Metropoli

UNO

L’uomo uscì dal bosco lasciando alle spalle l’ultimo brandello di natura, pochi appezzamenti di terra nera, oleosa, un manto lunare coperto da alberi che avevano resistito ad anni ormai privi di stagioni. Arrivò al centro di una pianura aperta, spazzata dal vento, occupata da chiazze di neve piena di cenere. Tutto attorno, quel che restava, rare costruzioni, case dai muri crepati, reticoli di strade sventrate, piazze d’asfalto divelto, era andato bruciato dalla pioggia acida, dall’aria di ghiaccio, dall’abbandono. Nemmeno le sterpaglie e i rovi avevano avuto la forza di riprendersi quei luoghi. Il grigio e il freddo formavano un inverno senza fine. L’inverno dell’umanità, lo chiamavano.

Giorno dopo giorno, camminava dalle prime luci del mattino all’avvento della notte profonda, senza sosta, trascinando il corpo stanco, un passo dopo l’altro, piegato nonostante la giovane età. Unicamente col buio poteva fermarsi, sotto il cielo senza alcuna stella, nascosto ai bordi delle strade, come un animale che respira lentamente, sopravvissuto alla mattanza. Non ricordava con precisione quanti anni avesse, forse trenta o qualcuno di più. Il volto nascosto dalla barba e dai lunghi capelli portava i lividi del tempo. Minuti non più appartenenti agli uomini, decenni del tutto scollegati dalla realtà. Viveva in un’era mutata, che non conosceva, ancora.

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Pestando il suolo duro, lucido come grafite, fissava gli scarponi consumati, lacerati ai lati, tenuti assieme da pezzi di spago.

«Se si aprono crepo. Senza scarpe si muore», continuava a ripetersi.

Si voltò a osservare le decine di abeti bianchi, alti, maestosi, resistenti, scrutò quelle cortecce pallide, definitivi simboli di un ambiente estinto. Rimase immobile, a denti stretti e labbra chiuse, avvolto dall’aria gelida, lui, unico essere in mezzo alla valle bruciata. La pioggia da due ore scendeva sul mondo più calma. Tenne gli occhi fermi sulle punte dei rami, ancorati a guardare il principio del cielo.

«Se ci sei, se sei onnipotente, se sei stato tu a creare ciò, abbi il coraggio di porre termine al tuo disegno e annienta tutto e tutti, ora.»

Gli occhi calarono dal grigio immenso e vuoto e si poggiarono sulla spianata di fango. L’uomo sapeva di aver visto per l’ultima volta il bosco, quella parte di cielo e il silenzio di Dio. La lingua di terra stava lì, da millenni, esposta alle intemperie, sospesa nel vuoto.

Niente era riuscito a eroderla, né il vento colmo di neve che scendeva dalle montagne a nord né la pioggia di cenere che precipitava dalle nubi.

La valle era immersa nell’oblio.

Sopra quella regione, oltre le basse colline, dietro i tronchi inceneriti, all’interno delle grotte, non si udiva alcuna voce, non si alzava alcun respiro, non c’era niente di vivo in quell’innaturale, primitivo, deserto di pietra battuto dalla pioggia.

Se fossero ancora esistite le regole del tempo, quello sa12

rebbe stato l’Anno Solare o, come azzardavano nel passato i folli, l’Anno del Signore Duemilatrentacinque. L’uomo invece sapeva perfettamente che quello era un qualsiasi giorno dell’anno Zeronove dal Crollo Produttivo. Nulla dell’organizzazione sociale precedente era rimasto tale, né gli stati, né le industrie, né le strutture politiche, né gli eserciti e tanto meno le geografie. Più la povertà divorava i corpi umani, più le regole implodevano, lasciando sul fango ammassi di cadaveri a testimoniare la venuta del nuovo ordine: la fine.

Alla scomparsa della Storia precedente una Storia inedita aveva inaugurato l’alba dell’umanità sopravvissuta. Racconti, voci, ricordi, ciò che era, ciò che sarebbe accaduto, le parole non determinavano più niente della vita umana. Tutto era stato azzerato. Tutto, quindi, era possibile.

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DUE

Camminava come sempre in completa solitudine, osservando l’oblio che lo circondava. Era assorto, ascoltava il sibilo del vento glaciale. Il movimento della carne, il calore del corpo, sopravvivere era il solo obiettivo dell’uomo. Nessun pensiero sembrava avere più valore.

Ai lati della strada, dall’asfalto sgretolato, si innalzavano dei palazzi. Ammassi di costruzioni decadenti, larghe e alte decine di metri, sprofondate nel terreno putrido, parevano dover implodere da un istante all’altro. Erano nel loro aspetto scheletrico, morto, l’immagine dell’abbandono repentino, della fuga di massa da un luogo divenuto d’un tratto inospitale. Alcuni isolati oltre, pressati gli uni sugli altri, nascosti da arbusti spogli e mura spaccate, scrostate, resistevano gruppi di silenziosi capannoni di cemento armato, abbandonati anch’essi dagli uomini in fuga. Sui tetti portavano le scritte ancora leggibili di ciò che producevano: Fabbricazioni Metalliche, Lavorazioni Legnami, Fusioni Plastiche, Autotrasporti Internazionali, Salone Automobili, Siderurgia Acciai, Produzioni Vetri Infrangibili, Automazioni Meccaniche e in mezzo, solitario più d’ogni altro luogo, un McDonald’s dalle vetrine sporche di fango e cenere venuta dal cielo, con i giochi e il grande scivolo rovesciati sul piazzale, scoloriti, rotti.

Si fermò, controllò per l’ennesima volta le scarpe: la suola 14

destra si era aperta ancora di più, la schiuma che affiorava dal fango era penetrata, il piede cominciava a gelare. Doveva affrettarsi. Sollevò il volto verso il grigio interminabile del cielo che scendeva sul grigio smisurato della terra, si sentì tutt’uno col mondo che lo circondava, sfinito, incurvato, a pezzi. Aveva corso per anni, aveva affrontato il caldo estremo e il gelo violento, la fame e la sete. Era sopravvissuto con ciò che aveva trovato lungo il tragitto, la poca erba commestibile dei campi, l’acqua piovana dei ruscelli quasi secchi, la neve raccolta negli anfratti incontaminati, vicino alle pietre, sotto i rari abeti e pini, piccoli animali scampati alla caccia totale, scarti di cibo recuperati nelle credenze ormai marce di case disabitate e a volte, raramente, con qualche micropasto proteico dei vecchi eserciti, anch’essi dissolti. Quei pacchetti di carne liofilizzata erano la cosa migliore rimasta sul pianeta Terra. Non c’era più tempo per il cibo, per parlare di cibo, per preparare il cibo, per apprezzare il cibo.

Usanze del mondo dimenticato. Ormai si pensava unicamente ad arrivare al giorno dopo e a quello dopo ancora, cibandosi di qualsiasi cosa viva e che non fosse del tutto colma di veleno.

Riprese ad avanzare.

Guardò la palla incolore che compariva e svaniva dietro la foschia: il sole artico del mondo pietrificato. Fece ancora un passo, raggiunse il principio del dirupo; tutti sapevano che oltre quelle nuvole nere e al termine della valle si innalzava lei, l’approdo. Nei pochi giorni di cielo chiaro, da quel punto sopraelevato, era visibile nella sua immensità anche a occhio nudo. Chi l’aveva vista diceva che era tanto vasta da coprire l’orizzonte. «È come un mostro dei mari, ha tentacoli aggrappati al 15

suolo», gli aveva confidato un uomo scheletrico, incrociato anni prima, in mezzo a una tempesta di sabbia.

«Pare un colosso di ferro, migliaia di lame salite dal sottosuolo», aveva sentito dire da una donna mentre chiudeva gli occhi e lasciava andare il respiro, stesa su un lenzuolo insanguinato.

«Ci sono i buoni là dentro e chi la raggiunge è salvo, quando la guardi fa paura, ma io voglio andarci, tutti dobbiamo andarci», gli urlò un ragazzo, come lui disperso in mare, aggrappati al legno di una barca.

Camminò ancora per diversi chilometri verso sud. D’un tratto gli occhi misero a fuoco l’essere smisurato, privo di ogni forma definita e all’apparenza statico, metallico, nero più della notte e come il cielo costellato di luci. Era lì come promesso: Metropoli.

La vide delinearsi, crescere a ogni metro, immersa nella foschia della valle. Da lontano, Metropoli non aveva confini. Il corpo delle industrie, quello delle abitazioni, le nervature delle strade, tutto sfumava annullandosi verso qualcosa dalle sembianze dell’infinito. Ma niente era infinito, aveva compreso l’uomo nel suo incessante viaggio, non lo era la vita, non lo erano i confini.

«Solo una cosa è infinita», gli disse un sopravvissuto molti anni prima, «la paura, non finisce mai.» E quella frase, tra il silenzio che lo avvolgeva, era l’unica cosa reale che gli restava e che forse poteva aiutarlo.

Di Metropoli si sapeva tutto. Come una Arcadia attuale, come una Fenice universale, la città cresceva nelle menti di ognuno. Era nata tra mura infrangibili, alte ventisette metri e spesse cinque, che erano l’opera più poderosa e fondamentale costruita dal Crollo Produttivo in poi, e con esse le Industrie delle Zone Lavoro, i Palazzi del Popolo, le Zone 16

Svago, le arterie viarie sopraelevate. Era un ammasso verticale esploso dalle viscere terrestri, fuoco dal fango, ferro dalla pietra, vetro dalla sabbia. Niente l’aveva eguagliata nella storia dell’umanità e alcunché l’avrebbe potuta scalfire in futuro. A lei milioni di corpi donavano la carne, da sempre, per sempre. Era metallo, era vetro, era cemento, era l’avvenire. Metropoli era la Vita. Così recitava il verbo, diffuso ovunque come richiamo.

Agli occhi e all’anima dell’uomo bastò un istante per comprendere di essere dinnanzi a un essere vivente, in continua mutazione; luogo di sopravvivenza di quella che gli esseri umani si sforzavano a chiamare Civiltà. Ne ebbe terrore. Ma era meglio il terrore del nulla.

Il lungo cammino era concluso. Di quell’immane attraversata gli erano rimasti addosso segni incancellabili, lividi sulla pelle, fame nello stomaco, tensione nei nervi, angoscia nell’animo. Ma non era il momento di ricordare.

Lo attendeva un ulteriore inizio.

Si bloccò a tre passi dall’altissima porta d’acciaio. Le mani afferrarono un pesante cilindro, lo sollevarono e lo fecero cadere. La porta vibrò.

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TRE

Un bagliore pallido, freddo, uscì dalla fessura che lentamente si allargava con l’aprirsi della maestosa porta metallica. L’uomo rimase in attesa, le labbra serrate, come a contenere lo stupore dinnanzi a quella visione mistica e assieme concreta, vera. Le mura stavano spalancando la propria bocca, la vivida luminosità era il benvenuto nel fondo dell’essere dalle incalcolabili forme e dall’unica struttura.

Furono attimi senza termine, in cui pensò alla propria vita.

Gli tornarono alla mente i pochi, chiari, frammenti di una vita lontana, irrecuperabile; la terra che dava frutti, i fiumi che portavano acqua, la notte che donava riposo, il giorno che creava calore, le città che assicuravano asilo agli uomini: tutto cancellato. Ciò che stava accadendo in quell’intaccabile presente, lì davanti ai suoi occhi, al principio del nuovo mondo, andava oltre il pensiero, oltrepassava ogni dubbio, escludeva i ricordi. Era l’inizio di un sistema sconosciuto e di un altro avvenire. Pensò al futuro come a qualcosa di possibile. Si sentì parte di un organismo inedito ed enorme che in quella luce trovava luogo e dimora.

L’effetto principale del Crollo Produttivo era la condizione di costante, insuperabile, granitico, perenne presente. Non vi erano ricordi, né spazio per i sogni. Inesistente la speranza. Metropoli era tutto.

Il rumore meccanico cessò. Il riflesso irreale del sole, 18

allargandosi nel vento tagliente, aveva avvolto l’uomo. La porta era aperta.

Osservò le distese di abitazioni, tutte identiche, che formavano le viscere dei quartieri.

Dietro i vetri sporchi delle innumerevoli finestre si spostavano corpi, si affacciavano volti, occhi su occhi lo stavano scrutando. Metropoli, per ciò che restava degli esseri viventi del mondo esterno, donne non più femmine, uomini non più maschi, bambini non più fanciulli, e animali già trasformati in errori evolutivi, era il solo sistema abitato nato dopo la Fine Generale. Il definitivo porto dei sopravvissuti.

Nel mondo passato le dimensioni delle città ne decretavano il potere e l’attrattiva, più grandi erano, più frequentate e caotiche risultavano, più persone ne volevano fare parte. Gli esseri umani, come gli animali, lungo la storia si erano sempre mossi per gruppi, anche enormi, composti da milioni di individui, nella convinzione di riuscire a difendersi restando gli uni vicini agli altri; un retaggio antico, primordiale, derivante dall’alba della civiltà; nemmeno la scienza era riuscita a sradicare la predisposizione all’aggregazione, pur dimostrando che la vicinanza e il contatto dei corpi e delle idee era la prima fonte, forse l’unica, di conflitto. Le ultrapopolate civiltà nei secoli erano divenute centri di ampio potere politico, economico, finanziario, produttivo, ma erano anche state il luogo di ogni malessere intimo. L’essere umano, tra le strade delle grandi capitali, viveva fisicamente, ma moriva spiritualmente, anima dopo anima, fino all’estinzione di ogni sentimento e pensiero recondito, privato.

A Metropoli, i superstiti, come vivevano?

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Due sagome poderose, uscite come statue di cemento umano dal cemento armato delle mura, inflessibili e orgogliose, spaccarono il fascio luminoso che inondava l’uomo.

Le pupille subito si abituarono alla penombra; il buio, il grigio, il cielo opaco, il sole consumato erano la loro condizione naturale, da anni. Vide avvicinarsi a grandi falcate i due corpi possenti, nessun rumore si sentiva, parevano volare sul suolo di fango, avvolti in lunghi cappotti scuri. Attorno ogni materia portava lo stesso grigiore, che tutto accettava, inglobava e annientava; nell’aria si duplicava il medesimo suono, canto funebre proveniente dal collasso della Terra, ogni cellula dell’ambiente incuteva la totale, arcaica, antichissima sensazione di smarrimento. Era al cospetto dell’essere rinato: la città che divora e riproduce.

All’altezza del petto i cappotti delle guardie avevano incisa la scritta rossa: «Polizia Finanziaria». Occhi vitrei, statici, del medesimo colore del cielo, riempivano i grossi volti dalle mascelle quadrate. Non parlarono, non fecero un passo oltre la riga bianca segnata con calce sulla superficie ghiacciata, confine estremo e invalicabile della sola società possibile. La guardia di destra porse un foglio di carta spessa.

Le mani dell’uomo, gelide, tagliate, gonfie e contratte, tremando lo afferrarono e lo aprirono. Sulle parole stampate in rosso caddero alcune gocce. Il cielo continuava senza sosta a invadere il mondo, istante dopo istante, giorno dopo giorno, da anni. Niente attorno a loro si muoveva, il vento si era placato. Sostavano in una dimensione all’apparenza irreale. Iniziò a leggere.

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Documento Regole Metropoli è il presente.

Metropoli è il futuro.

Non chieda l’uomo cosa Metropoli può fare per la sua vita, ma si chieda l’uomo cosa egli può fare per la crescita di Metropoli.

Fase 1. Zona Produzione Ferro.

Fase 2. Zona Produzione Vetro e Legno.

Fase 3. Zona Produzione Plastica.

Fase 4. Zona Produzione Cemento.

Fase 5. Zona Produzione Macellazione.

Luogo 1. Zona Residenza del Popolo, maschile.

Luogo 2. Zona Residenza del Popolo, femminile.

Luogo 3. Zona Crescita Neonati e Bambini.

Luogo 4. Zona Svago.

Ogni uomo e donna di Metropoli è chiamato a contribuire alle fasi del Sistema, in base alle Regole attribuite.

Metropoli ora conta 5.937.177 cittadini internati. Benvenuto a Metropoli.

Metropoli è il lavoro.

Metropoli siamo noi.

Le dita doloranti tenevano steso il foglio. La pioggia si era fatta insistente, batteva sulla carta e sulla pelle. L’uomo fermò lo sguardo sulle fibre della pagina, sembravano sciogliersi al contatto, come a cercare riparo nelle rughe delle mani. Tutto tentava di divenire tutto, per annientarsi, perdersi e salvarsi svanendo. Alzò gli occhi, si voltò a destra e a 21

sinistra; il silenzio, il freddo, l’inesauribile inverno del pianeta erano la condizione rimasta al di fuori delle alte mura.

Fissò nuovamente le parole in rosso, ordini di una vita futura, l’anima e il corpo erano attesi da una realtà sconosciuta.

Guardò ancora la striscia di calce bianca consumata dalla pioggia.

Piegò il foglio in quattro, lo mise in tasca ed entrò superando il confine.

Divenne il cittadino numero 5.937.178 di Metropoli.

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QUATTRO

L’uomo abbassò la testa, quasi a rendere tributo alla terra, fece i primi passi in quel mondo inesplorato, da tempo cercato, atteso e divenuto definitivo. Le guardie lo accompagnarono per un breve tragitto, lungo la Via Principale Accettazione Sopravvissuti.

Si fermarono davanti a un caseggiato dello stesso colore del cielo e della pietra terrestre, vasto e tetro come ogni altra struttura lì attorno.

«Vada, la attendono.»

«Sì», ebbe solo la forza di rispondere.

La Stanza Raccolta conteneva già diverse decine di sopravvissuti, sporchi, alcuni giovani, altri all’apparenza vecchi, o forse erano i corpi consunti a renderli ormai dei semivivi, dal primo all’ultimo tremavano, stavano curvi, raggomitolati, nel tentativo di salvare la poca vita rimasta, difendendosi da ciò che avevano visto, toccato, sentito, sofferto, vissuto. Si proteggevano innanzitutto da ciò che restava della loro stessa esistenza.

Si sedette all’angolo tra due pareti umide, fredde. Oltre la stanza se ne apriva una seconda e ancora oltre una terza e di seguito una quarta, erano tutte invase.

Vedeva corpi alzarsi, tremare violentemente, in tre vomitavano bava biancastra rotta da filamenti violacei di sangue rappreso, certi crollavano sul pavimento dopo aver fatto 23

solo alcuni metri, venivano tirati su a fatica, altri restavano lì, si irrigidivano e raffreddavano subito. Chi trovava le ultime energie oltrepassava il corridoio per affrontare qualcosa o qualcuno. Dal suo posto, l’uomo poteva unicamente aspettare.

Poi toccò a lui.

Si alzò e andò verso il proprio destino.

«Venga avanti. Oggi siete già arrivati in centotrentadue e la fila non smette di crescere. Di giorno in giorno, dal primo momento, siamo in costante aumento», disse una voce calma, quasi dolce, dal limite della stanza.

«Eccomi, io sono uno dei tanti.»

«Sì. Ma pochi di voi resistono. I più giungono quasi morti.»

«E voi salvate tutti.»

«Metropoli accetta, educa e salva. Chi muore non muore realmente, qui. Avrà modo di vedere. Metropoli cresce sempre. E gli internati con essa. Noi, tutti noi, siamo Metropoli.»

L’uomo ispezionò l’ambiente: sui muri della Stanza Accettazione c’erano disegnate le antiche stagioni del pianeta.

Sulla parete di destra, su sfondo giallo, luminoso, ammassi di fiori e di alberi si alternavano formando un prato splendente, vivo, sopra il prato a caratteri cubitali avevano scritto «Primavera».

Sul muro alle sue spalle un sole caldo, rosso, al tramonto su un cielo limpidissimo emetteva il proprio calore avvolgendo una distesa piana, liscia, fertile, in tono ancora più intenso campeggiava l’enorme parola «Estate».

A sinistra, per tutta la lunghezza della parete, moltitudini di foglie grossolane, gialle, marroni, componevano una distesa uniforme a sostegno di una scritta scura, sovrapposta al cielo limpido, «Autunno».

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E infine, dietro la scrivania di quell’individuo minuto di statura, stranamente calmo, l’intero muro rappresentava un panorama polare, l’estensione incontenibile dei ghiacci, posti sotto una nevicata fitta che formava, in modo del tutto artificiale, la scritta «Inverno».

Rimase fermo, in piedi, a esaminare i colori di quel mondo estinto, definitivamente superato. Le tonalità luminose lo abbagliavano, gli occhi faticavano ad assorbire così tante sfumature. Pensò che gli esseri umani potevano abituarsi davvero a tutto, a perdere ogni riferimento come a ritrovarlo. Fuori da quella microscopica realtà viveva un immenso grigiore, in tutto il pianeta; lì, invece, in qualche decina di metri, esplodeva ogni stagione. Si sentì mancare, vacillò sulle gambe, poi fissò un punto bianco e luminoso nel disegno di fronte, tra le distese di ghiaccio, così da recuperare l’equilibrio. Respirò a pieni polmoni, aprendo ancor di più gli occhi.

«Le piacciono?»

«Non lo so.»

«I sopravvissuti amano le antiche stagioni. Tornerà tutto esattamente così. Metropoli ha come compito la vostra accoglienza e sopravvivenza. Siamo il futuro. E nel futuro rifonderemo i cicli naturali del pianeta. Guardi quanta immane bellezza, la natura.»

«Io cosa dovrò fare?»

«Ogni internato ha come compito la continuazione della propria vita in funzione della vita della città. Per questo ogni internato avrà cibo, alloggio, protezione, lavoro. Ogni internato avrà un avvenire. Metropoli chiede questo: dovete vivere. Ora deve scegliere: o resta o restituisce il Documento Regole e tornerà nel nulla.»

«Voglio restare.»

«Ovviamente. Come tutti.»

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