Marmo rosso

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Marmo. Bianco e silenzioso. Sottile marmo bianco e silenzioso. Sta accucciato da qualche parte, sotto di me, dentro, immobile. Non dice quello che deve dire, ciò che io per primo dovrei dire, se fossi onesto fino in fondo, se fossi sincero fino in fondo. Sottile e silenzioso indice di marmo bianco. Tavoletta scritta e poi nascosta agli occhi. Marmo nascosto. Mi pesa sul sonno, tra il bianco del lenzuolo e i capelli. Preme sulla vasta superficie bianca, increspata, spumeggiante che oramai è diventato il mio sonno. Mi sveglio e ti porto in giro per la casa, scalzo, marmo. Mi sveglio ogni trenta, quaranta minuti. Ogni notte ogni trenta, quaranta minuti, oramai. Dovrei leggerti ad alta voce. Senza omissioni. Nero su bianco. Nero su marmo. Forse cosÏ dormirei.

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La prima volta che ti ho incontrata, nella città soffiava un vento innaturale. Tu indossavi un vestito di tela grezza, una specie di tunica pagana, grigia e sfrangiata. Ai piedi dei sandali di corda, colore della corda. Li facevi andare piano, come se aspettassi dalla città stessa il dono di una direzione. I tuoi occhi assorbivano i pochi colori rimasti a disposizione del paesaggio, velocemente li passavano al vaglio di una qualche selezione interiore, poi li sputavano fuori. I tuoi occhi erano come una slot machine che un’invisibile mano infelice non riusciva a fare tintinnare. Nessuna presa, nessuna combinazione. Una minuscola ragazza, ancora da colorare, in attesa del proprio ritrattista. Mi sono avvicinato e te l’ho chiesto. Qual è il colore che stai cercando. Ti sei voltata, impaurita, nella città ferma, pronta a scappare. Non fermo gli sconosciuti per strada, generalmente. Non devi spaventarti. Sei rientrata intera nella calma che ti attorniava, e mi hai sorriso. Rosso, hai detto. Sto cercando un rosso, ma non mi ricordo più com’è fatto. Forse ti posso aiutare, ho detto, mentre il vento aggiungeva alla velocità la musica, una melodia stridente, un coro di soffi tagliati, il requiem per la città. 8


Io e il gatto, di notte, facciamo dei giochi. Lui ha unghie e occhi luccicanti, io la mia insonnia. Non ci serve altro. È un gioco elementare, tutto sommato. Quando il gatto dorme con tutti e due gli occhi, dalla parte destra del letto a due piazze, verso la finestra e il vuoto sotto, dalla tua parte, lo sveglio. Lui sa già tutto, oramai. Io prendo il bastone e la benda. L’aceto è già sul comodino. Mentre impregno la garza con il liquido il gatto corre già molto forte, prova delle traiettorie bizzarre, disegna un tracciato dal quale non sono esclusi gli ostacoli, anzi lo rendono più imprevedibile. Salta sopra poltrone e pezzi di parete, davanzali e tavolo. Io stringo forte la benda intorno agli occhi, mentre il gatto sonda la sicurezza di alcuni nuovi nascondigli, anche se sa bene che l’immobilità non paga a sufficienza nel nostro gioco. Adesso, con gli occhi che mi bruciano e che non possono vedere, incomincio a correre. Corro mulinando il bastone a diverse altezze. Ogni tanto do un colpo violento, dall’alto verso il basso. Nonostante conosca a memoria l’appartamento, batto più e più volte contro muro e mobili. 9


Mi graffio la pelle, mi procuro dei lividi. Mi faccio male. Il gatto qualche volta miagola, quasi sempre soffia. Ho dieci colpi a disposizione, poi il gioco finisce. Getto la benda nella spazzatura, ripongo il bastone, mi sciacquo gli occhi e torno a letto. La schiena contro le doghe, fisso il soffitto, nel buio. Ogni tanto ti penso. Dopo un po’ arriva anche lui. Invece di accoccolarsi il piÚ lontano possibile, dalla sua parte, il gatto percorre il mio corpo con molta prudenza, partendo dai piedi. Ogni tanto pronuncio il tuo nome. Lui si allunga sul mio torace e con il muso controlla che non ci siano lacrime intorno agli occhi. Se ce ne sono le lecca con la lingua rasposa, poi ricomincia a dormire. Anche a me spettano quaranta minuti di sonno granitico.

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Entriamo in un bar, in una zona trafficata della città. I camerieri sono vestiti da orientali. Anche l’arredamento è esotico. Lumi a pagoda, di carta, sparpagliano una luce debole, rosata. Formano zone d’ombra, veline di buio, cunicoli fatti apposta per l’intimità dei clienti. Ne infiliamo uno e ci sediamo. Io ordino un campari shakerato, tu un bloody mary. Stiamo in silenzio, per un po’. Poi arriva il ragazzo, lentamente, pattinando i passi, inguainato da un kimono di finta seta, attento a non sbilanciare troppo il vassoio. Dividi i tuoi aperitivi con i passanti a ore insolite, ti chiedo. Non più di quanto tu li fermi. Come ti chiami, ti chiedo sorridendo. Sorseggi piano, tenendo con le due mani il bicchiere, come se fosse bollente, poi lo posi e aggiungi del tabasco. Adesso raccogli tutta la poca luce che c’è nell’angolo, la carichi negli occhi e me la lanci addosso. Non è questo il rosso che cerco, dici, accennando al contenuto del bicchiere. Io non ho ancora preso il mio. Non sei di questa città, vero. Che cosa fai qui. Io cerco un punto tra la tua spalla e il collo, poi afferro il mio campari, allargando le braccia. 11


Non lo so, penso. Faccio un brindisi con te, dico. Alziamo i bicchieri, ridendo. I vetri si toccano producendo un tintinnio finto cinese, come tutto qui intorno. Svuoto in un solo sorso metĂ del liquido colorato. Ci mettono sempre troppo ghiaccio, dico, guardando quello che rimane nel bicchiere. Non mi hai ancora detto perchĂŠ sei qua. Non mi hai ancora detto come ti chiami. Ti guardi intorno, poi sussurri, mi chiamo Chen Li.

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Sei rimasta Chen Li per un mese. L’ultima volta sei stata Marcia, la cilena. Hai cambiato spesso il tuo nome, li ricordo tutti. Ma è soltanto al primo e all’ultimo che sono affezionato. Uno dei nostri giochi preferiti. Va bene Chen Li, facciamo due passi, usciamo, questo locale è insopportabile. È perfetto per questa città, anch’io sono una straniera qui. Dove sei nata. Sono la figlia di un imperatore e di una gru, sono stata partorita in volo, non lo so dove, ma non lo raccontare a nessuno, è un segreto. Sei una principessa smarrita, allora. Sì. E cosa fai per sopravvivere. Vendo vestiti. Vendi vestiti di seta, con i draghi ricamati e le foglie di salice. No, lavoro in una jeanseria, hai detto sorridendo. Mi puoi accompagnare, se vuoi, sto andando là, attacco tra mezz’ora. Non posso, anch’io devo andare, ma se mi dai l’indirizzo ti vengo a prendere quando finisci. Finisco alle sei e mezza. 13


Hai sorriso ancora, avvolgendo il sorriso di sfumature misteriose, poi mi hai passato un biglietto da visita. Ăˆ la prima volta che do il mio indirizzo al primo incontrato per la strada. Non sarai mica un assassino. No, però ti voglio aiutare.

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Non ne conosco il motivo, ma c’è qualcosa che mi impedisce di dire tutto quello che penso alla persona che amo. La mia esistenza trascorre piana e monotona, ho un lavoro nella mia città, sono stimato dai colleghi, ho una casa decorosa. Ma nascondo qualcosa, ostinatamente, con vergogna. Nella mia città nessuno si è mai accorto di me. Ho una vita sociale moderata, mi si può vedere ai concerti, al cinema, nei luoghi pubblici, non ho comportamenti sospetti, non sono un facinoroso, né un piantagrane. Ma nascondo qualcosa, ostinatamente, con vergogna. Sorrido spesso, cerco di ascoltare sempre, con attenzione, quando mi si rivolge la parola, sono educato, almeno credo. Ma nascondo qualcosa, ostinatamente, con vergogna. Con il gatto è più semplice. Ieri notte, per la prima volta, l’ho colpito con il bastone. Al decimo e ultimo colpo. Qualcosa l’ha tradito, forse la curiosità. Forse voleva provare. Dopo è salito sul letto, come sempre, e ha fatto la sua indagine. L’ho preso sottobraccio, siamo andati in cucina. Ho aperto lo sportello sopra il frigorifero, ho preso per lui una scatoletta di carne, per me una cipolla. 15


Ho sbucciato la cipolla tenendola molto vicino agli occhi, l’ho tagliata ad anelli, ho mangiato il piÚ esterno, il piÚ grande e ho buttato nella pattumiera il resto. Ho aspettato che il gatto finisse di leccare la ciotola, poi me lo sono messo sulle spalle e sono tornato a letto. Nascondo qualcosa, ostinatamente, con vergogna. Ma non faccio mancare le lacrime, a chi se le aspetta, intorno al mio viso.

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Ho sbrigato i miei impegni nella città ferma e straniera prima del previsto e così sono venuto qui. Sto dall’altro lato della strada, e ti vedo bene, il negozio è all’angolo, le vetrine sono a giorno, così che l’emporio è trasparente, come una casetta di cristallo. Accompagni i clienti nello spogliatoio, tiri le tende, li aspetti. Quando escono li squadri brevemente piegando un po’ il busto di lato, poi li porti davanti allo specchio. Immagino le tue espressioni incoraggianti, professionali. Poco dopo il cliente ritorna nello spogliatoio e ti passa il capo da sopra la tendina tirata. Quasi sempre ti dirigi verso la cassa, togliendo l’etichetta della marca, è raro che tu riponga la merce nello scaffale. In quest’ora che è quasi trascorsa è capitato due volte soltanto. Devi essere molto persuasiva. Chen Li, la venditrice meravigliosa. Sì, sul tuo biglietto da visita il tuo nome inventato avrebbe fatto vittime eccellenti. Poco prima della chiusura fai un giro di controllo nei corridoi, entri nello spogliatoio, chiudi il séparé, esci in pochi secondi, compi ancora un’ultima veloce ricognizione. Mi domando che cosa vorrei comprare da te. 17


Mi chiedo che cosa vorresti vendermi. L’ultimo treno per l’altra città calma e sfrangiata partirà dalla stazione di questa tra sei ore. Il tempo non manca.

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