Le conseguenze estreme

Accursio Ramirez uscì dalla Camera del lavoro intorno alle nove e dieci e si avviò verso casa in compagnia di Caramanna, di La Martina e di altri due compagni, Intravaia e Scandurra. Le strade erano deserte e l’unico rumore che si percepiva era quello del maestrale che si incanalava fra i vicoli e faceva oscillare i lampioni producendo un rintocco metallico, discontinuo. Si dice che di notte, nel silenzio, tutto appare ingrandito e ogni sensazione è fuori dalla giusta misura, pronta ad aprirsi alle più varie suggestioni. Ma è vero solo se ci si trova di notte, nel silenzio, in un luogo estraneo o poco frequentato, perché solo allora i nostri sensi si mettono in allerta e sono disponibili a cogliere e amplificare il minimo segnale. Non per Ramirez, quindi, che si muoveva fra ombre familiari e rumori consueti. Non c’era nulla che potesse destare la sua attenzione, resa opaca dalla stanchezza, dal desiderio di tornare a casa, dal freddo umido che nonostante il cappotto pesante gli penetrava nelle ossa. Era in serate simili a questa che rimpiangeva di avere rinunciato al colbacco con cui di tanto in tanto, prima della guerra, lo si poteva incontrare per le strade di Xacca. Devo

chiedere a Irina di tirarlo fuori dalla cassapanca, disse fra sé. E mentre articolava mentalmente questo proposito, gli si avvicinò Turi Caramanna.

«Mi sento la febbre addosso», gli disse tossendo.

«Riguardati, ci vediamo domani», rispose Ramirez, costretto a tirare la mano fuori dalla tasca per ricambiare il saluto.

Solo allora si accorse che anche Intravaia, uomo solitario e di rarissime parole, si era già staccato dal gruppo. «Andate anche voi a casa, è tardi e fa un freddo cane», disse rivolto a La Martina e Scandurra. Ma i due fecero un passo avanti, pronti a procedere.

Si fermarono a piazza Peralta, in prossimità di un piccolo giardino, poco più di un’aiuola con due grandi palme ai lati.

La Martina aveva una piccola impresa edile e Ramirez si stava informando su alcuni lavori da fare nel suo magazzino, giù alla marina. «Domattina vengo a fare un sopralluogo», disse La Martina guardandosi attorno. La luce di una lampada ad arco rischiarava una piccola zona, alla loro sinistra.

Tutt’attorno l’ombra si infittiva e il vento sembrava farla fluttuare. Accursio Ramirez avvertì un brivido di freddo e rialzò il bavero del cappotto. «Basta, adesso andatevene», intimò. E La Martina prima di allontanarsi, con Scandurra al suo fianco, mugugnò qualcosa. Un saluto, sembrò a Ramirez. O forse un rammarico.

Dovevano aver percorso sì e no trenta metri quando sentirono partire una raffica di colpi. Scandurra istintivamente si gettò per terra, sotto l’arco di un portone. La

Martina invece rimase paralizzato e, dopo un primo istante di terrore, si rese conto che la raffica non era indirizzata a loro. «A Ramirez stanno sparando», gridò con una voce resa aspra dalla saliva che gli si era gelata fra i denti. E tornò indietro di corsa, inseguito da Scandurra che nel frattempo si era rialzato maledicendo se stesso. La seconda scarica arrivò subito dopo, in una rapidissima sequenza di scoppi brevi e secchi che, trascinati dal vento, rimbombarono su Scandurra e La Martina, per poi allargarsi verso il mercato e le vie circostanti, anche se ormai sfibrati, ridotti a tonfi indistinti, senza forza.

La prima scarica di mitraglietta esplose alle sue spalle e mandò in frantumi uno dei due lampioni che illuminavano piazza Peralta. Sorpreso da quel rumore Accursio Ramirez accennò a fermarsi con l’intenzione di girarsi, ma lo fece per una frazione di secondo, per quel tempo infinitesimale in cui la coscienza ruppe ogni argine e lo spinse ad aggrapparsi con la mano sinistra alla ringhiera di appoggio e a slanciarsi su, con la schiena curva, il respiro trattenuto, la mano destra a cercare i gradini per bilanciare la rincorsa, mentre altri colpi lo inseguivano e si conficcavano nel muro alla sua destra.

Quattordici gradini e quattordici colpi, sparati in rapida sequenza su un bersaglio scoperto e senza via di fuga, solo il piano inclinato della scala e un percorso obbligato, stretto fra il muro e la ringhiera. E poi il colpo decisivo, uno soltanto, dal basso verso l’alto, che gli frantumò la clavicola, procurandogli un dolore così acuto e improvviso da costringerlo

a sollevarsi e inarcare la schiena, per poi ruotare sul fianco destro e crollare per terra sul piccolo pianerottolo davanti la porta di casa. Con gli occhi puntati verso il cielo, che si facevano sempre più opachi, insensibili ormai al baluginio distantissimo delle stelle. Con le labbra che si schiudevano e sbiancavano, lasciando che un rivolo di sangue scuro e grumoso scivolasse con la stessa indolenza della lava sulla guancia e costeggiando il pizzo si perdesse in basso fino a spandersi sul colletto della camicia bianca. E mentre tutto questo accadeva, mentre il respiro di Ramirez rantolava in una pozza d’acqua sconosciuta, i sicari abbassarono le armi, si avvicinarono alla scala, gettarono dal basso un’occhiata al corpo riverso in cima alle scale e si dileguarono, approfittando di quello che solitamente viene definito «il favore delle tenebre». Di tutte le tenebre. Di quelle fisiche che dipendono dall’alternarsi del giorno e della notte. E di quelle morali che, invece e con maggior forza, dipendono dal silenzio a cui si vanno sempre più assuefacendo le coscienze.

Il primo a chinarsi sul suo corpo fu La Martina, l’unico che ne raccolse il rantolo finale. Capì subito che Ramirez era morto e si girò a guardare verso Scandurra, che era rimasto qualche passo indietro e piangeva, tormentando il berretto che teneva in mano. «Corri da Caramanna e digli di venire subito», gli urlò. Poi si avvicinò alla porta e cominciò a battere i pugni, finché non sentì che qualcuno stava per aprire.

Era Rosa, la figlia, e dopo qualche istante, richiamata dalle sue urla, arrivò anche Irina. Si muoveva lentamente, come

se volesse ancora frapporre un ritardo. Perché se fuori tutto era avvenuto in modo improvviso e tumultuoso, dentro casa invece il tempo aveva subito un rallentamento. Rosa, che era intenta a studiare in sala da pranzo, aveva sentito le due raffiche, si era alzata allarmata ed era andata in cucina, dove c’era sua madre. Anche Irina aveva udito gli spari ed era rimasta immobile in mezzo alla stanza, in ascolto, con un piatto ancora in mano. La figlia le aveva domandato sconvolta cosa fosse successo ma lei non aveva avuto la forza di parlare. «Aspetta, aspetta», le aveva sussurrato, facendole segno di stare ferma, di non fare rumore. Proprio a questo punto La Martina aveva cominciato a bussare.

Vivere non è come mettere in fila le parole per una frase.

Ci sono scarti, deviazioni, baratri, o semplici barriere. E a volte ci sono esercizi di difesa, scotomizzazioni. Accadde così a Irina che comparve sulla porta e si bloccò davanti a La Martina che stringeva Rosa fra le braccia cercando di consolarla. Doveva superarli e andare oltre, ne era consapevole, invece si girò dal lato opposto, verso le scale, e indugiò sull’impronta di sangue lasciata dalla mano di Ramirez sul muro e le sembrò una macchia impossibile da decifrare.

Confusa, abbassò lo sguardo e sentì la voce di La Martina che la chiamava e le diceva qualcosa con tono allarmato.

Si portò la mano sulla bocca e stringendosi le labbra fece un passo di lato. Due passi ancora, in avanti, e crollò in ginocchio accanto al marito. Gli infilò un braccio sotto il collo, gli sollevò la testa e si girò verso Rosa. «Prendi un

cuscino dal mio letto», le disse e si accorse che la sua voce era incrinata, come se avesse corso e le mancasse il fiato.

«Subito», aggiunse e fu quasi un urlo. «Subito», ripeté a voce più bassa, adesso mescolata alle lacrime, mentre tirava a sé il corpo senza vita di Accursio Ramirez e lo abbracciava.

Riuscì a sistemargli il cuscino sotto la testa, a sbottonargli il cappotto, a fissare il sangue che aveva intriso la camicia e affiorava dal panciotto e dalla giacca. Senza mai smettere di mescolare al pianto un lamento nella sua lingua madre, il russo: simile a una nenia, a pietre arrotondate che scivolano l’una sull’altra. Così concentrata o smarrita da non accorgersi dei cambi di scena attorno a lei. Dei due carabinieri che, richiamati dagli spari, erano nel frattempo sopraggiunti. Di La Martina che era riuscito ad allontanare Rosa e a portarla dentro casa. Di Caramanna che le si era chinato accanto e le porgeva mano.

Dopo essersi distaccato dal gruppo in via Licata, all’altezza della farmacia Prinzivalli, Caramanna aveva fatto appena in tempo ad entrare a casa, togliersi il soprabito e sedersi a tavola che gli erano giunte le raffiche, in lontananza. Si era precipitato alla finestra e neppure un minuto dopo aveva visto arrivare Scandurra di corsa. «A Ramirez ammazzarono», lo sentì gridare giù dalla strada e si precipitò fuori.

E adesso era lì, in piedi dietro Irina, con le lacrime che gli bruciavano in gola. «Ci sono i carabinieri», le stava dicendo e lei sollevò lo sguardo sgomenta e vide i due giovani in divisa.

«Deve alzarsi, signora Ramirez», insistette Caramanna e lei

si lasciò sollevare, docilmente. «Per favore state lontani», ordinò l’appuntato spostandosi davanti al cadavere. «Nessuno deve più avvicinarsi», aggiunse cercando di darsi un contegno, mentre il suo commilitone correva in caserma a dare l’allarme.

In pochi minuti la via Orfanotrofio si riempì di gente: familiari, vicini, compagni, funzionari e forze dell’ordine.

Furono compiuti i primi accertamenti e raccolte le prime testimonianze. Tutto si svolse lentamente, un po’ alla volta, con le lancette che continuavano a muoversi alla velocità di sempre, pigramente, visto che di notte il tempo perde la propria misura e sembra rallentare. Forse anche per questo il cadavere di Ramirez continuava a restare sul pianerottolo, con gli investigatori che ci giravano attorno. «Pare che stia dormendo», affermò qualcuno, un curioso o uno dei compagni, ma era una frase fatta, tanto per parlare, tanto per rendere più domestica la morte, per attutirne l’orrore e togliere peso all’evidenza, a quel corpo senza vita «con i piedi rivolti a tramontana e la testa a mezzogiorno».

Poco dopo le undici fu dato l’ordine di rimuovere la salma per fare effettuare la prima ricognizione medico legale.

Il capitano dei carabinieri era appena andato via assieme al magistrato. Il commissario Angelo Riera invece si aggirava ancora fra piazza Peralta e via Orfanotrofio. In quei trenta metri si era compiuto il destino di Ramirez e nella sua mente ogni mossa andava prendendo posto. Gli si avvicinò il maresciallo Sansa.