Le lupe

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La sua faccia la conoscete tutti. L’avete vista appoggiata sulla macchia di sangue che secondo l’onorevole Fantini era un asciugamano rosso, ma che invece, no, era proprio il suo sangue. Si chiama Carlo Livi, ha 18 anni e l’unica cosa che pensa mentre apre gli occhi nella sua stanza, alle due di pomeriggio del suo ultimo giorno di vita, è che ha finito le sigarette. Avrebbe voluto comprarle ieri notte al distributore automatico, ma non aveva la tessera sanitaria ed era così tardi che non passava nessuno a cui chiederla in prestito. Era così tardi perché al campo di rugby aveva partecipato a un Terzo Tempo da selvaggi di cui, adesso, nel dormiveglia, ha pochissima memoria: gli si confonde con il Terzo Tempo della settimana scorsa a Udine, o forse quello a Rovereto, dopo il quale si era ritrovato sul treno di ritorno senza nemmeno capire come ci era arrivato e aveva perso due maglie della divisa, cioè tutte quelle che aveva (il custode del campo gli aveva poi permesso di frugare nello scatolone delle cose perdute e ne aveva trovata una quasi buona, appena appena sbiadita).


Insomma, si chiama Carlo Livi e deve urgentemente scendere a comprare le sigarette. Quindi deve trovare le chiavi dell’hondina. Deve trovare un casco. Deve trovare cinque euro. Deve trovarli senza prima prendere un caffè, perché quando beve il caffè gli viene una voglia incontrollabile di fumare che potrebbe ucciderlo (poi è morto uguale, ma mentre pensava queste cose non lo sapeva). Le chiavi stanno sulla cassettiera di sua madre, che da un mese usa la macchina, dato che il nuovo ufficio ha un parcheggio e così può risparmiarsi le buche, il vento e i jeans. «Con lo scooter non puoi metterti un vestito senza rovinarlo», dice sempre. Le trova lì, tra la foto del capodanno ad Amsterdam infilata nello specchio – Carlo e la sorella, con quell’amica bassina, imbottiti come eschimesi – e i libri, le collane di perle, la scatola degli occhiali e quella dei telecomandi rotti. Sono lì, attaccate al portachiavi a forma di Marge Simpson, e quando le prende non sente niente. Fosse in un film, avvertirebbe qualche presagio sinistro, sottolineato con un cupo accordo di basso dalla regia. Invece niente. E niente neanche quando entra di soppiatto nella camera di Caterina, sua sorella, e sfila silenzioso cinque euro dal portafoglio sulla scrivania, portandosi via anche il casco giallorosso di un vecchio fidanzato, conservato in un angolo per le emergenze.


Carlo chiama l’ascensore, scende, toglie il bloccasterzo e parte lento su viale Pinturicchio, nel quartiere Flaminio di Roma Nord in questa giornata che sprigiona primavera anche se è ottobre inoltrato e i platani cominciano a ingiallire. Fra meno di due ore sarà un disegno di gesso bianco sull’asfalto nero. Ma Carlo questo non lo sa. Non sa un sacco di cose, in effetti. Non sa che oggi, domenica, si gioca Roma-Juventus, settima giornata di campionato. Non sa che i romanisti hanno menato i poliziotti schierati a Tor di Quinto. Non sa che gli agenti Turino Andrea, Lo Presti Salvatore, Muri Giovanni e Santostefano Alessio hanno giurato di fargliela pagare «a quegli ultrà del cazzo». Non sa che l’agente scelto Mascio Vittorio ha pippato un grammo di coca nel bagno del bar Ciccio, come sua abitudine quando desidera sentirsi al meglio. Non sa, soprattutto, che un casco giallorosso oggi è una dichiarazione di guerra. Così Carlo Livi quando l’agente Mascio lo ferma e gli chiede i documenti, accosta e tenta di spiegargli che non li ha perché è sceso di casa solo per comprare le sigarette. E quando quello gli dà una spinta – «Non prendermi per il culo» – che lo fa ruzzolare per terra con lo scooter di mamma, spaccando la leva del freno e lo specchietto, si arrabbia davvero e alzandosi


gli si fa incontro urlando: «Ma che, sei scemo?» L’agente risponde con una testata. Lo prende sullo zigomo senza troppi danni. Carlo, che è ancora mezzo addormentato, ma è pur sempre un pilone di rugby alto due metri, carica il peso sulla spalla entrando dritto sullo sterno del poliziotto e lo ribalta come un pupazzo. Gli sembra di sentire un paio di risate nel cerchio delle divise. «Mi sono messo nei guai», pensa, mentre quattro mani lo afferrano da dietro e Mascio si rialza spolverandosi i pantaloni. Dieci minuti dopo è morto. Dodici minuti dopo è la bella foto del ragazzo riccioluto con i capelli neri, il segno di uno scarpone sulla guancia e lo sfondo rosso sangue che avete visto sul «Messaggero», scattata dal balcone dell’interno 7. Venti minuti dopo è l’Ultras ferito a morte in scontri con la polizia in apertura su tutti i siti di giornali. E, più tardi, dopo moltissime ore caotiche, è una frase definitiva, la frase definitiva di sua madre: «Adesso trovo chi è stato e lo ammazzo».


DOMENICA

Il primo pensiero è «Non è lui». Lo dico forte al telefono, davanti al banco dei surgelati, rispondendo alla telefonata del Numero Sconosciuto che dice «scontri allo stadio» e «la veniamo a prendere.» «Non è lui, non va allo stadio.» «Signora, lo scooter è il suo, è intestato a lei.» «Me l’avranno rubato.» «C’è stato un riconoscimento. Aveva una tessera in tasca.» «Che tessera? Mio figlio non ha tessere.» «Una tessera. Una tessera sportiva. O scolastica. Ora chiedo.» «È impossibile, mezz’ora fa dormiva.» «Dove si trova? Mando una macchina a prenderla.» Dopo, a casa, dopo aver visto lo scooter rovesciato, le strisce di plastica bianche e rosse legate alle transenne, la volante di guardia e, insomma, tutti i segnali di un disastro già successo, irrecuperabile,


immodificabile, di cui è inutile chiedersi le ragioni perché nulla può riparare l’accaduto, arrivano reazioni sconnesse e primordiali, chiudersi dentro la stanza, graffiarsi le guance, strapparsi la camicia, non aprire la porta, mugolare al buio per un tempo infinito ripetendosi «perché?» «Perché?» e altro ancora, cose che non racconterò mai a nessuno – l’idea di me stessa spiaccicata sull’asfalto tre piani più sotto, per cancellare l’ossessione dei «se» – «Se lo avessi svegliato», «se ci avessi parlato prima di uscire» – ed espiare le mie negligenze di madre, le risposte distratte, i pranzi cucinati male, le serate perdute chissà dove mentre lui stava lì, sul divano, a seguire la partita, e tutto quel tempo sprecato altrove mentre avrei potuto stare vicino a lui sotto il plaid e guardarlo assorto davanti al Sei Nazioni o alla Playstation, così bello, così giovane, così perfetto in tutto, nell’irripetibile momento della sua adolescenza. Non ho memorie recenti, né fotografie, né immagini fresche da sfogliare con gli occhi del ricordo. Entrava, usciva, mangiava, si cambiava, e da molto tempo la nostra routine era quella dei rimproveri per le calze lasciate in giro o i ritardi a cena. L’ovvietà delle cose era che avremmo avuto molto tempo per far altro – una lunga chiacchierata, una vacanza insieme da adulti, un pomeriggio al cinema come quando era bambino – ed è questo che mi fa disperare nel senso


di colpa che è il riflesso automatico della maternità, una serie infinita di «avrei dovuto» che culmina in una chiara sentenza di auto-condanna: avrei dovuto nascondere le chiavi dello scooter, senza scooter non sarebbe uscito, se non fosse uscito sarebbe vivo. Il secondo pensiero arriva quando l’idea di un salto dal terrazzo ha cominciato a diventare irresistibile e aiuta molto più dei consigli ragionevoli dei parenti che bussano alla porta. «Apri, pensa a tua figlia.» «Apri, non puoi stare da sola.» «Apri, è venuta Daniela.» «Apri, è venuta Simona.» Non so niente di quel che è accaduto. Sono state pronunciate le parole «rissa», «fatalità», «imprevedibile», confuse nel sommario resoconto di un pomeriggio di scontri intorno allo stadio. Non so neppure chi me le abbia dette. Però in quella sequenza di spiegazioni sconnesse c’è già l’idea di una storia poco chiara. Forse non è colpa mia. Forse la colpa sarà d’altri. E se non potrò mai assolvermi per tutto il resto, per questo magari sì. Quel disegno di gesso sull’asfalto. Quello scooter rovesciato. Quei nastri bianchi e rossi legati alle transenne di alluminio e a un platano. Il pensiero si fa strada nell’immagine del disastro che ho stampata in testa e prende forma per rapi-


de volute successive, come il fumo di una sigaretta, arrotolandosi infine intorno a un istinto altrettanto lineare. «Devo sapere chi è stato. Voglio vederlo in ginocchio.» Frasi che allontanano l’idea di un salto e un volo dal terrazzo e fanno dilagare un sentimento che fatico a riconoscere come mio perché incivile, barbaro, inconfessabile, addensato intorno a una parola – vendetta – che non dovrebbe appartenermi, e che però sembra l’unica che può dare un senso all’angoscia di alzarsi, sciacquarsi la faccia, uscire dalla stanza. La vendetta, il fargliela pagare. È un’idea che ferma all’improvviso le lacrime e si porta dietro con naturalezza un terzo pensiero, perché una donna di mezza età, una donna che ha una famiglia, una casa di proprietà, una macchina, la tessera del supermercato nel portafoglio e le rate del mutuo da pagare, può immaginarsi vestita di nero al funerale o in ginocchio davanti a una bara, non all’angolo di una strada buia mentre aspetta che rientri il vigliacco che ha ammazzato suo figlio. Il terzo pensiero è un lampo di coraggio e sventatezza, un impulso più che una costruzione razionale, il mantra che già una volta mi è servito per farcela oltre ogni rassegnata cautela dell’età adulta. Una sola


frase breve – «Ricordati di quando eri ragazza» – che un’amica, Stefania, mi disse molto tempo fa, in un altro momento difficile, ma non paragonabile a questo. Ero all’inizio di una separazione tempestosa e mi sembrava di non potercela fare, di non avere abbastanza coraggio e risorse per affrontare le cose. Così, nel caos di questo lunedì di ottobre, quindici ore dopo la telefonata che mi ha cambiato la vita, mentre tra le persiane filtra il grigio opaco che precede l’alba e la mattina del giorno dopo arriva veloce, mi arrocco nell’immagine di me stessa a vent’anni. Sarà il castello dentro il quale chiuderò i miei sentimenti e dove prenderò le mie decisioni, il muro che terrà fuori i pensieri suicidi per organizzarne altri e più giusti. Lui è morto. Una madre, una che prepara la cena e fa l’albero di Natale sbuffando, una che dà consigli adulti con le parole sensate dell’esperienza, non gli serve più. Gli servono altre cose, un altro tipo di donna, più giovane e più disposta a tutto.


FLAMINIA

Flaminia Orsi, 58 anni, agente immobiliare, ha adottato da moltissimo tempo una versione di convenienza di se stessa. Dietro quella signora di Roma Nord, benvestita e a proprio agio nei riti della tribù borghese che frequenta, si nasconde l’immagine di una ragazza con il montone rovesciato sopra la maglietta, all’uscita da Rebibbia, in mezzo a un gruppo che ride e la abbraccia facendo il segno di vittoria. Nessuno degli amici di oggi la riconoscerebbe mai: quella foto non è mai stata messa in mostra e mai Flaminia si sognerebbe di infilarla in una delle belle cornici d’argento che ornano la sua attuale libreria, primi piani di una signora medio borghese con le meches e le perle, professionista di un certo successo, separata da dieci anni e vedova da cinque. La foto la buttò via materialmente insieme a molte altre nel 1982, svuotando un cassetto in un secchio della spazzatura formato condominio. Non le guardò nemmeno. Si limitò a rovesciarle giù insieme a tutte le cianfrusaglie della sua prima vita. Poi ci spinse sopra


il montone rovesciato, marrone scuro, con due grandi stelle western impunturate di cuoio, che le era costato il suo primo stipendio tutto intero. Storia chiusa, si ricomincia da capo, disse a bassa voce. Sigillando con un nodo il sacco immaginò se stessa come una novizia che si rasa i capelli nel giorno dell’investitura a monaca. Provò sollievo, senza venature di rimpianto. Fu il funerale della ragazza che era stata. Deciso per stanchezza e voglia di normalità, ma soprattutto per amore di un uomo incompatibile con il passato che si portava dietro, con le amicizie troppo strette, con i ricordi troppo importanti, con i viaggi troppo lunghi e gli inossidabili legami della politica. Quell’uomo ammutoliva se per un motivo qualsiasi incrociava una storia o una persona che avevano a che fare con la sua vecchia vita. Non capiva. Aveva il costante sospetto che dietro ogni frammento ci fosse un vecchio amore o un’avventura di letto, perché non poteva immaginare nessun legame e desiderio diverso per una donna. Flaminia aveva seppellito «le cose di prima» convinta che fosse un indispensabile passaggio verso l’età adulta delle relazioni stabili. Di alcune aveva conservato un ricordo tenue, sbiadito come il colore di certi fiori secchi nelle pagine dei libri. La maggior parte era sparita nel buio, sostituita piano piano da oggetti più consoni e tranquillizzanti. Gouache napoletane, gera-


nei da terrazzo, perle, servizi buoni di piatti e bicchieri avevano colmato il vuoto anche quando quell’uomo, dopo un matrimonio e due figli, se n’era andato altrove e poi era stato per sempre cancellato da un incidente mortale sulla A1. Flaminia non ha mai ripensato alle «cose di prima» fino al giorno della morte di suo figlio, quando le circostanze l’hanno messa davanti a un’alternativa: imbottirsi di farmaci e seppellirlo piangendo oppure ritrovare la memoria della ragazza che era stata e farsi giustizia.


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