Meglio se taci

1. PERCHÉ «È MEGLIO SE TACI»

La rete è libera. Libera per natura, per definizione, si pensa spesso.

Perché chiunque può aprire un blog o postare quello che preferisce sui social network. Chiunque può leggere on line le opinioni più diverse, comprese quelle strampalate, eccentriche, assurde, complottiste, perfino razziste e violente. Chiunque può caricare o scaricare un video a piacimento, compresi quelli pornografici o quelli in cui ci si fa esplodere con una cintura esplosiva; e c’è tutto, in Internet, dal Ku Klux Klan al Califfato islamico, dai teneri gattini al gruppo Facebook che invita all’omicidio di Justin Bieber.

E così via. La rete è libera e anche grazie alla rete negli ultimi dieci anni è successo un po’ di tutto, nel panorama politico mondiale: sono scoppiate rivoluzioni dal Nordafrica all’Asia centrale; negli Stati Uniti un candidato nero e outsider è arrivato alla Casa Bianca contro ogni previsione; in Italia un movimento nato attorno a un blog – piaccia o meno – ha conquistato quasi un terzo dei voti alle elezioni parlamentari. Eccetera: perché – si dice – la rete è completamente libera, disintermediante, orizzontale, plurale e conversativa.

Però, però.

Però sarebbe un po’ ingenuo pensare che questa libertà digitale sia 7

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senza zone d’ombra e senza rischi di inganno. Perché così non è: nessuna medaglia è priva dell’altra faccia e nessuna conquista è tale per sempre. Per tanti motivi, alcuni dei quali sono stati messi in luce nel dibattito mondiale tuttora in corso tra studiosi, sociologi, filosofi.

Ad esempio, ha fatto molto discutere il fatto che la rete talvolta diventi strumento anche di spionaggio governativo sui cittadini (caso Nsa) e possa talvolta trasformarsi in un’arma che agevola la repressione dei regimi dittatoriali (è la tesi più celebre di Evgeny Morozov); o possa ridurre la persona a un oggetto, a un «gadget» (è la denuncia del saggista Jaron Lanier); o tenda in alcuni casi a banalizzare le relazioni affettive portandoci a nuove forme di solitudine (Zygmunt Bauman). E, ancora, si sa che la rete può diventare strumento di dumping salariale, precarizzazione e sfruttamento cognitivo. Più di recente, lo scrittore statunitense Nicholas Carr ha messo in guardia sugli effetti negativi che l’automazione può avere sulla mente umana, mentre Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee hanno scritto pagine interessanti sulle conseguenze dell’intelligenza artificiale nel mercato del lavoro per le professioni d’ingegno. Altri studiosi, peraltro, sostengono tesi di segno diverso: Howard Rheingold, ad esempio, sta concentrando il suo interesse sulle modalità migliori per sviluppare il potenziale dell’intelligenza collettiva in Internet; mentre qualcuno pensa che proprio nel modello condivisivo della rete ci siano gli elementi fondanti di una nuova economia più ugualitaria (è il cosiddetto «peer progressivism» teorizzato dallo scrittore Steven Johnson). Altri studiosi, infine, sostengono addirittura che lo sviluppo tecnologico porterà a un positivo e radicale mutamento della stessa natura umana: sono i cosiddetti «transumanisti» o teorici della «singolarità» come Ray Kurzweil.

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Tutto questo, appunto, è oggetto di stimolanti discussioni intellettuali, utili in ogni caso a dotarsi degli strumenti per metabolizzare in maniera critica, quindi non passiva, la rivoluzione digitale.

Ma non è di simili aspetti che si occupa questo libro.

Che è invece un’inchiesta basata su casi molto concreti e su vicende realmente avvenute, talvolta anche minori, che tuttavia ci mostrano come la rete non sia il paradiso della libertà in terra anche per motivi molto più pratici e quotidiani di quelli su cui si anima la controversia teoretica. Ragioni connesse piuttosto con la pulsione quasi naturale di ogni establishment (politico ed economico) a conservare e ad estendere se stesso, a impedire ciò che viene visto come potenziale diminuzione del proprio potere o – semplicemente – rischiosa entropia.

Insomma, attorno alla rete – nel mondo, in Europa, in Italia – ci sono poteri talvolta sciocchi e talvolta raffinati che non si fanno troppe domande sulle contraddizioni della rivoluzione digitale, ma che semplicemente temono ciò che non avvertono come un loro dominio. E allora, in modo spesso silenzioso, l’effetto che ne deriva è quello del «meglio se taci»; o, magari, «meglio se non leggi e se non guardi»; o ancora «meglio se conosci meno cose», «meglio se conosci solo quelle che vogliamo noi», «meglio se possiamo incanalare ciò che leggi e filtrare ciò che scrivi».

Ed è appunto di questo «meglio se taci», assai meno raro e improvvisato di quanto sembri, che si occupa questo libro.

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2. UN’AUTORITÀ FUORI CONTROLLO

«Esistono molti modi diversi per bruciare un libro; e il mondo è pieno di gente che corre su e giù con i fiammiferi accesi» Ray Bradbury

Ci sono notizie talmente risapute che non sono più considerate tali: insomma «non fanno notizia». Ad esempio, quando nelle redazioni arriva un rapporto aggiornato sull’imbarazzante posizione dell’Italia nelle varie classifiche sulla velocità e sulla penetrazione della rete, di solito il caporedattore di turno sbuffa, guarda il soffitto e cestina. Da un punto di vista giornalistico, difficile sostenere che abbia torto: è «il cane che morde l’uomo», insomma una non-notizia; a stupirci, al contrario, sarebbe «l’uomo che morde il cane», ossia una classifica digitale in cui ci troviamo ben piazzati.

Quindi qui, purtroppo, saremo prevedibili: secondo l’ultimo rapporto Akamai sullo stato di Internet, il nostro Paese si trova al 41° posto al mondo per velocità della connessione misurata, penultimo per quanto riguarda gli Stati dell’Unione Europea, ultimo nel G8. La velocità stimata sulle connessioni degli utenti italiani è di 5,8 megabit al secondo, meno della metà rispetto al nord 10

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del Continente; per non dire della Svizzera, che con 14,9 megabit al secondo è il Paese europeo più veloce (restando in ambito Ue, il primo è l’Olanda con 14,3). Nel resto d’Europa si diffondono le connessioni in fibra da 30 megabit e quelle veloci su cavo coassiale, inesistenti da noi. E così via, non c’è bisogno di affondare ulteriormente il coltello: con buona pace delle pubblicità dei vari gestori telefonici, che promettono spesso velocità di navigazione supersoniche che sarebbero in grado di mantenere solo se tutta la città, eccetto quel loro singolo abbonato, contemporaneamente avesse i computer spenti.

Da quando hanno iniziato a circolare classifiche come queste (sempre simili tra loro), ne è scaturita una surreale discussione tra quanti ritengono che le infrastrutture digitali siano scadenti perché gli italiani vanno poco su Internet (quindi, ipotizzando che alla base ci sia una carenza di interesse, di domanda) e quanti pensano invece che gli italiani vadano poco in Internet perché le infrastrutture sono scadenti (quindi il problema sarebbe la poca offerta di banda, o meglio un’offerta di qualità troppo scarsa per invogliare alla navigazione). Ma si tratta di una controversia utile come quella sull’uovo e sulla gallina, dato che in generale ci si appassiona alla rete e se ne scoprono i vantaggi solo utilizzandola: nessuno viene al mondo con un impellente bisogno di navigare a 100 Mbps, ma se per scaricare un video ci si mettono tre ore è assai probabile che la sera dopo si preferisca stare davanti alla tivù.

Ad ogni modo, l’unica certezza in proposito è che davvero gli italiani vanno poco in Internet, sia questa una causa o un effetto: basta pensare che sono ancora più di un terzo (34%) i nostri con11

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nazionali che non hanno mai aperto un browser in vita loro. Di nuovo, siamo messi peggio perfino del Portogallo (che è al 33%), anche se, volendo, possiamo consolarci pensando alla Grecia (36) e alla Bulgaria (41). Poco confortante è invece il raffronto complessivo con le medie europee: ad esempio, soltanto il 56% degli italiani usa Internet ogni giorno, contro il 72 nel resto della Ue. E solo il 21% utilizza i servizi digitali offerti dalla pubblica amministrazione (quando esistono), a fronte di una media europea pari al 41; mentre siamo sotto del 30% rispetto alla media Ue, assieme a Romania e Bulgaria, se si guarda agli acquisti on line.

E siccome andiamo di rado in Internet noi, siamo convinti che la cosa interessi poco anche agli stranieri: sicché quasi metà degli alberghi italiani (il 46%) non offre alcun tipo di connettività dalla camera, né via cavo né wifi; in questo, a livello mondiale, siamo messi peggio perfino dell’Ucraina, della Bulgaria e della Turchia.

Un suicidio turistico e d’immagine, tra l’altro.

Quello che invece ci si può e ci si deve chiedere, con molte e buone ragioni, è se questa lentezza nel salire sul treno della rivoluzione tecnologica sia frutto soltanto di insipienza e di arretratezza culturale, di scarsa comprensione dei vantaggi complessivi che una comunità può trarre dalla propria digitalizzazione. Oppure se le cause non siano anche altre, magari mescolate alle prime: fatte cioè di interessi, di paure, di convenienze, di scarsa propensione a facilitare qualsiasi elemento di rottura dello status quo.

Il dubbio viene, ad esempio, perché a ben guardare non è del tutto vero che il nostro Paese è sempre ultimo quando si parla di Internet, digitale e tecnologia. C’è qualcosa in cui siamo primi in 12

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Europa e, forse, nel mondo. A garantirci questo record è il «Regolamento in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica» varato dall’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni (Agcom) il 12 dicembre 2013 ed entrato in vigore nella primavera del 2014.

Si tratta, infatti, del primo – e fin qui unico – provvedimento varato da «un’Autorità amministrativa semi indipendente» (la definizione è dell’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato) che attribuisce all’autorità medesima il potere di «ordinare la rimozione di qualsiasi contenuto pubblicato on line da chicchessia e in qualsivoglia contesto» o, addirittura, «di ordinare a tutti i fornitori di connettività di bloccare il traffico – limitatamente a quello proveniente dal nostro Paese – verso qualsivoglia pagina web o sito Internet».

Detta in altre parole, attraverso un regolamento (neanche una legge dello Stato!) si rende possibile l’oscuramento in Italia di pezzi della rete, senza un processo, un dibattimento, una decisione di un giudice terzo. È un monstrum giuridico che non si vedeva, nell’Europa civile, da parecchi anni; e che decisamente non sembra ispirato al principio della tripartizione dei poteri secondo il quale il Parlamento scrive le leggi, il governo ne garantisce l’attuazione e i giudici le applicano. Nel caso in questione, invece, l’Authority italiana per le comunicazioni si è fatta una e trina, decidendo di scrivere il regolamento (sostituendosi così al Parlamento), attuarlo (al posto del governo) e applicarne le disposizioni (così amministrando giustizia al posto dei magistrati).

Per capire meglio l’assurdità della cosa, bisogna ricordare brevemente che cos’è l’Agcom: istituita dalla legge Maccanico nel 1997, 13

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questa Autorità è composta da quattro persone (elette metà dalla Camera e metà dal Senato) più il presidente, scelto dal capo del governo d’intesa con il ministro per lo Sviluppo economico. Com’è quindi chiaro, si tratta di un organo di nomina politica, espressione diretta della maggioranza di governo del momento, talvolta in accordo consociativo con i partiti d’opposizione (anche se la durata settennale spesso rende quest’autorità più durevole dei suoi sponsor). Mentre scriviamo, ad esempio, il presidente Agcom è Angelo Maria Cardani, già docente alla Bocconi ed ex collaboratore di Mario Monti alla Ue, nominato all’Autorità quando era presidente del Consiglio proprio Monti: insomma, un montiano. I quattro commissari attuali, invece, sono Antonio Martusciello (ex dirigente di Forza Italia ed ex collaboratore di Silvio Berlusconi fin dai tempi della Fininvest); Francesco Posteraro (quota Udc, partito di cui era consigliere parlamentare fin dagli anni Ottanta); Antonio Preto (ex democristiano ed ex capo di gabinetto di Antonio Tajani, fedelissimo di Berlusconi e uomo di Forza Italia in Europa); Antonio Nicita, che invece è in quota centrosinistra (era membro della segreteria tecnica dell’allora ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni, tra il 2006 e il 2008, cioè durante l’ultimo governo Prodi; oggi Gentiloni è responsabile degli Esteri con Renzi).

Probabile che al prossimo giro gli equilibri cambino, dato che quelli attuali sono ancora il frutto della legislatura precedente dominata dal centrodestra, ma la lottizzazione partitica chiarisce bene la definizione dell’Agcom come «Autorità semi indipendente», dato che questa è composta da personalità che per curriculum, carriera e legami fanno parte a tutto tondo del mondo politico, anzi partitico; ciò nonostante, non sono eletti alla loro carica 14

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dai cittadini (come sono o dovrebbero essere i parlamentari); né, per contro, godono dell’autonomia di carriera e di autogoverno propria della magistratura.

Date queste premesse, si fa davvero fatica a capire come questo organo si sia potuto arrogare un potere così ampio e oltre ogni logica costituzionale come quello di rimuovere contenuti dalla rete Internet. Perché ciò che viene previsto dalla nuova disciplina è esattamente questo: il provvedimento, infatti, stabilisce che «il titolare dei diritti d’autore» su qualsiasi genere di opera (un articolo giornalistico, una foto, un video, un brano musicale, un disegno etc.) possa segnalare all’Agcom, semplicemente compilando un modulo on line, il presunto utilizzo illecito di un proprio contenuto fatto da qualcuno, in assenza di sua autorizzazione; l’Authority, ricevuta tale segnalazione, può quindi inoltrare al gestore del sito Internet (se identificabile) e ai fornitori di hosting e connettività la segnalazione medesima, chiedendo loro di «adeguarsi spontaneamente entro cinque giorni» alla richiesta di cancellazione del contenuto o di blocco dell’accesso. In caso di mancato adeguamento «spontaneo» (si fa per dire, dato che difficilmente qualcuno lascerebbe cadere un perentorio invito che arriva su carta intestata di un’autorità amministrativa dotata di straordinari poteri anche sanzionatori), l’Authority nelle settimane successive valuta la fondatezza della segnalazione ed eventualmente ordina al fornitore di hosting (se il sito è ospitato in Italia) o al fornitore di connettività (se il sito è ospitato all’estero o se attraverso il sito è posta in essere un’attività «massiva» di violazione dei diritti d’autore) di inibire l’accesso del pubblico all’intero sito che ospita il contenuto in questione. Proprio così: non si oscura solo il contenuto che contiene 15

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la presunta violazione di copyright, ma tutto il sito, compreso ciò che non c’entra nulla.

In questo modo, quindi, nello spazio di qualche settimana interi siti Internet possono diventare inaccessibili e centinaia di contenuti multimediali essere cancellati, per sempre, dallo spazio pubblico telematico: il tutto per decisione arbitraria di un’autorità sostanzialmente politica, con un procedimento sommario che si svolge fuori da ogni sede giurisdizionale, senza alcun contraddittorio con chi ha immesso on line il contenuto in questione e, pertanto, senza neppure l’apparenza di un «giusto processo». Un unicum nel suo genere in Italia e nel resto d’Europa.

Ma come si è arrivati a questo pasticcio? Il percorso è abbastanza strano. Infatti, nel marzo del 2012, poco prima di lasciare la sua carica, l’allora presidente di Agcom Corrado Calabrò si era presentato in Parlamento e aveva messo nero su bianco la sua convinzione che la materia fosse di competenza del legislatore se non addirittura dell’Unione europea o delle Nazioni unite: insomma sembrava cosciente del fatto che non si poteva ridurre una questione così importante (la libertà di circolazione di contenuti on line) all’interno di un semplice regolamento di un’autorità che si autoconferisce potere di censura. Queste le parole chiare e inequivocabili dell’ex presidente dell’Autorità, pronunciate davanti alle Commissioni cultura e lavori pubblici del Senato: «Ripensare sistematicamente alla disciplina del diritto d’autore nel mondo digitale è un compito che solo le Camere elettive possono intraprendere» e «dato che il diritto d’autore travalica le frontiere, la sede più appropriata per una tale normativa sarebbe quella euro16

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pea se non addirittura l’Onu». Ma Calabrò, nella stessa occasione, davanti al Senato, era andato anche oltre e si era detto consapevole che la sua Authority non poteva considerarsi titolare del potere di dettare norme in una materia tanto complessa e di così ampio respiro; sicché aveva perimetrato i propri ambiti in modo altrettanto inequivocabile: «Il nostro compito è quello di applicare le leggi vigenti. Ci rafforza in tale convincimento la norma di legge predisposta dalla presidenza del Consiglio che ribadisce la legittimazione dell’Agcom e ne definisce meglio la competenza e i poteri nella materia del diritto d’autore. Attenderemo che tale norma veda la luce prima di adottare il regolamento predisposto.

Nel segno della legge e con una sensibile e non banale apertura mentale, come sempre». All’epoca, il presidente dell’Agcom aveva evidentemente avuto il sentore che il governo stesse per varare una norma che «ratificasse» il potere di Agcom di varare il regolamento (a sua volta, peraltro, sostituendosi al Parlamento, secondo una prassi ormai tanto diffusa quanto discutibile).

Ma non basta; perché, pochi mesi dopo Angelo Marcello Cardani (successore di Calabrò alla presidenza Agcom) si era presentato a sua volta in Parlamento e, in un’audizione nel corso della quale aveva mostrato tanto equilibrio e buon senso da apparire quasi un marziano delle istituzioni, aveva rilasciato una serie di dichiarazioni che lasciavano sperare che l’Authority avesse compreso la complessità della situazione e i propri limiti di semplice autorità amministrativa. «Siamo convinti», aveva detto Cardani in quell’occasione, «che l’intervento dell’Autorità sia necessario per ottemperare alle previsioni legislative che individuano l’Autorità quale soggetto competente alla vigilanza al fine di prevenire e accertare le viola17

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zioni della legge sul diritto d’autore», ma «con il passare del tempo, le attese rispetto all’intervento dell’Agcom si sono accresciute, e la nuova consiliatura ha ritenuto opportuno riavviare il percorso interrotto al fine di valutare approfonditamente tutte le questioni giuridiche, economiche e tecniche. Naturalmente, qualora il Parlamento intervenisse ad adottare una riforma della legge numero 633 del 1941 che tutela il diritto d’autore per adeguarla alla nuova realtà tecnologica e di mercato, l’Autorità sarebbe lieta di cedere il passo e, ove previsto, conformare la propria azione alle norme dettate dal legislatore». In altre parole: caro Parlamento, le regole sul web le devi scrivere tu e noi ci adeguiamo per le technicalities.

L’intervento pieno di prudenza di Cardani era del 17 luglio 2013. Meno di sei mesi dopo, tuttavia, la brutta sorpresa: l’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni «preso atto del mancato intervento del Parlamento» – che in sei mesi non aveva mai varato alcuna legge – decideva infatti di adottare il regolamento attualmente in vigore, tradendo ogni promessa di equilibrio e di contemperamento dei contrapposti interessi.

Cosa è successo tra il 17 luglio e il 12 dicembre 2013? Probabilmente non lo sapremo mai davvero. Certo è però, tuttavia, che l’industria dei contenuti, preoccupata della cautela manifestata dal neopresidente dell’Autorità per le comunicazioni davanti al Parlamento, in quei mesi ha avviato e condotto una pressante azione di lobbing sull’Agcom con pochi precedenti nella storia italiana, tanto da riuscire a convincerla ad accelerare il passo e varare il regolamento.

In questo senso è curioso notare che poche settimane dopo l’entrata in vigore del nuovo regolamento (il 14 maggio 2014), l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, John Phillips, ha organizzato 18

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nella sua splendida residenza di Villa Taverna a Roma una festa con due ospiti di eccezione, tra i molti invitati: Angelo Marcello Cardani, presidente dell’Agcom, e Gino Paoli, presidente della Siae, la Società italiana autori ed editori. Ufficialmente la festa era stata organizzata per salutare l’uscita dell’Italia dalla «watch list» del governo statunitense, cioè l’elenco dei Paesi nei quali la pirateria digitale (soprattutto su musica e film) rappresenta un grave problema; ma il vero festeggiato nell’occasione sembrava essere proprio la neonata norma-bavaglio per la rete: «Con il nuovo regolamento dell’Agcom sulla tutela del diritto d’autore, l’Italia ha fatto passi avanti. È un plus: e questo potrà anche attirare nuovi investitori nel vostro Paese», ha dichiarato in quell’occasione l’ambasciatore Phillips, che spiegava poi come le società americane guardassero con sempre maggiore attenzione ai Paesi con «regole chiare in materia di proprietà intellettuale e in grado di difendere la loro creatività».

Nessun complottismo, certo. Tuttavia in questo caso è difficile, in coscienza, eliminare del tutto il dubbio che l’industria di Hollywood, grazie ai buoni uffici del governo statunitense, abbia avuto un ruolo significativo nell’indurre l’Autorità a un cambio repentino di atteggiamento e a passare dalla prudenza e l’equilibrio manifestati davanti al Parlamento all’autoritarismo che l’ha poi condotta ad approvare le nuove norme.

A questa stranezza si deve aggiungere il fatto che all’Agcom (chissà se per intima convinzione o ipocrita convenienza) continuano a raccontare che una delle peculiarità del loro nuovo regolamento è quella di «non incidere sugli utenti finali», giacché i destinatari dei provvedimenti di rimozione dei contenuti o di blocco di accesso alle pagine web e ai siti sono sempre e solo i for19

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nitori di hosting e i fornitori di connettività. Una tesi messa nero su bianco, nel comunicato stampa del 12 dicembre 2013, con il quale l’Autorità annunciava il varo del regolamento: «L’Agcom ha ritenuto proprio dovere contribuire all’azione di contrasto svolta dai pubblici poteri nei confronti della pirateria digitale. Il provvedimento assegna pertanto carattere prioritario alla lotta contro le violazioni massive e non riguarda gli utenti finali, per cui non incide in alcun modo sulla libertà della rete». Si tratta di una sesquipedale bugia: il provvedimento in questione infatti legittima l’autorità a ordinare a chiunque pubblichi un qualsiasi contenuto di cancellarlo o, addirittura, di disporre che i fornitori di accesso a Internet deviino il traffico degli utenti italiani diretto verso il contenuto in questione. In un caso e nell’altro, un post pubblicato su una piattaforma di blogging, un video caricato su una piattaforma user generated content o una fotografia postata su un social network possono divenire inaccessibili agli oltre due miliardi e mezzo di utenti della rete solo perché qualcuno ha soggettivamente ritenuto che sia stato violato il suo diritto d’autore e senza che il titolare del blog o sito sia nemmeno posto nella condizione di difendere la legittimità della sua pubblicazione. Come si fa, in un contesto di questo genere, a sostenere che il nuovo regolamento «non riguarda gli utenti finali»? I contenuti oggetto degli ordini di rimozione o di inibitoria all’accesso firmati Agcom sono proprio degli utenti che li hanno pubblicati e ai quali l’autorità non notifica neppure di aver avviato un procedimento che potrebbe condurre alla loro cancellazione. E se un sito viene oscurato è la libertà di manifestazione del pensiero di chi l’ha messo on line che viene compressa. È insomma fuori di dubbio che il regolamento Agcom riguarda 20

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anche, se non soprattutto, gli utenti finali: e ciò semplicemente perché riguarda i loro contenuti; contenuti che, a torto o a ragione, gli utenti stessi hanno ritenuto di condividere con il resto del mondo, esercitando uno dei principi fondamentali previsti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, secondo la quale – tra l’altro – già si prevedeva che eventuali limitazioni alla libertà di comunicare dovessero essere disposte per legge: mentre un regolamento di un’autorità amministrativa indipendente non può affidare alla stessa autorità il potere di comprimere l’altrui libertà di manifestazione del pensiero, all’esito di un procedimento sommario senza possibilità di difesa.

E mentre in Italia si attribuisce a un’autorità semipolitica il diritto di bloccare l’accesso a un sito senza contraddittorio né processo, in diversi Paesi del mondo si procede invece a velocità sempre maggiore verso l’accostamento tra diritti umani fondamentali e accesso al web: Internet cioè viene considerato un esercizio di libertà primario, di quelli che non possono essere piegati da nessuna esigenza politica. L’Estonia, ad esempio, si è data da tempo una legge in cui l’accesso alla rete viene definito «diritto dei cittadini» (e da allora questo piccolo Stato baltico supertecnologico è stato ironicamente soprannominato «e-stonia»); la Finlandia ha stabilito che la connessione dei suoi cittadini (a una velocità minima garantita di 100 Mbps) deve essere fornita a tutti, compresi quelli che abitano nei più sperduti villaggi artici; l’idea di fondo è stata fatta propria anche dal Parlamento europeo, quando nel maggio del 2009 ha stabilito tra l’altro che «non possono essere imposte limitazioni ai diritti e alle libertà fondamentali degli utenti di Internet». In Italia da anni 21

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il giurista Stefano Rodotà chiede che l’accesso a Internet venga inserito in Costituzione, in modo autonomo o come «allargamento» dell’attuale articolo 21. Invece da noi è arrivato il regolamento Agcom: con il quale un’autorità di cinque persone nominate dai partiti, al chiuso di un ufficio nel centro direzionale di Napoli, si autoarroga il diritto di oscurare pezzi di Internet.

Vedremo, nei prossimi mesi e nei prossimi anni, se e come questo infausto Regolamento verrà applicato. I primi segnali tuttavia non lasciano ben sperare: se è vero infatti che finora questa norma non è stata applicata contro siti politici o d’opinione, è anche vero che Agcom sembra essersi trasformata in una sorta di «poliziotto mondiale» agendo anche al di fuori dei confini italiani.

Dei circa 150 siti contro cui l’Autorità italiana si è mossa, infatti, diversi sono non solo stranieri (come l’inglese Watchserieshd.eu o Solarmovie.is che ha sede nel Belize) ma anche sconosciuti da noi: secondo le stime di Alexa.com, solo lo 0,6% del loro traffico proviene dall’Italia. Eppure, dopo aver ricevuto la lettera di diffida di Agcom, questi siti hanno rimosso i contenuti indicati, che quindi sono spariti da Internet. Perfino un sito russo e quindi in cirillico, Mp3lemon.net, è stato minacciato di provvedimenti e ha dovuto eliminare dei suoi contenuti. «Il sospetto è che attraverso Agcom l’Italia sia diventata uno strumento delle lobby americane, che possono così eliminare da Internet file utilizzati dal pubblico americano, aggirando le leggi Usa», dice Fulvio Sarzana, avvocato esperto di internet e tra gli avversari del regolamento Agcom.

Le major della musica e dei film infatti non sono mai riuscite a ottenere dal governo Usa una norma tanto severa come quella italiana, perché negli Stati Uniti è più forte la sensibilità verso 22

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la libertà della rete: solo in Italia un’Autorità di nomina politica si può autoassegnare il diritto di oscurare pezzi di Web senza un provvedimento giudiziario. La maggiore speranza di chi si occupa di libertà del web, oggi, è quindi che sia la Consulta a far fuori questo Regolamento, dopo che il Tar del Lazio ha deciso che non sono infondati i dubbi di costituzionalità proposti in quella sede da alcune associazioni come Altroconsumo e Open Media Coalition. Tuttavia la norma adesso è in vigore, a tutti gli effetti.

Ecco: il nostro divide dal resto del mondo è fatto certamente di banda non abbastanza larga, di pochi punti Wi-Fi, di scarsa penetrazione della rete nelle abitudini sociali, di una pubblica amministrazione digitale zoppicante: ma forse è fatto anche, se non soprattutto, di decisioni come queste, che rivelano come nelle istituzioni purtroppo prevalga spesso una radicata subcultura nemica della libertà in rete.

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