polso e su fino alla sommità della manica. Eccolo lì, uno squarcio rosso sul grigio della sua giubba, con su stampata una manciata di lettere nere volte a indicare la sua nuova unità e rispettiva autorità di riferimento: Feldjägerkorps, Comando generale delle forze armate; sentì il tessuto stringerlo quasi in una morsa, come un paio di manette, al punto che qualcosa nel profondo del suo animo compì un balzo vertiginoso, qualcosa cui lui non ebbe modo di dare un volto né di cui, ora come ora, riuscì a meravigliarsi.

«Benvenuto, capitano», disse il colonnello, tendendo un braccio. «Io sono il colonnello Scheller. Le presento il maggiore Hassler.»

Dopo che Reinhardt ebbe stretto la mano a entrambi, Hassler lo accompagnò alla porta. Tentennò mentre quella si apriva, rivelando il caporale ritto oltre la soglia con il suo

cappotto impeccabilmente ripiegato appeso al braccio. «Signore», disse a Scheller, «se mi è concesso chiederlo, sono certo che questa non sia la normale prassi di arruolamento nella vostra unità. Allora, perché proprio io?»

Scheller annuì. «Lei non risponde esattamente alla descrizione degli ufficiali che reclutiamo di solito», disse avanzando verso di lui a passo lento e con le mani sepolte nelle tasche, «per cui prima volevamo darle un’occhiatina. Ma lei vanta un buono stato di servizio, e noi faremo in modo di mettere a frutto sia la sua significativa esperienza nei Balcani che il suo passato in polizia. Mettiamola così: noi andiamo anche là dove ci porta il bisogno, e non sempre lungo la rotta che ci farebbe più comodo seguire.» Poi s’interruppe e corrugò le labbra, coprendo il labbro inferiore con quello superiore e ancorando ancora una volta lo sguardo al suo. «Come ho già detto, lei ci è stato caldamente raccomandato.»

Stavolta, ad attenderlo nei pressi di una Kübelwagen con il tettuccio di tela, c’era un altro autista, un caporale dalle labbra sottili che si premurò di bofonchiargli un rapido proforma di benvenuto prima di chiudere saggiamente il becco durante l’intero tragitto attraverso la città e fino alla caserma, che sorgeva a due passi dal Canale del Danubio.

Quando l’auto si rimise in marcia per allontanarsi, Reinhardt attese per un istante nell’oscurità e, dopo aver sollevato gli occhi sulla facciata spoglia dell’edificio, gli voltò le spalle e s’incamminò sul lungofiume. Accese una sigaretta e serrò le palpebre aggredite dal bagliore del fiammifero, poi abbassò lo sguardo sul fluire monotono e plumbeo della corrente, strizzando gli occhi di tanto in tanto per asciugare le goccioline con cui una sottile pioggerella aveva appena iniziato a tormentarli, il tutto cercando disperatamente di riordinare le idee. Si sporse su una delle balaustre finemente lavorate, flettendo le dita sul metallo freddo della gorgiera per artigliarla, e proprio mentre la tensione prendeva lentamente a

svaporare, lui fu scosso da un brivido. Arresto scongiurato, nessun capo d’accusa. Un trasferimento, tutto qui. Si portò la sigaretta alle labbra con dita incerte, prima di volgere il viso al cielo stellato e realizzare che il freddo che lo pungeva altro non era che il vento notturno a contatto con le sue lacrime.

«Reinhardt?»

Udì uno scalpiccio di passi e si girò di scatto. Accanto a lui, i contorni di un’ombra si profilarono nell’oscurità. «Koenig?»

«Sono io», rispose l’uomo, un capitano di fanteria, almeno stando alla sua uniforme.

«Non dovrebbe trovarsi qui», lo ammonì Reinhardt.

«Lo so. Gli altri…» Koenig esitò, poi abbassò la voce. «Ho visto che la portavano via dal bar. Noi… eravamo in allarme.

Mi hanno chiesto di tenerla d’occhio. Che diavolo succede?»

«Un trasferimento, ecco che succede.» Gli porse il foglio, poi fece bruciare un fiammifero, solo per assistere allo sconcerto che in un lampo germogliò sul volto di Koenig nella luce tremolante, prima che questa si estinguesse con uno sfarfallio.

«Feldjägerkorps?» sospirò Koenig, un sussurro rauco che si levò dal buio fattosi di nuovo impenetrabile. «Dio mio, Reinhardt…» Era forse una punta di invidia, quella nella sua voce?

«Tutto suo, se lo vuole.»

«Reinhardt, non sia sciocco», sibilò Koenig. «I Feldjägerkorps sono un’unità potente che gode di parecchia autorità e altrettanti lasciapassare. Lì dentro, potrà agire al di là di ogni sospetto e occuperà una posizione privilegiata. Lei è sempre uno di noi, non è così?»

«Certo.»

«Al risveglio, stamattina, quando era ancora un ufficiale dei servizi segreti, anche allora era dei nostri?»

«Sì.»

«Un membro della resistenza.»

«Ho detto di sì.»

«Allora lo tenga bene a mente.»

«Dio non voglia che me ne scordi», sbottò Reinhardt, ancora sottosopra per la notizia. «Voglio dire, basti pensare ai pochi traguardi che abbiamo raggiunto.»

«Ah, Reinhardt», piagnucolò Koenig. «Sempre alla rincorsa del solito cavallo bianco.»

«No», inveì lui. «Quel cavallo è fuggito al galoppo da un pezzo.»

«Vorrà dire che forse riuscirà a trovarlo nei Feldjägerkorps.

Veda come potersi rendere utile là dove la manderanno. E se mai uno di noi avrà bisogno di lei – o di un qualunque altro compagno che la pensi come noi – a quel punto lei sarà in condizione di aiutarlo.»

«Lo crede davvero?»

«Ah, Cristo, Reinhardt.» Koenig si sfilò il cappello, lasciando correre entrambe le mani sui capelli sottili e incollati al cranio come un manto umido. «Che vuole che ne sappia io?

Che accidenti può saperne nessuno di noi? Non sono altro che un incensato amministratore impegnato a passare carte dalla mattina alla sera. A ogni modo, come sono arrivati a lei?»

«Dicono su raccomandazione del generale.»

Koenig ridacchiò nell’oscurità. «Quel bastardo, che vecchia volpe.»

«Immagino che lui pensi…» Reinhardt non terminò la frase. Dopotutto, non poteva vantarsi di sapere che cosa frullasse nella testa di quell’uomo.

«Immagino che lui pensi di starle facendo un favore. E magari è proprio così, la toglie di mezzo e spedisce un altro dei nostri alla larga da lui.»

«Insomma, è finita.»

Koenig annuì. «Per il momento. Qui, almeno. Non ci resta altro da fare a Vienna, Reinhardt. Non che finora avessimo combinato granché, come ha legittimamente fatto notare prima.»

«Attenzione!» S’intravide baluginare una torcia, che guizzò nell’aria notturna fra lame cadenti di pioggia sottile. «Voi due, laggiù! Che cosa state facendo?»

Reinhardt sussultò, guardandosi attorno. Una pattuglia della Feldgendarmerie li aveva accerchiati. «Stiamo parlando, grazie.»

L’apparente nota oltraggiosa che vibrò in quelle sue parole non fece che spazientire il tenente a capo della squadra. «Ho detto, che cosa ci fate qui?»

«Stiamo solo parlando, tenente.»

«Di che cosa? Signore?» disse il Feldgendarme, avvicinandosi abbastanza da poter scorgere il grado militare sulla sua divisa.

Strizzando gli occhi, Reinhardt guardò il piatto bagliore della torcia, mirando al taglio leggermente cadente degli occhi di quell’uomo, e alla potenziale minaccia che poteva rappresentare. E mentre guardava se stesso ricambiare lo sguardo di quel Feldgendarme, per un istante colse il senso delle possibilità che gli offriva l’essere un Feldjäger. Le stesse possibilità a cui Koenig aveva alluso. Deglutì energicamente, mentre cercava con la mente di andare oltre quell’improvvisa intuizione: dopodiché gli mostrò il suo ordine di trasferimento, badando bene a porgerglielo con la mano sinistra.

«Di questo.»

La torcia del Feldgendarme scivolò sul foglio, e la luce si riverberò sul volto del soldato scolpendovi sopra le forme di un macabro sollievo. Il bagliore vacillò, cercò il polso di Reinhardt, poi ripiegò di nuovo sulla carta. Dopo avergli restituito il documento, il tenente gonfiò il petto e fece schioccare i tacchi.

«Mi rincresce molto di averla disturbata, signore. E comunque… buona fortuna.»

I due attesero che la pattuglia si rimettesse in marcia, poi Koenig gli tese la mano.

«Lei ha ragione, non dovrei trovarmi qui. Chissà in che guaio potevamo cacciarci.»

«Già. Immagino che lei ci avesse visto giusto.» Reinhardt accennò a un sorriso stanco e incerto verso l’oscurità, accettando la stretta dell’uomo. «È stato un onore.»

«Lei è perdonato, Reinhardt», rispose Koenig, ricambiandolo. Una nota scherzosa gli tingeva la voce. «Ci renda orgogliosi. E, guai se dovesse dimenticarlo, tutti noi siamo molto più di questo.»

Reinhardt si rincamminò lentamente lungo l’argine del canale, la testa a Sarajevo, al suo sterminato lungofiume, ai ponti ottomani che s’inarcavano sulla corsa vorticosa e spumeggiante della Miljacˇka. Sentì il controllo mollare gli ormeggi e subito il morso delle lacrime, senza sapere se a scatenarle fosse la rabbia o quel suo ineluttabile senso di impotenza. Con la mano andò furtivamente alla Croce di Ferro appuntata sul petto, e la strinse con una tale veemenza da farsi male, mentre i suoi pensieri tumultuavano tra il gelo pungente di quell’inverno viennese e il freddo carico di pioggia del campo di battaglia francese dove se l’era sudata, finché, più gli spigoli di metallo gli affondavano nella carne, più in lui si faceva largo l’idea fino ad allora inesplorata di sbarazzarsene.

«Io sono molto più di questo», mormorò, rievocando le ultime parole di Koenig, niente più che il motto cui aveva inneggiato il loro gruppo. Ogni volta che si ripeteva quella formuletta, nonostante il desiderio di sentirsi ridicolo, o quantomeno retorico, ogni santa volta capitolava dinanzi alla sua intima verità, sebbene solo allora si rese conto, con vivida precisione, di quanto fosse furioso. Con se stesso. Con il mondo intero. Immobile nella notte, cullato soltanto dal brusio dell’acqua, non sapeva individuare l’oggetto della sua rabbia, e si sentiva più solo che mai.

Sbrigati e aspetta, si disse, addentrandosi nei propri pen-

sieri. D’altronde, negli ultimi tempi aveva continuato ad arrovellarsi, come del resto tutti gli altri. Per quanto lui e loro – tutti brav’uomini convinti di poter capitanare imprese degne del titolo di «resistenza» – avessero voluto passare all’azione, per quanto lui si fosse sforzato di vederla altrimenti, alla fine non aveva ottenuto nulla. Nessuno aveva ottenuto nulla. E adesso era parecchio lontano da quella notte sul monte bosniaco quando aveva sentito una nuova verità insediarsi in lui, colmare tutti quegli angoli di sé che credeva vuoti, per mostrargli infine che le altre parti di sé mai conosciute, si erano a loro volta inaridite.

Eppure, con quanta fretta si erano dissolte tutte quelle possibilità al cospetto del peso morto del mondo, e quanto vano era stato condividere tutti i suoi sogni con gente che la pensava come lui, fatta eccezione per una sfilza di conversazioni clandestine e piani che facevano acqua da ogni parte, mentre lo strisciante dubbio che qualcuno li stesse osservando aveva finito per logorarlo. Che frutti poteva dare una resistenza che mai una volta si faceva forte del suo nome?, si domandò per l’ennesima volta. E, per l’ennesima volta, si rispose, ben pochi. Nonostante tutto quel loro infervorarsi su parole nobili come dissenso, opposizione e resistenza, Reinhardt covava la prepotente consapevolezza di aver rinunciato a muovere il passo decisivo, la sola scelta che avrebbe potuto – o, forse, dovuto – abbracciare. E là, nei margini logori della sua indole, dove un tempo aveva talvolta fantasticato che la vita potesse riattecchire, ora si sentiva eroso, ricurvo, come un cero quasi del tutto consumato.

Si fermò a lungo a contemplare il canale che si dipanava sotto i suoi occhi, finché a un tratto, al cospetto del luccichio della pioggia che si stagliava sul buio fitto della volta notturna, si chiese come diavolo fosse arrivato a quel punto.