Antipasto «È tutto il giorno che la cerchiamo, signor Malaparte», disse Marelli, quello alto e calvo. «Abbiamo delle comunicazioni da farle. C’è un procedimento penale contro di lei, con l’accusa di omicidio.» Mentre parlavano, i due agenti dell’OVRA si guardavano la punta delle scarpe. Erano così a disagio, che quelle cattive notizie parevano quasi destinate a loro, anziché al sottoscritto. Perfino per la polizia segreta di Mussolini non era cosa da tutti i giorni intrufolarsi in una festa di gente ricca e famosa, mentre l’orchestra suona Cole Porter, i camerieri servono Chablis a fiumi e vassoi strapieni di canapè ronzano ovunque. Quei due dovevano avere stipendi da fame, come tutte le spie di basso grado, e si guardavano intorno con la bava alla bocca. «Sono accusato di omicidio? E chi avrei ucciso?» «Signor Malaparte, non è il caso di fare discussioni qui, a quest’ora. Possiamo fare due chiacchiere domani? Ad esempio verso le 14.» «Io non ho mai fatto del male a nessuno. Tranne che in guerra, al fronte.» «Certo, può darsi. Ma ne parleremo domani. Lei è uno scrittore, vero?» «Lo sapete già.» Vinto l’iniziale disagio, uno dei due agenti dell’OVRA pizzicò al volo da un vassoio una manciata di minuscoli vol-au-vent alla mozzarella, guarniti con olive e capperi, e se li ficcò in gola. «Allora non si preoccupi. La fantasia non le mancherà!» Sparirono in mezzo alla ressa, ridacchiando, con la bocca ancora piena.
La puledra del Kentucky «Sei crudele, Malaparte. Ti ho invitato mille volte, ma solo stasera ti sei degnato di venire.» Mentre Mona Williams mi dava il benvenuto nel viale d’ingresso della sua villa a Capri, il mio sguardo rimbalzava tra i suoi meravigliosi occhi color acquamarina e l’enorme zaffiro di Cartier, sorretto a fatica da un collier di diamanti, che le pendeva al collo. Era il biglietto da visita preferito di Mona quando riceveva gli ospiti, perché ricordava a tutti che Mona aveva sposato Harrison Williams, un uomo da 600 milioni di dollari. La sua collezione di ex mariti comprendeva Henry James Schlesinger, lo scapolo più chic del Kentucky, e James Irving Bush, l’uomo più attraente d’America. Ma per Mona la felicità non era mai arrivata dall’amore, bensì da Chanel, Lanvin, Balenciaga e altre divinità che sei anni prima l’avevano eletta “best-dressed woman in the world”. I giornali impazzivano per qualsiasi cosa Mona facesse, non importa se prendeva un tè in pantofole nella sua casa di Parigi, inaugurava un party nell’enorme appartamento sulla Fifth Avenue a New York, o sfrecciava a cavallo nei prati della sua sconfinata tenuta di Oak Point a Bayville. Per coronare il suo sogno, e cioè insegnare agli europei l’eleganza (lei, figlia di uno stalliere del Kentucky), Mona a Capri si era comprata la dimora più bella e lussuosa che mente umana, o almeno la mente di Mona, potesse concepire. Alla morte di Harrison (ma questo ancora nessuno lo poteva prevedere) avrebbe raggiunto l’apoteosi, sposandosi con il suo arredatore privato, il conte Eddie von Bismarck, diventando così la contessa Mona Travis Strader Schlesinger Bush Williams von
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Bismarck. Niente male, per la figlia di uno stalliere del Kentucky. E ora, all’ingresso della villa di Capri, lei e il suo famoso zaffiro di Cartier mi stavano dando il benvenuto. «Mona, tesoro, hai ragione», mi giustificai, facendole il baciamano. «Mi hai invitato mille volte. Ma sai bene che io accetto solo dal millesimo invito in poi.» «Allora è vero quello che dicono di te, Malaparte. Sei insolente e presuntuoso.» «Solo quando ho davanti a me una donna troppo attraente. Per piacere, dimmi che tuo marito è lontano, in America.» «Sì, ma sta venendo qui per riempirti di botte», scherzò con un po’ d’imbarazzo Mona, che tradiva regolarmente il suo adorato Harrison, il quale non veniva mai a Capri e la tradiva a sua volta con Coco Chanel. Per qualche istante aveva smarrito il finto accento britannico con cui camuffava la sua parlata nativa. Intanto si era già dimenticata di me e stava salutando con la mano qualcun altro: alle mie spalle, nel lungo viale coperto da una pergola, si avvicinavano Gracie Fields e suo marito Monty Banks, scortati da un codazzo di amici. Mona, Gracie e Monty si scambiarono baci, abbracci e gridolini come se non si vedessero da anni (in realtà avevano pranzato insieme tre giorni prima). Senza più degnare di uno sguardo gli amici che avevano intorno, scomparvero ridendo tutti e tre in uno degli innumerevoli vialetti alberati che si snodavano nella tenuta. Il Fortino, così si chiamava la residenza di Mona, era uno degli angoli più esclusivi di Capri, e poggiava le fondamenta nientemeno che sulle rovine d’una villa dell’imperatore romano Augusto. Nel corso dei secoli le sue mura avevano accolto i bipedi più pregiati del pianeta: teste coronate, capi di Stato, banchieri e artisti di somma fama. La padrona di casa amava ricordare con nonchalance che quella era stata la dimora di Bizet, e che Bizet aveva preso ispirazione, per la musica di scena di Carmen, dal suono delle onde che si frangevano sulla spiaggia privata. Più che una villa, a dire il vero, il Fortino era un ranch, un ranch che non ospitava mandrie, bensì una sola magnifica puledra del Kentucky. Adagiato su una grande area terrazzata che digradava
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verso il braccio di mare tra Capri e Napoli, il Fortino contava tre edifici separati e un parco lussureggiante di venticinquemila metri quadri. Si affacciava sulla costa nord-est di Capri e godeva di una vista immensa su tutto il golfo di Napoli, fino alla bocca vulcanica del Vesuvio. Sul lato interno invece offriva un panorama a perdita d’occhio sulle sinuose colline di Capri, punteggiate di bianche casette col tetto a cupola, tutte disegnate in quell’inconfondibile stile caprese che io ho sempre trovato così adorabilmente noioso. Mona aveva fatto del Fortino il suo piccolo impero personale. Recintata come una fortezza, impossibile da fotografare dall’esterno, la proprietà comprendeva un tratto di costa da cui la padrona poteva raggiungere la terraferma senza mettere piede nel resto dell’isola e mescolarsi con la gente comune. Non doveva chiedere ad altri neppure l’acqua, perché Mona raccoglieva l’acqua piovana in enormi cisterne dove faceva il bagno, e diceva che quello era il segreto della sua bellezza, il bagno in acqua piovana e nient’altro. La signora Harrison Williams, come Mona veniva chiamata da Vogue, era poi stata contagiata dal virus del giardinaggio, e aveva riempito il parco di così tante varietà che a volte pareva di essere entrati nella foresta amazzonica. Per capire bene quello che scrivo bisogna essere entrati almeno una volta in qualche grande villa di Capri, col suo giardino, le sue aiuole fiorite e i viali alberati. A Capri ogni specie vegetale cresce al doppio delle dimensioni regolamentari, come un mostro preistorico, e l’aroma di piante e fiori è così assurdamente intenso che si rischia di inebetirsi e cadere tramortiti. Quando si sbarca a Capri per la prima volta, se si è sensibili ai profumi, è meglio portare un tappo per il naso, o qualcosa del genere. Quella sera l’effluvio dei glicini, delle rose, delle magnolie e dei prati appena tagliati del Fortino, mescolato alle frustate d’aria marina, odorose di sale, di alghe, della spuma biancastra del mare, minacciava quasi di soffocarmi. Il vento soffiava tra le chiome degli alberi come un’orchestra di flauti, e ne usciva un sospiro dolcissimo, quasi un sussurro, un segreto mormorìo di femmine. «Vedi quello? È Malaparte», sentii bisbigliare un gruppetto di fanciulle americane al mio passaggio.
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«Malaparte? E chi è?» Cercai riparo dal vento dietro un albero, per accendermi una sigaretta, mentre le fanciulle spettegolavano. «Quel bell’uomo in smoking, con la brillantina e le ghette. Davvero non lo conosci? È un fenomeno.» «E cos’ha di tanto speciale?» «È uno scrittore. Ed è completamente folle. Scappò di casa a sedici anni per arruolarsi nella Grande Guerra. Dopo l’armistizio divenne un fascista scatenato, poi però in qualche romanzo ha osato prendere in giro Hitler e Mussolini. Dicono che in Germania i nazisti hanno fatto bruciare le sue opere. È fuggito in Francia, ma gli italiani lo hanno arrestato. Mussolini adesso lo lascia libero, ma solo perché come scrittore ha troppo successo. Agli inizi nessun editore lo voleva e doveva pubblicare a spese proprie, la censura gli sequestrava i libri. Ora invece è una star, le donne vanno pazze per lui. Se qualcuno lo offende, lui lo sfida a duello, con la sciabola. E vince sempre.» Procedetti lungo il viale d’ingresso, rischiarato da due file di grosse torce. Il cielo, là dove arrivava ancora un po’ di luce del sole, era solcato da strati di nubi giallastre, nubi color ambra, dense e collose. Il fiume di invitati che giungeva dal viale d’ingresso era inarrestabile, il chiacchiericcio e le risate parevano il ronzio d’uno sciame di vespe giganti. Le fiaccole, agitate dal vento della sera, deformavano i lineamenti dei volti trasformandoli in maschere oblunghe, nerastre, maschere africane, maschere giavanesi, di cacciatori di teste Dayak del Borneo. «Ciao, Malaparte! Ti porto da Parigi i saluti di Bernard Grasset.» Ricambiai alla cieca il saluto, agitando la mano verso quei visi grotteschi, senza poterli riconoscere; forse era il duca Diaz, o il marchese Medici del Vascello, o qualcuno degli innumerevoli cugini e nipoti del Re d’Italia che amavano fare ogni tanto un salto a Capri: il duca di Pistoia, il duca di Ancona, il duca di Bergamo o il duca di Spoleto, tutti pregiatissimi e tutti uguali, come le uova delle famose quaglie di Capri. Mentre la corrente degli invitati mi trascinava, intravidi per un istante Virginio Gayda, il potentissimo, fascistissimo e razzistissimo direttore del Giornale d’Italia, che rideva, rideva, rideva con un
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bicchiere di vino in mano, e diceva ad alta voce che l’Inghilterra era finita, e non sapeva che aveva appena cinque anni da vivere, perché presto sarebbe scoppiata la guerra e un giorno una bomba lo avrebbe fatto a pezzi in casa sua, a Roma, mentre prendeva lezioni di inglese. Aprendomi la strada a gomitate, approdai prima all’ingresso dell’abitazione principale, e poi nella biblioteca. Era una grande sala ovale dalle enormi vetrate affacciate sul giardino con un arredamento misto, un po’ Luigi XV, un po’ rococò. Passò salutandomi con un cenno garbato il conte Eddie von Bismarck, l’amante ufficiale di Mona Williams. Era stato assunto dal marito di Mona come arredatore e maestro di cerimonie perché era un vero aristocratico europeo, e poi perché era omosessuale e quindi con Mona, che amava la sua villa, i suoi gioielli e il suo giardino molto più degli uomini, non avrebbe combinato granché. Eddie von Bismarck mi piaceva. Odiava Hitler, il nazismo, la stupidità del nazismo, la stupidità che in quegli anni aveva trionfato in Germania. C’è un’unica cosa peggiore di un popolo crudele, ed è un popolo crudele e stupido. Eddie invece era nipote del celebre cancelliere tedesco Bismarck, che aveva avuto molti difetti, ma non era stupido. Era uno spiantato, il conte Eddie von Bismarck, ma era uno di quei pochi aristocratici, generali e funzionari di Stato che sapevano che Hitler era pazzo, e già vedevano arrivare la sconfitta in guerra e il crollo di tutto il loro vecchio mondo. «Ciao Eddie, che notizie dalla tua cara patria?» «Cattive notizie, Malaparte, solo cattive notizie. Si vive come in un incubo, tutti tremano di paura. La gente a volte sparisce dalla circolazione senza spiegazioni e non torna più a casa. Ma tutti tacciono, tutti sono conniventi. Nessuno osa parlare.» «Anche qui da noi, in Italia, non si possono dire e scrivere molte cose.» «Sì, ma da voi c’è umanità. Il nazismo è disumano. Il fascismo invece è umano», disse Eddie sorseggiando il suo bloody mary. «Mussolini è umano. Ha istinto per la musica. Suona il violino.» «Non so se il fascismo sia umano. E Mussolini suona male il violino. Sembra un gatto in agonia. Non bere troppo, Eddie.»
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«Ci puoi giurare. Malaparte, secondo te sta per scoppiare la guerra?» «Sicuramente no, Eddie.» Poco più oltre si udiva un pianoforte. Alla tastiera c’era quel simpatico gaglioffo di Noël Coward, grande amico della padrona di casa, che canterellava I went to a Marvellous Party. Quattro o cinque splendide ragazzette in cerca del principe azzurro, quella specie di ragazzette che si incontra sempre al golf club dell’Acquasanta, a Roma, si dimenavano attorno al pianoforte. Porgevano a Noël da bere, gli avvicinavano il portacenere, gli facevano mille moine con la speranza di essere rapite da lui quella sera stessa e portate in aereo a Broadway, a Hollywood, a fare fortuna in America. Del tutto indifferente alle graziose ragazzette (era più interessato agli uomini), Noël Coward strimpellava distrattamente e attaccava discorso con chiunque gli venisse a tiro. «Fermati, Malaparte! Ho grandi notizie per te: il duca di Kent va matto per i tuoi libri.» «Davvero? Mi domando come facciano a piacergli.» «In verità anch’io. Forse perché non li ha ancora letti.» «Benissimo, allora digli di continuare a non farlo.» «Che ne dici del discorso di Mussolini di ieri?» «Non l’ho sentito, Noël. Cos’ha detto d’interessante il Duce?» «Nulla. Non ha detto nulla di interessante, come sempre. Adoro Mussolini, è un campione di coerenza.» «Hai ragione, Noël, è un campione di coerenza.» «Ascolta questo refrain, Malaparte, mi è venuto in mente qui a Capri. Dimmi se ti piace.» Why must the show go on? It can’t be all that indispensable. To me, it really isn’t sensible on the whole, To play a leading role, While fighting those tears you can’t control.
Poi si fermò, cercando le parole successive, fece una smorfia d’imbarazzo, come per scusarsi, con un’indefinibile sfumatura comica,
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e le ragazzette intorno al pianoforte risero forte. Noël Coward era proprio un simpatico gaglioffo. «È uno splendido refrain, davvero. Lo devi sviluppare, fanne una canzone intera. Ci vediamo, Noël.» «Malaparte, aspetta! Secondo te sta per scoppiare la guerra?» «Sicuramente sì, Noël. Ci sarà la guerra e Hitler conquisterà l’Europa.» Noël Coward sorrise un po’ debolmente, senza capire se scherzavo o no. Mentre attaccava la canzone successiva e un cameriere in livrea mi serviva un bicchiere di vino bianco, sentii qualcosa di caldo e viscido che mi si appiccicava sulla schiena, tra le scapole. Era un alito caldo, un alito viola e caldo, l’alito dello sguardo di qualcuno alle mie spalle, qualcuno che mi guardava. Mi voltai. «Buonasera, Malaparte. Sono contento di rivederla a Capri.» Era Axel Munthe, il buon vecchio Axel Munthe, il famoso medico svedese, diventato una celebrità mondiale grazie al suo caramelloso libro di memorie, venduto a milioni di copie. Munthe era nell’isola da così tanto tempo che ormai era diventato un pezzo di Capri ambulante, uno scoglio di Capri che andava in giro con barba, baffi, occhiali scuri, bastone e cappello. «Buonasera, dottor Munthe, il piacere è tutto mio.» Era seduto in una poltrona, si appoggiava al suo bastone e teneva sul naso un paio di occhiali scuri da cieco. A Capri si era costruito una enorme villa panoramica baciata dal sole, ma preferiva vivere al buio in un’antica torre di pietra, circondato dal vento, dai suoi cani e dagli uccelli. Munthe non gradiva gli esseri umani; amava solo gli uccelli di Capri. Si eccitava solo quando ne sentiva cinguettare uno, e puntava il muso verso le chiome degli alberi, come un segugio. Spendendo una fortuna aveva comprato un enorme pezzo della collina di Anacapri, su in alto, nella parte montuosa dell’isola, per farvi rifugiare gli uccelli migratori di passaggio, al riparo dai cacciatori capresi. Era un vero gentiluomo, un maestro di generosità. «Non avrei mai pensato, dottor Munthe, di trovare un serio scienziato come voi a un avvenimento così frivolo come una festa da Mona Williams.»
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«Mio caro amico, non dimenticate che sono un individuo solitario, e ogni tanto devo uscire dalla mia prigionia, per riabituarmi agli uomini. Poi ritorno nell’ombra, dai miei uccelli e dai miei cani. Venitemi a trovare, qualche volta.» «Lo farò, prometto», dissi allontanandomi nella calca, «e salutatemi i vostri uccelli.» Io e Munthe avevamo parlato in francese; il suo italiano era stentato, non lo avrebbe mai imparato a dovere. Metà degli abitanti di Capri viveva da sempre sull’isola senza conoscere una sillaba di italiano: gli inglesi e gli americani perché stavano sempre tra loro, i francesi per pigrizia, i tedeschi per incapacità, Axel Munthe per esigenze teatrali. Parlava francese e faceva finta di essere cieco per darsi un’aria sofferente e misteriosa, per recitare il genio nordico romantico e impenetrabile. Io ero l’unico, credo, ad aver capito che ci vedeva benissimo. Quella sera mi ero voltato verso di lui proprio perché avevo sentito il suo sguardo puntarsi tra le mie scapole. Era lo sguardo di chi ha occhi di falco, uno sguardo che scava gli oggetti, che vede persino attraverso i corpi. Ma non c’era nulla da spaventarsi, pensai, perché Capri è un luogo meraviglioso, dove un mucchio di gente mi vuole bene. Gli invitati continuavano ad aumentare e a pigiarsi nelle stanze della villa in cerca dei drink e dei canapè. Si passava da un saluto all’altro senza neppure tirare il fiato, cominciavo a sentirmi a disagio. Tutti mi accusano da sempre di essere un esibizionista, e forse hanno ragione, ma non sanno che preferisco esibirmi davanti a quattro o cinque persone al massimo. A un tratto, dalla folla stipata nel Fortino si levò all’unisono un boato spazientito: sulla festa era calata improvvisamente l’oscurità. Era il solito blackout, immancabile a Capri nelle prime ore della sera, finché il governo fascista non si fosse deciso a rinforzare i collegamenti elettrici e telefonici con la terraferma. L’interruzione durò un paio di minuti, in cui nelle sale del Fortino si distinguevano solo le braci arancioni delle sigarette e sagome nere che urtavano ridendo le une contro le altre, poi la luce tornò. Una mano mi assestò un’amichevole pacca sulla spalla. «Malaparte, che sorpresa! Ma non eri in Eritrea? Ho letto una
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tua corrispondenza di guerra sul Corriere della Sera. Invece sei qui a Capri!» «In Eritrea ci sono stato tempo fa. Io le cose prima le vivo, Arturo, e solo dopo le scrivo.» «Direi molto dopo. I tuoi eritrei frattanto si saranno scoloriti.» Arturo Assante, avvocato e giornalista di Napoli, era un tipo sveglio, e sapeva sempre tutto di tutti. Quella sera stava simpaticamente insinuando che io scrivessi corrispondenze di guerra da casa, senza andare al fronte. Era vero, ovviamente, ma non del tutto. In guerra ci andavo, ma continuavo a scrivere i miei articoli anche nei mesi successivi, così il lettore aveva l’impressione che io fossi ancora al fronte. D’altra parte, in guerra partecipavo anche agli scontri, sparavo e rischiavo la pelle, mentre gli altri giornalisti italiani si imboscavano nelle retrovie. «Prendi dello champagne, Malaparte!» disse Assante indicandomi un cameriere che girava servendo le coppe. «Champagne? No grazie. Mi ricorda quand’ero ufficiale in guerra.» «Bevevi champagne in guerra?» «La Champagne è una regione francese. Nel 1918 ci sono morti i miei soldati, a Bligny», risposi secco, e mi allontanai approfittando dell’arrivo del mio amico Edwin Cerio. Le mitragliatrici tedesche ci spazzano a uno a uno, ra-ta-ta-ta-ta-ta. Il boato di un calibro 50, la collina che esplode e si spacca in due, il cielo oscurato da un’onda enorme di fango. Mezzo battaglione sepolto, grida, pianti. Scavare, subito. La mia pala s’arresta contro una strana palla. Estraggo dal fango la testa, la libero dall’elmetto e la lascio cadere dentro il mio sacco, insieme agli altri pezzi di carne. Bligny 1918. Mentre mi avvicinavo a Edwin Cerio, i ricordi mi tormentavano come vecchie pallottole infisse nel mio cranio.