La casa è una casa normale, come un milione di altre, ma dopo un attimo che la guardi ti accorgi che non è affatto normale, c’è qualcosa di terribile e Ti giuro, me l’hanno raccontato persone di cui mi fido, sono entrati per gioco, erano un gruppetto di ragazzini, sono entrati per fare una bravata e si sono trovati davanti questa figura bianchissima che stava sospesa a un metro dal pavimento e faceva come se loro non esistessero e un attimo dopo è scomparsa Pare che questo tizio ci abbia proprio rimesso la pelle per lo spavento, un architetto, era lì per la ristrutturazione, a prendere delle misure, e di colpo deve avere visto qualcosa, ma nessuno lo sa perché era solo, verso sera, e lo hanno trovato la mattina dopo due operai che erano andati a cercarlo, morto rigido, con il cuore spappolato da, chissà da cosa, da una paura folle dico io, i due hanno detto che aveva gli occhi spalancati e una faccia che non dimenticheranno mai per tutta la loro È ovvio che nessuno ci vuole mettere piede, lì ci sono le anime dei morti che ti prendono per mano e ti portano con loro Dice che la presenza era al tempo stesso una e molte, nel senso che si vedeva questa specie di nebbia che però aveva una forma come di essere umano, e però si sentivano più voci, più presenze, una schiera di spettri, o di quello che sono Chi ci è entrato dice che si sente il male, come se le presenze 7
non volessero nessuno nella casa, e chi ci prova o muore di paura o scappa e non torna più Non ci metterei piede neanche morto Nessuno potrebbe anche solo immaginare di andarci a vivere; l’unica è abbandonarla a se stessa, aspettare che si sgretoli da sé, che si lasci andare e si accartocci nel nulla e porti con sé tutte le presenze maligne Quella casa è maledetta, una colonia del regno dei morti tra i vivi Ci sono e ci sono stati e ci saranno sempre, e vedono tutto Una paura che ti annulla, perché loro sono quello che tutti diventeremo, o forse quello che già siamo e neanche lo sappiamo, e loro sono lì per ricordarcelo e ripeterci siete nulla, siamo nulla, per sempre, da sempre
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1992
Ant si chiama Antonia ed è nata un lunedì di cinque anni prima, cinque anni esatti dato che oggi è la sua festa. Quel lunedì, le diranno poi, anzi le dirà suo padre che insegna una qualche Storia all’università, è stato nero, perché la gente di tutto il mondo ha perso un mare di quattrini. Almeno quelli che li avevano. Lei nasceva e loro andavano in malora. Ma Ant adesso, proprio da poche ore, ha cinque anni; e non sa niente o quasi niente di soldi; se non che i soldi servono, suo padre lo dice e lo ripete sempre, e non bastano mai. Ant sa che quando suo padre fa una faccia ben precisa, una faccia come sbiadita e tutta stirata, è perché i soldi non stanno bastando per niente; e a quel punto si sente come in colpa, si sente impotente e vorrebbe fare qualcosa. Di solito non sa che fare, e del resto come potrebbe rendersi utile una bimba di cinque anni al suo papà? Oggi però è diverso. Ant ha sentito mille volte i grandi dire che per capire meglio una cosa devi guardarla dall’alto. Sua madre lo dice, suo padre anche, e perfino la maestra della materna un giorno ha detto che dall’alto gli uccelli vedono le cose come noi non possiamo vederle. Per questo, appena ha visto che papà aveva un problema, ha deciso di provarci. Perché lei vuole bene a suo papà. Ha deciso di dare un’occhiata dall’alto. 11
E in effetti dall’alto si vedono cose che a terra neanche riesci a immaginare. Si vedono macchine che sembrano macchinine. Si vedono i fili del tram vicinissimi. Si vedono i marciapiedi e i segnali stradali e i semafori tutti minuscoli, come nei plastici dei trenini elettrici. E si vedono anche persone che paiono pupazzetti o cartoni animati, e fanno tanto ridere quando si agitano come matti, e si sbracciano e strillano il suo nome. Che ridere sentirli dire Antonia, Antonia, e chiamarla da lontano. Non c’è un solo motivo per cui debba dar retta a quei richiami, tanto più se usano un nome che non le piace e non le è mai piaciuto. Lei vuole che tutti la chiamino Ant, perché è più corto, è più bello e perché la maestra della materna le ha detto che in inglese significa formica, e non le dispiacerebbe affatto essere una formica, per un sacco di motivi, primo tra tutti che puoi nasconderti dove vuoi. Ant oggi compie gli anni, cinque anni, che non sono pochi; e pensa che è un peccato avere perso tanto tempo senza sapere quanto sia bello scrutare le cose dall’alto. Solo, non si spiega perché mai quelli di sotto strillino tanto; neanche fosse la fine del mondo vedere una bambina che passeggia sul cornicione del settimo piano il giorno del suo compleanno.
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1983
Forse è arrivata la fine del mondo. Almeno a Torino, almeno per com’è andata in questo ultimo mese così freddo. Prima è successa quella cosa terribile, una domenica pomeriggio mentre cadeva fitta la neve il fuoco ha distrutto un cinema e tutti quelli che c’erano dentro sono diventati dei poveri corpi e sono stati disposti tutti uno di fianco all’altro, sdraiati, in un garage lì accanto, e poi, quando nel garage non c’era più spazio, anche sulla strada, mentre la neve continuava a cadere. Poi si è scoperto che la strage era successa per via delle uscite di sicurezza che dovevano essere aperte e invece erano sprangate e addirittura chiuse con catene da moto, e i sedili che dovevano essere ignifughi bruciavano come paglia, ma non è tutto, bruciando liberavano nell’aria dei vapori capaci di ammazzarti in un secondo. Tanto nessuno si era mai sognato di controllare le uscite di sicurezza e nessuno si era mai sognato di controllare i sedili. Qualche giorno più tardi i carabinieri hanno arrestato una manciata di assessori del Comune insieme al tizio che li pasceva di tangenti, hanno fatto un’infornata unica e si dice che entro breve la cosa spazzerà via l’intera giunta, la giunta rossa che da un po’ di anni governa la città, anche se è stato il sindaco a spingere il tizio a denunciare il verminaio. Di tutto questo, e di molto altro, a Malapianta non frega 15
niente. Lei è come la neve che cadeva il giorno dell’incendio e dello strazio di tutti quei poveri corpi: indifferente. Ci sono delle cose che le interessano, vero; ma non hanno niente a che vedere con ciò che accade nel mondo esterno. Quello, il mondo esterno, per lei potrebbe tranquillamente finire anche subito, sgretolarsi o essere pure lui consumato dal fuoco, l’eventualità non la farebbe scomporre. Le cose che le interessano sono quelle del suo mondo, e non sono più di quattro: La prima è la roba. La roba Malapianta se la fa in vena e, per farsene in vena quanta ne esige il suo corpo, la vende. È la cosa più facile del mondo. Agganci un tossico davanti a un locale o a una scuola, gli vendi della polvere come si deve, lui sparge la voce e il gioco è fatto. La volta dopo gliela dai mediocre, o addirittura schifosa, ma questo è un altro discorso. Se qualcuno per caso ne approfitta e pensa di poter fare il furbo solo perché Malapianta è femmina e ha quattordici anni, allora nessun problema, Malapianta sa come fare, gli manda due o tre amici e gli fa rompere un osso. Non più di uno, perché il tipo, il tossico merdoso, come le hanno insegnato, deve restare abbastanza sano da saldare i debiti e da potersi fare ancora per un bel po’. Quando spaccano uno che le ha fatto un torto (l’ultimo per esempio si era fatto dare del brown e poi le aveva puntato un marsigliese e le aveva detto che le tagliava la faccia se non se ne andava subito o provava a dire ancora una volta la parola soldi), Malapianta è contenta, perché si sente tranquilla. Se qualcuno a cui ha venduto si fa e crepa, Malapianta non fa una piega e dice quello che le hanno insegnato: se ti fai già sei un morto che cammina, quindi niente di più facile che a un certo punto smetti anche di camminare. In piedi o nella cassa, la differenza è minima. 16
Anche lei è una morta che cammina, lo sa. Non ci pensa di frequente ma lo sa; e in verità non riuscirebbe a immaginare una vita diversa da quella. Il momento in cui la roba le scivola in vena è indescrivibile, dolcissimo, e vale tutto. La seconda cosa che le interessa è andare al cinema, anche se non ci riesce mai. I film le piacciono da quando era bambina, e in particolare quelli che fanno paura. Se ci sono mostri, vampiri, spettri, licantropi, mostri schifosi, lei è contenta. Più ce ne sono meglio è. Ma non ha nessuno che la accompagni; e a lei andare al cinema sola non piace. Nel suo più grande desiderio ci sono due film di cui ha sentito parlare milioni di volte: L’esorcista e Shining. Le hanno detto che non si può immaginare nulla di più spaventoso, e il solo pensiero le dà brividi di piacere. Il problema è che quando è uscito L’esorcista aveva quattro anni, quando è uscito Shining undici. Troppo piccola, sempre troppo piccola. Ora che ne ha compiuti quattordici, forse, potrebbe finalmente vederli. Ma dove recuperarli? Nessun cinema proietta film tanto vecchi, e in tv te li sogni. Una sofferenza. La terza cosa non è una cosa ma una persona: Emme. Emme si chiama Manuele e poi un cognome che nessuno sa, e di mestiere fa lo spacciatore. Spacciatore di livello. Non si sporca le mani con la strada. Non vende al dettaglio. Compra la roba, la taglia con la mannite o con robacce medicinali molto peggiori e la affida a quelli come Malapianta, topini laboriosi che la inoculano in tutte le vie e piazze e vicoli e angoli della città. In cambio concede loro di trattenere per sé – o meglio in sé – parte della merce, senza esagerare ma abbastanza da rimanere soddisfatti e non farsi venire strane idee tipo mettere insieme una decina di consegne e svignarsela. Emme è preciso, meticoloso, segna tutte le regole da rispettare e gli impegni o gli appuntamenti della giornata su 17
fogli a quadretti numerati. Non si fa, non ci pensa proprio, perché per lui la roba è solo un lavoro; di quando in quando tira un po’ di coca perché è la droga dei ricchi, beve parecchio e soprattutto fuma quaranta sigarette al giorno, consumandole fino al filtro e anche oltre. Ama l’ordine e la pulizia e non sopporta gli schiamazzi né la musica troppo forte. Non veste robaccia tipo jeans strappati, chiodo e camperos. Emme di solito indossa pantaloni con le pince attillati sul culo, giacche di panno con spalle imbottite e, sotto, camicie ben sbottonate o dolcevita di filo, rigorosamente bianche o nere. Stivaletti in capretto nero o beige, con cerniera, punta acuminata e tacco alto e massiccio. La differenza tra Malapianta e gli altri topini operosi è che loro lavorano per Emme, lei ci vive insieme. Per chi guarda dall’esterno, Malapianta è la donna di Emme. Anche se ha solo quattordici anni e lui ne ha ventotto, cioè il doppio esatto. Quando parla di lei, Emme dice che l’ha scoperta lui, come un impresario direbbe della sua star. In effetti è vero. Un giorno l’ha vista per strada che si menava con un’altra ragazzina, è sceso dalla macchina ed è rimasto a guardarla incantato, mentre lei percuoteva l’altra piroettando leggera nella luce sudicia dei lampioni di via Millelire. La cosa che lo ha subito colpito è stata la bellezza della ragazzina, con tutti quei capelli neri e lucidi che si sprigionavano in ogni direzione come raggi di un sole buio, e quel volto netto scolpito, con il naso pronunciato e tutto il corpo lungo e pieno di curve che si muoveva con una grazia e al tempo stesso una violenza da non credere. Quando l’ha vista infierire sull’avversaria già a terra con il tacco dello stivale, e nel mentre sorridere con denti bianchissimi e un’angelica, disarmante soavità, si è definitivamente innamorato. Era perfetta. 18
Le ha chiesto se volesse un passaggio, poi le ha offerto una canna, poi le ha pagato la cena. Una settimana più tardi l’ha fatta bucare per la prima volta, regalandole la roba per il suo tredicesimo compleanno. Due settimane dopo l’ha sverginata. Lei era emozionata e spaventata, e quando Emme è entrato ha sentito un male terribile, come una lenta pugnalata, e di piacere neanche l’ombra. Ha aspettato con pazienza che quel corpo pesante si svuotasse gemendo dopodiché è andata a lavarsi e ha pensato che, se il sesso era quello, non sarebbe stato il centro della sua vita; anzi poteva decisamente farne a meno. Il giorno seguente Emme l’ha vista aggredire una donna che l’aveva urtata per strada, e ha scelto rapito un soprannome per lei: Malapianta. «Tipo l’erba cattiva?» ha detto lei ancora con il fiatone. «Quella che non muore mai?» Emme ha fatto sì con la testa, e nel giro di un mese Malapianta si è praticamente trasferita da lui (il proposito di fare a meno del sesso ha dovuto abbandonarlo; perché nonostante continuasse a lasciarla indifferente lui ne esigeva tutte le sere). Quando i genitori e un fratello si sono presentati a reclamarla a casa di Emme in via Fratelli Garrone, lei li ha coperti d’insulti e Emme con l’aiuto di uno scagnozzo di nome Piega li ha picchiati così forte che alla fine, dopo essere rotolati giù da una rampa di scale su cui avevano lasciato sangue, brandelli di abiti e un paio di denti, hanno impiegato una mezz’ora buona a rialzarsi. Non si sono fatti più vedere, e Malapianta è diventata ufficialmente proprietà di Emme. La cosa non le dispiaceva affatto, dal momento che padre e fratelli la menavano tutti i giorni per i motivi più assurdi, e a quel punto meglio accontentare Emme e le sue foie. Non c’era paragone. 19
Ma tutto cambia; sicché la quarta cosa che interessa a Malapianta, dopo più di un anno di vita con Emme, è liberarsi di lui. Non in modo violento. Solo andarsene. Non riesce più a svegliarsi accanto a lui, a scopare con lui, a sentirlo parlare e a sentire l’odore del suo alito. Non sopporta più tutte quelle sigarette fumate fino al filtro, con quella puzza schifosa che spandono dappertutto. Quando lui le sale sopra, o si piazza dietro ben saldo sulle gambe, e la scopa, lei pensa all’unico vero film dell’orrore che abbia visto, che si chiamava Zeder e dove c’era un morto che si risvegliava nella bara con una telecamera che lo filmava, e di colpo questo cadavere spalancava gli occhi ed era così spaventoso che ti sembrava di avere un centinaio di spilli piantati nella nuca. Malapianta ogni volta si rimette davanti agli occhi quell’immagine, così di Emme che la scopa manco si accorge. Vorrebbe stare da sola, mettersi a spacciare per conto suo e mandare tutto il resto del mondo a fare in culo. Sa che è difficilissimo, un’impresa disperata, ma il suo desiderio è questo. Altro che le interessi, per quanto si sforzi, non trova. La neve, i morti in fila davanti al cinema, gli assessori arrestati e la giunta che scricchiola, nemmeno sa che esistono. Mentre esistono i ragazzini che, un pomeriggio qualunque, le si avvicinano e le chiedono a bassa voce un quartino. Li guarda. Avranno dieci o undici anni, non di più. «Abbiamo la spada e l’acqua», dice uno di loro mostrando una siringa per insulina già usata e una fiala di distillata, come se la cosa gli desse dei diritti. Lei annuisce, pensa che ora li prenderà a pedate perché anche Malapianta ha dei limiti; poi si rende conto che il ragazzino della spada e dell’acqua somiglia molto a un compagnuccio di scuola di Fabio, suo fratello. Dice al gruppetto 20
di andare a farsi un giro e tornare di lì a mezz’ora. Li lascia allontanare e si mette a seguirli. Cammina cammina arrivano a un bar sala giochi in corso Unione, il «Mic Mac». Entrano. Entra anche lei. Hanno raggiunto un altro amichetto. L’altro amichetto è Fabio. Malapianta gli si avventa addosso, lo prende per il collo e lo sbatte contro un Bomber Jack, lo riafferra, lo trascina fuori, lo scaraventa a terra e lo tempesta di calci, poi si inginocchia e gli prende la faccia con le unghie e gli sibila all’orecchio che se prova ad avvicinarsi a un granello di roba lo ammazza proprio, lo ammazza quanto è vero dio.
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