ALLA DERIVA
Poco prima del Natale 1887, una giovane donna di più di vent’anni con un’espressione stanca e scoraggiata sul viso scarno bussò a una porta in un vicolo di Lavender Hill. Un foglio alla finestra annunciava che si affittava una camera. L’uscio si aprì su una signora anziana dall’aspetto serio e pulito, e la visitatrice, scrutandola nervosamente, disse di essere in cerca di alloggio. «Potrebbe essere solo per qualche settimana, oppure più a lungo», mormorò. Aveva la voce esausta ma un tono educato. «Fatico a trovare precisamente il posto che cerco. Mi basta una stanza, e per il resto mi accontento di poco.» Aveva solo una camera libera, disse l’altra. Poteva vederla. Salirono. La stanza affacciava sul retro, era piccola ma ben arredata. La visitatrice parve approvarne l’aspetto, perché sorrise timidamente. «Cosa chiede di affitto?» «Dipende da ciò che le serve oltre alla stanza.» «Sì… certamente. Penso… posso sedermi? Sono davvero stanchissima. Grazie. Le chiedo proprio poco. Sono una persona semplice. Mi rifarò il letto da sola, e… e farò io tutte le altre cose che servono quotidianamente. Magari potrei chiederle di spazzare per terra una volta a settimana.» La padrona di casa si fece pensosa. Forse aveva già avuto a che fare con inquilini ansiosi di non dare troppo disturbo. Gettò sulla sconosciuta uno sguardo furtivo.
«E», chiese dopo un po’, «cosa pensava di pagare?» «Forse farei meglio a spiegarle la mia situazione. Per molti anni sono stata a servizio come dama di compagnia per una signora nell’Hampshire. Quando è venuta a mancare mi sono trovata a dovermi mantenere… spero solo per poco. Sono a Londra perché mia sorella fa la commessa in un negozio in zona; mi ha consigliato di cercare casa da queste parti; tanto vale stare vicina a lei mentre cerco un nuovo lavoro; forse avrò la fortuna di trovarne uno a Londra. La tranquillità e la parsimonia mi sono indispensabili. Una casa come questa andrebbe benissimo per me… davvero benissimo. Pensa che potremo raggiungere un accordo che sia… che sia alla mia portata?» La padrona di casa rifletté un altro po’. «Sarebbe disposta a pagare cinque scellini e sei?» «Sì, cinque e sei andrebbe benissimo… se è convinta che il mio modo di vita convenga anche a lei. Io… sono vegetariana, e dato che i miei pasti sono così semplici, credo che non avrei problemi a prepararmeli da sola. Le spiacerebbe se lo facessi in stanza? Mi basterebbero un bollitore e una pentola… non mi servirebbe altro. Dato che starò molto in casa, mi servirà necessariamente un fornello.» Nel giro di mezz’ora giunsero a un accordo soddisfacente per entrambe. «Non sono avida», disse la padrona di casa. «Penso di potermelo dire da sola. Se da questa stanza tiro fuori cinque o sei scellini a settimana, non ho certo da lamentarmi. Ma anche chi la prende deve fare il suo dovere! Non mi ha ancora detto come si chiama, signorina.» «Virginia Madden. Ho i bagagli in stazione; me li farò portare qui stasera. E dato che non ci conosciamo ancora sarò felice di pagarle la settimana in anticipo.» «Non è necessario; ma come preferisce.»
«Ecco, guardi, le pago subito cinque scellini e sei. La prego di farmi avere una ricevuta.» E così Virginia Madden si trasferì a Lavender Hill, e ci visse da sola per tre mesi. Riceveva molte lettere, ma solo una persona veniva a farle visita. Era sua sorella Monica, che ora lavorava in un negozio di tessuti in Walworth Road. Andava a trovarla ogni domenica, e se pioveva passavano l’intera giornata nella cameretta di Virginia. Con la padrona di casa i rapporti erano ottimi; l’una pagava quanto dovuto con precisione, l’altra le riservava molte piccole attenzioni non previste dall’accordo iniziale. Il tempo passò. Un pomeriggio, nella primavera dell’88, Virginia Madden scese in cucina e bussò con la consueta timidezza. «Ha un attimo per parlare, signora Conisbee?» La padrona di casa era sola, e l’unica cosa che aveva da fare era stirare delle lenzuola che aveva appena lavato. «Le ho parlato in qualche occasione della mia sorella maggiore, Alice. Purtroppo dovrà lasciare il suo impiego, presso una famiglia di Hertford. I figli andranno a scuola e i suoi servizi non sono più richiesti.» «Ah, mi spiace.» «Già. Per qualche tempo avrà bisogno di una casa. Mi è venuto in mente, signora Conisbee… volevo chiederle se avrebbe qualche obiezione nel caso decidessi di dividere la mia stanza con lei. Naturalmente dovremmo pagare qualcosa in più. È una stanza piccola per due, ma sarebbe solo una sistemazione temporanea. Mia sorella è un’insegnante molto valida e sono certa che non faticherà a trovare un altro impiego.» La signora Conisbee ci pensò su, ma senza un’ombra di fastidio. Ormai sapeva di potersi fidare della sua inquilina. «Se va bene per voi», rispose. «Non vedo cosa potrei trovarci da ridire, se credete di poter stare in quella stanzetta. E per quanto
riguarda l’affitto, io mi accontento di sette scellini anziché cinque e sei.» «Grazie, signora Conisbee, grazie davvero di cuore. Scrivo subito a mia sorella; la notizia sarà un gran sollievo per lei. Sarà come farsi una bella vacanza insieme.» Alice Madden arrivò una settimana dopo. Dato che era praticamente impossibile far stare i suoi scatoloni nella camera da letto, la signora Conisbee le permise di depositarli nella stanza di sua figlia, che era allo stesso piano. Nel giro di un paio di giorni le sorelle avevano impostato una routine. Quando il tempo lo permetteva uscivano, di mattina o di pomeriggio. Alice non era mai stata a Londra; voleva guardarsi in giro, ma era limitata dalla povertà e dalla cattiva salute. Dopo l’imbrunire né lei né Virginia uscivano mai di casa. Non si somigliavano granché. La maggiore, che ora aveva trentacinque anni, tendeva alla corpulenza, per via della vita sedentaria; aveva le spalle tonde e le gambe molto corte. Il viso non sarebbe stato sgradevole, se non fosse stato per la pelle sciupata; i suoi tratti dolci, se solo la salute li avesse coloriti un po’, avrebbero espresso bene la gentilezza e l’onestà del suo carattere. Ma aveva le guance gonfie e cadenti, sempre grigiastre per via del freddo; di norma aveva qualche brufolo in fronte e un mento sfuggente perso in due o tre rotoli di pappagorgia. Poco meno timida che da ragazza, camminava con un passo brusco e affrettato, come per scappare da qualcuno, con la testa sempre china in avanti. Virginia, sui trentatré, condivideva l’aspetto malsano della sorella, ma la povertà (o il vizio del sangue) si manifestava in modi meno fastidiosi alla vista. Era evidente che doveva essere stata di bell’aspetto, e da certi punti di vista possedeva ancora una qualche grazia, una dolcezza tanto più notevole perché in via
di estinzione. Stava invecchiando molto rapidamente; le labbra erano sempre più grinzose; le occhiaie erano sempre più profonde; la ragnatela di rughe si faceva sempre più fitta; la carne del collo si rinsecchiva. Il suo corpo alto e secco sembrava a malapena in grado di reggersi in piedi. I capelli di Alice erano castani e molto radi. Quelli di Virginia erano crespi; la sua testa era una massa di spire e volute non priva di un suo fascino. La voce della sorella maggiore si era contratta in una durezza sgradevole, ma parlava con ottima pronuncia; il tono severo e un po’ pedante derivava di certo dall’abitudine all’insegnamento. Virginia aveva modi più sciolti e una parlantina più fluida, e si muoveva con grazia maggiore. Erano passati ormai sedici anni dalla morte del dottor Madden a Clevedon. La vita delle figlie in quel periodo può essere raccontata con la brevità richiesta da una storia così poco movimentata. Una volta sistemate le carte del medico, si era appurato che il patrimonio delle sei ragazze ammontava quasi a ottocento sterline. Era indubbiamente una bella somma; ma come gestirla, in quelle circostanze? Da Cheltenham si era materializzato uno zio non sposato, sui sessant’anni di età. Aveva una pensione di settanta sterline, destinata a finire con lui. A suo favore si può dire che aveva pagato il biglietto ferroviario da Cheltenham a Clevedon per assistere alle esequie del fratello, e che aveva riservato una parola gentile alle nipoti. Aveva poca autorevolezza e ancor meno spirito d’iniziativa. Su di lui non si poteva contare. Da Richmond, nello Yorkshire, era arrivata la lettera di una vecchissima zia della defunta signora Madden, che sporadicamente aveva mandato regali alle ragazze, in risposta a una missiva di Alice. Era un biglietto a stento leggibile, su cui erano riuscite a decifrare quelle che parevano citazioni edificanti della Bibbia,
ma pochi consigli su come stare al mondo. La donna non aveva proprietà che avrebbe potuto lasciare loro. A quanto ne sapevano, era l’unica parente della madre ancora in vita. L’esecutore testamentario era un artigiano di Clevedon, un amico di famiglia di lunga data, caritatevole e capace; un uomo che valeva ben più della sua posizione. D’accordo con altri amici di buon cuore preoccupati dalla condizione delle ragazze, il signor Hungerford (poiché il testamento gli concedeva quella libertà di azione) aveva deciso che le tre sorelle maggiori avrebbero dovuto cominciare sin da subito a mantenersi, e che le altre tre avrebbero vissuto insieme a casa di una signora di pochissimi mezzi, che si era offerta di ospitarle in cambio della sola copertura delle spese. Così le ottocento sterline, se investite con prudenza, sarebbero bastate a nutrire, vestire e persino a dare una certa istruzione a Martha, Isabel e Monica. Per il momento non occorreva guardare più in là; le novità sarebbero state affrontate man mano che si presentavano. Alice aveva trovato impiego come governante, a sedici sterline l’anno. Virginia aveva avuto la fortuna di farsi prendere come dama di compagnia da una ricca signora di Weston-super-Mare, e ne guadagnava dodici. Anche Gertrude, che aveva quattordici anni, era andata a Weston, dove aveva ottenuto un lavoro in un negozio di articoli decorativi. Non le davano nulla ma almeno aveva vitto e alloggio pagati. Passarono dieci anni, e portarono molti cambiamenti. Gertrude e Martha erano morte; la prima di consunzione, la seconda annegata durante una gita in barca. Anche Hungerford era morto, e il patrimonio, suddiviso tra le quattro figlie ancora in vita, aveva un nuovo amministratore. Alice faceva l’istitutrice; Virginia continuava a fare la dama di compagnia. Isabel, che ormai aveva vent’anni, insegnava in un collegio a Bridgwater, e Monica, di appena quindici, stava per diventare apprendista in
un negozio di tessuti a Weston, dove viveva Virginia. Monica non avrebbe mai scelto di fare la commessa se fosse stata portata per qualunque altra cosa. Ma non era portata per l’insegnamento; a dire il vero non era portata per alcunché, se non per essere una ragazza carina, allegra e vivace, dipendente dall’amore e dalla gentilezza di chi la circondava. Nel portamento e nel modo di parlare somigliava molto alla madre; ovvero, aveva un’eleganza naturale. Di certo era un peccato che una ragazza così non potesse avere di più, nella vita; ma ormai era giunto il momento che si mettesse a «fare qualcosa», e le persone da cui si fece consigliare avevano esperienze molto limitate delle cose del mondo. Alice e Virginia sospiravano per le loro aspirazioni accantonate, ma le loro professioni suggerivano che a Monica sarebbe andata meglio lavorando in un negozio piuttosto che svolgere un’occupazione più tradizionalmente femminile. Ed era probabile che in un posto come Weston, con la sorella a farle da accompagnatrice, avrebbe presto trovato modo di non dover più lavorare per mantenersi. Le altre non avevano mai avuto un corteggiatore. Alice, se pure aveva sognato il matrimonio, ormai doveva essersi rassegnata allo zitellaggio. Virginia non poteva credere che un uomo in cerca di moglie sarebbe mai stato attratto dalle sue grazie appassite, dalla salute sciupata negli anni spesi appresso a un’invalida e in inutili studi nelle ore in cui avrebbe fatto bene a dormire. La povera Isabel era estremamente banale. Monica, se avesse mantenuto le promesse, sarebbe stata di gran lunga la più avvenente, oltre che la più brillante, della famiglia. Doveva sposarsi; certo che doveva sposarsi! Le sorelle si rallegravano ogni volta che ci pensavano. Il troppo lavoro finì per pesare sulla salute di Isabel, facendola cadere in depressione. Dopo un po’ venne accolta da un istituto di carità, e lì, a ventidue anni, quella sfortunata ragazza bruttina si lasciò annegare in una vasca da bagno. Così si ritrovarono dimezzate. Fino a quel momento, gli inte-
ressi sulle ottocento sterline erano andati a coprire imparzialmente le esigenze ora di una, ora dell’altra delle sorelle, aiutandole un po’ tutte e sei, risparmiando molte ore di fatica che altrimenti sarebbero state aggiunte al loro fardello. Ora il patrimonio fu intestato ad Alice e Virginia, che concessero a Monica una rendita di nove sterline l’anno. Un nonnulla, ma le sarebbe bastato per comprarsi i vestiti – e poi, lei si sarebbe sposata di certo. Grazie al cielo! Senza grandi eventi, nuziali o di altro genere, il tempo passò sino a raggiungere il 1888. A fine giugno Monica avrebbe compiuto ventun anni; Alice e Virginia, affezionate a quella sorellina che tanto le superava in bellezza, parlarono sempre spesso di lei man mano che si avvicinava la data, progettando modi per procurarle un po’ di gioia nel giorno del suo compleanno. Virginia pensava che una copia di The Christian Year, una famosa raccolta di inni religiosi di John Keble, sarebbe stata un bel regalo. «Non ha mai tempo per leggere. Una strofa di Keble – anche solo una strofa prima di andare a dormire, e una la mattina, potrà darle un po’ di forza, poverina.» Alice annuì. «Dobbiamo dividerci la spesa», aggiunse, con aria preoccupata. «Non sarebbe ragionevole spendere più di due o tre scellini.» «Temo di no.» Stavano preparando il pranzo, il pasto più sostanzioso della giornata, per loro. Su un fornelletto a olio bolliva un pentolino di riso bianco, che Alice ogni tanto rigirava. Virginia era andata al piano inferiore (dove avevano diritto a uno scomparto della credenza) a prendere pane, burro, formaggio e un vasetto di confettura, e stava apparecchiando il tavolino, a stento un metro per mezzo, dove erano solite mangiare. Il riso, appena pronto, fu spartito in due porzioni; insaporito con un po’ di burro, pepe e sale, le invitò a sedersi a tavola.
Poiché quella mattina erano uscite, avrebbero passato il pomeriggio in casa. Virginia aveva ceduto la poltroncina di vimini alla sorella, che aveva sempre mal di testa e dolori alla schiena, oltre a mille altri problemi; lei sedeva su una seggiola che faceva anche da comodino, a cui col tempo si era abituata. Quando cucivano, di rado, lo facevano il minimo indispensabile; se si poteva evitare, entrambe preferivano leggere. Alice, che non aveva mai studiato nel vero senso del termine, leggeva per la ventesima volta i pochi volumi che possedeva – poesia, storia divulgativa, e cinque o sei romanzi che una madre di famiglia avrebbe approvato nelle mani della governante. Nel caso di Virginia le cose stavano un po’ diversamente. Fino ai ventiquattro anni circa aveva esplorato un campo del sapere con uno zelo limitato solo dalle sue scarse opportunità; era uno studio completamente fine a se stesso, dato che non aveva mai ipotizzato che potesse aumentare il suo valore come dama di compagnia o permetterle di trovarsi un lavoro migliore. Il suo grande desiderio intellettuale era di sapere il più possibile della storia della Chiesa. Non era per fanatismo; era religiosa, ma non eccessivamente, e le questioni di fede non la appassionavano più di tanto. Ma la crescita della Chiesa cristiana, gli scismi e le eresie, i concili vaticani, la politica del papato – queste cose la interessavano sinceramente; se le circostanze lo avessero concesso sarebbe potuta diventare un’erudita. Ma le circostanze erano ben lungi dal concederlo, e tutto ciò che riuscì a ottenere fu di rovinarsi la salute. Un crollo improvviso delle energie l’aveva lasciata in una condizione di spossatezza mentale da cui non si sarebbe più ripresa. In seguito fu incaricata di leggere ad alta voce per la sua datrice di lavoro – al ritmo di un romanzo al giorno, abbastanza da non lasciarle forze mentali con cui leggere, per sé, qualcosa che andasse oltre i romanzetti più scadenti. Si era iscritta a una biblioteca, al costo di uno scellino al mese. Sulle prime si vergognava di mostrare i suoi gusti ad Alice, e provò a
cimentarsi con libri più impegnati; ma le facevano venire sonno o mal di testa. Riapparvero i romanzetti, e dal momento che Alice non diceva nulla, presto cominciarono ad andare e venire per la stanza con regolarità. Quel pomeriggio le sorelle avevano voglia di parlare. Erano impensierite dalla medesima preoccupazione, e presto la tirarono fuori. «Di sicuro», iniziò sottovoce Alice, quasi sovrappensiero, «presto mi faranno sapere qualcosa.» «Anche io sono un po’ spaventata per la mia situazione», rispose la sorella. «Pensi che da Southend non ti risponderanno?» «Temo di no. Quella donna era praticamente un’analfabeta… non penso che ce l’avrei fatta», disse Virginia con un tremito. «Quasi quasi», disse Alice, «rimpiango di non aver accettato quel posto a Plymouth.» «Mia cara, no! Cinque bambini e neanche un soldo di paga. Era un’offerta indegna.» «Sì, lo era», sospirò la povera governante. «Ma una come me ha così poca scelta. Ormai in ogni famiglia “Si richiede diploma o certificati equivalenti”. Io ho solo le referenze dei miei lavori precedenti – cosa mi aspetto? So che finirò per accettare un lavoro non pagato.» «Io sembro persino più inutile», si lamentò l’altra. «Forse sarei dovuta andare a Norwich a fare la cameriera.» «Con la tua salute non ce l’avresti mai fatta!» «Non so. Magari una vita più attiva mi avrebbe fatto bene. Sai, Alice, forse mi gioverebbe.» L’altra ammise sospirando questa possibilità. «Facciamo un po’ di conti», esclamò poi. Era una frase che pronunciava spesso, e non mancava mai di rallegrarla. Anche Virginia sembrava trarne incoraggiamento.
«La mia situazione», disse, «non è molto allegra. Mi resta solo una sterlina, se si escludono i dividendi.» «A me ne restano quattro. Ora, riflettiamo», Alice si interruppe. «Supponiamo che nessuna di noi trovi lavoro prima della fine dell’anno. In tal caso dobbiamo mantenerci per più di sei mesi – tu con sette sterline, io con dieci.» «È impossibile», disse Virginia. «Mettila diversamente. Dobbiamo mantenerci, insieme, con diciassette sterline in due. Ovvero», fece due conti su un foglietto, «con due sterline, sedici scellini e otto penny al mese – facciamo che questo mese sia già finito. Vale a dire, quattordici scellini e due a settimana. Sì, ce la possiamo fare!» Posò la matita con aria trionfale. Aveva lo sguardo acceso come se avesse trovato una nuova fonte di reddito. «Non ce la faremo mai, cara», obiettò Virginia con rassegnazione. «Abbiamo sette scellini di affitto; ne restano solo sette e due per tutto il resto – tutto!» «Potremmo farcela», insisté l’altra. «Nel peggiore dei casi possiamo cavarcela con sei penny di cibo al giorno – tre scellini e sei a settimana. Sai, credo che per vivere ci basterebbe anche meno… anche quattro penny. Sì, penso proprio che potremmo farcela!» Si fissarono negli occhi, come chi sta per scommettere tutto sul proprio coraggio. «Ma è vita, una vita del genere?» chiese Virginia, timorosa. «Non arriveremo a tanto. Oh, no di certo. Ma è di aiuto sapere che, a rigor di logica, siamo indipendenti per i prossimi sei mesi.» Virginia fu visibilmente entusiasmata da quella parola. «Indipendenti! Oh, Alice, che benedizione è l’indipendenza! Sai, non mi sono impegnata quanto avrei dovuto per trovare una nuova stanza. Questo posto così comodo, e il piacere di vedere
Monica ogni settimana, mi hanno fatto impigrire. Ma la pigrizia non mi fa piacere; so anzi che mi fa male; ma se solo potessi fare le faccende in una casa tutta mia!» Alice la guardò con sorpresa e apprensione, come se la sorella avesse toccato un argomento volgare o perlomeno delicato. «Temo proprio che pensieri del genere non portino a niente, cara», rispose con un certo imbarazzo. «A niente, proprio a niente. Faccio male a fantasticare così.» «Vada come vada», disse poi Alice, col tono più autorevole che riusciva ad avere, «non dobbiamo mai intaccare il nostro capitale – mai e poi mai!» «Oh, mai! Se dovessimo finire vecchie e incapaci di lavorare…» «Se non trovassimo nessuno disposto a darci vitto e alloggio per i nostri servizi…» «Se non avessimo amici a cui chiedere aiuto», aggiunse Alice, come prolungando quella litania di lamentele incrociate, «allora saremo felici di aver resistito alla tentazione di intaccare il nostro capitale! Sarà quello», e la sua voce si fece grave, «a salvarci dalla strada.» Dopodiché entrambe presero un libro, e fino all’ora del tè lessero in silenzio. Fra le sei e le nove di sera continuarono a leggere e parlare. La conversazione divenne retrospettiva: ognuna prese a rammentare ciò che aveva dovuto sopportare in questo o quell’impiego. Non avevano mai avuto la fortuna di servire gente «davvero perbene» – la frase, detta da loro, aveva un senso molto preciso. Avevano vissuto con famiglie più o meno benestanti della piccola borghesia, gente che non aveva ereditato alcuna raffinatezza e non aveva i mezzi per comprarla, né proletari né nobili, persone consumate dalla volgarità e dall’arrivismo, viziate dai peggiori miasmi della democrazia. Sarebbe stato naturale se una vita del genere avesse condotto le sorelle a ripensarvi con uno
spirito simile a quello dei loro passati datori di lavoro; invece ne parlavano senza rancore e senza troppi drammi. Sapevano di essere superiori alle donne che mugugnando le avevano pagate, e spesso sorridevano a ricordi che avrebbero suscitato in una mente servile solo insulti e livore. Alle nove presero una cioccolata calda con dei biscotti, e mezz’ora dopo andarono a dormire. L’olio per la lampada era costoso, e in ogni caso erano felici di poter dire il prima possibile che un’altra giornata era giunta al termine. Si svegliarono alle otto. La signora Conisbee preparava sempre l’acqua calda per la colazione. Quando scese a prenderla, Virginia vide che il postino aveva lasciato una lettera per lei. La grafia sulla busta era sconosciuta. Corse di sopra con entusiasmo. «Chi sarà mai, Alice?» Quel giorno la sorella maggiore aveva uno dei suoi mal di testa; era terrea e camminava barcollando. L’aria stantia della cameretta sarebbe bastata a spiegare quel malanno, ma la lettera inaspettata le permise di non pensarci, per il momento. «Imbucata a Londra», disse, esaminando con curiosità il timbro. «Ti scrivi con qualcuno?» «Sono mesi che non scrivo a nessuno a Londra.» Per cinque minuti discussero il mistero, esitando ad aprire la busta per paura di scoprire di aver sperato invano. Dopo un po’ Virginia si fece coraggio. Allontanandosi di qualche passo dall’altra estrasse un foglio di carta con mano tremante e occhieggiò timorosamente la firma. «Chi l’avrebbe mai detto? È Rhoda Nunn!» «Rhoda Nunn? E come ha avuto il nostro indirizzo?» Di nuovo discussero quel mistero, mentre la sua soluzione giaceva sul tavolo non letta. «Dai, leggila!» disse alla fine Alice, costretta a tornare a sedersi dalle pulsazioni alla tempia, peggiorate con quell’agitazione.
La lettera diceva così: Cara Virginia, stamattina ho incontrato per caso la signora Darby, che passava da Londra di ritorno dal mare. Abbiamo avuto solo cinque minuti per parlare (eravamo alla stazione), ma ha avuto modo di dirmi che anche tu sei a Londra, e mi ha dato il tuo indirizzo. Quanto sarei felice di rivederti, dopo tutti questi anni! Gli sforzi per tirare avanti mi hanno resa egoista; ho trascurato le mie vecchie amiche. Eppure mi sento di giustificarmi dicendo che anche loro hanno trascurato me. Preferisci che venga a trovarti io, o passare tu da me? Come ti è più comodo. Ho sentito che tua sorella è con te, e che anche Monica si trova a Londra. Sarebbe bello ricominciare a vedersi. Scrivimi non appena ne hai modo. Ti mando tutto il mio affetto. Sinceramente Rhoda Nunn «È proprio da lei», esclamò Virginia, dopo aver letto la lettera ad alta voce, «preoccuparsi che forse preferiamo non ricevere visite! È sempre stata così attenta. E ha ragione, in effetti avrei potuto scriverle io.» «Andiamo noi, ovviamente?» «Certo, visto che ci dà la scelta. Che bello! Chissà cosa starà facendo. Dalla lettera sembra allegra; sono sicura che se la passa bene. Com’è l’indirizzo? Queen’s Road, a Chelsea. Oh, bene, non è molto lontano. Possiamo andare a piedi senza problemi.» Erano anni che avevano perso di vista Rhoda Nunn. Se n’era andata da Clevedon poco dopo la separazione delle sorelle Madden, e avevano sentito che insegnava. All’epoca in cui Monica faceva l’apprendista a Weston, Virginia e le ragazze più piccole l’avevano incontrata per caso; continuava a insegnare, ma sembrava estremamente infelice del suo lavoro e accennava a un
misterioso progetto. Nessuna di loro da allora aveva saputo se fosse riuscita o meno a realizzarlo. Era una mattina di sole incerto. Prima di andare a letto, la sera prima, avevano deciso di uscire insieme appena sveglie per comprare il regalo per il compleanno di Monica, la domenica seguente. Ma Alice non si sentiva di uscire di casa. Virginia avrebbe risposto alla lettera di Rhoda Nunn e poi sarebbe andata in libreria da sola. Uscì alle nove e mezzo. Con mille precauzioni aveva fatto sopravvivere un vestito da giorno per tre estati consecutive senza che apparisse logoro. La mantellina era solo al secondo anno; il color cammello originale era sbiadito in un grigio indefinito. Il cappello di paglia era un accessorio perenne; quando diventava inevitabile veniva sistemato con una sforbiciatina per la spesa di qualche penny. Eppure Virginia poteva passare per una vera signora. Indossava i suoi abiti come solo una nobile sa fare (c’entrano molto la posizione e il movimento delle braccia), e aveva un’andatura che una donna di natura più volgare non avrebbe mai potuto acquisire. La aspettava una camminata lunghissima. Voleva spingersi fino alle librerie dello Strand, non solo per avere più scelta, ma perché quel quartiere le piaceva e le dava la sensazione di essere in vacanza. Proseguì oltre Battersea Park e il Chelsea Bridge per il lungo tratto fino alla Victoria Station, poi in salita verso Charing Cross. Almeno otto chilometri di strada. Ma camminava in fretta: alle undici e mezzo fu quasi alla meta. Una copia dell’opera di Keble costava meno di quanto aveva immaginato. Ne fu felice. Ma quando uscì dal negozio aveva un’espressione strana sul volto – qualcosa di più della stanchezza, qualcosa di meno dell’angoscia. Si fermò di fronte alla stazione di Charing Cross e diede un’occhiata intorno. Forse aveva pensato di rincasare in omnibus e le pesava la spesa. Eppure di colpo si voltò per avvicinarsi alla stazione.
All’ingresso si fermò di nuovo. Ora aveva i lineamenti inspiegabilmente contratti, come per un problema di respirazione. Nello sguardo aveva eccitazione e spavento; teneva le labbra socchiuse. Con un altro movimento rapido entrò nella stazione. Si diresse senza esitazioni alla sala ristoro e guardò attraverso la vetrina. C’erano due o tre persone all’interno. Si ritrasse, percorsa da un tremito. Uscì una signora. Virginia si avvicinò alla porta. C’erano solo due uomini ora, immersi in una conversazione. Con uno scatto nervoso spinse la porta e si piazzò al bancone, il più lontano possibile dai due avventori. Piegandosi in avanti disse alla cameriera, con una voce che era quasi un sospiro: «Un bicchierino di brandy, per cortesia» Aveva il viso pallido e imperlato di sudore. La cameriera immaginò che non si sentisse bene e la servì subito, rivolgendole uno sguardo premuroso. Virginia allungò il liquore con due parti di acqua, girandosi per dare le spalle al bancone. Poi bevve in fretta due o tre sorsi, infine una sorsata più lunga. Le sue guance ripresero colore, gli occhi persero quel bagliore di spavento. Trangugiò ciò che restava. Si pulì le labbra rapidamente e uscì con passo deciso. Nel frattempo una nube minacciosa aveva smesso di oscurare il sole; raggi caldi colpivano la strada brulicante di vita. Virginia avvertiva la stanchezza nelle gambe ma una splendida vivacità, dono rarissimo, le dava nuova forza. Attraversò Trafalgar Square e la vide come chi ci arriva per la prima volta, con un sorriso interessato. Passò un quarto d’ora in cui non fece altro che godersi l’aria fresca, la luce del sole, il paesaggio tutt’intorno. Un quarto d’ora così – tranquillo, sereno, inconsapevolmente ottimista – non lo passava da quando Alice era venuta a Londra. Arrivò a casa all’una e mezzo, con la spesa per il pranzo in un sacchetto di carta. Alice aveva una pessima cera, e il mal di testa era peggiorato.
«Virgie», mugugnò, «non abbiamo previsto l’eventualità di una malattia, sai?» «Oh, dobbiamo evitare che succeda», rispose l’altra, sedendosi con aria esausta. Sorrideva ancora, ma non come sotto il sole di Trafalgar Square. «Sì, devo resistere. Appena me la sento pranziamo. Ora sono troppo debole.» Se entrambe avessero dichiarato quella debolezza ogni volta che l’avvertivano, non avrebbero mai smesso di lamentarsi. Ma di norma si sforzavano di mentire l’una all’altra e se possibile anche a se stesse, professando che nessuna dieta sarebbe stata più adatta alle loro esigenze di quella imposta dalla povertà. «Ah, la fame è un buon segno!» esclamò Virginia. «Nel pomeriggio starai meglio di certo.» Alice si rigirò fra le mani le poesie di Keble e si sforzò di trovarvi una qualche consolazione mentre la sorella preparava da mangiare.