CAFFÈ VISHNU
Federica si recò all’appuntamento con la persona che aveva accettato di acquistarle l’anima: entrò nella saletta male illuminata del Caffè Vishnu, e al tizio che metteva le arance in uno spremitore mastodontico chiese cortesemente: «conosce il signor Mehta?» Lui le fece segno col mento di guardare là in fondo, e Federica si sentì svenire. Ebbe la tentazione di fuggire. Sotto una lampada, nel buio cavernoso del locale, le parve di riconoscere il profilo di Isidoro. Trattenne il respiro, rimase un istante immobile, ma prima che lei si allontanasse, lui si voltò. Si alzò e andò verso di lei protendendo la mano. «Sono sicuro che lei è la signorina Federica Vitale. Non ci siamo mai visti ma ho l’impressione di conoscerla da sempre.» Federica si rilassò. Aveva una voce ben più profonda di quella sottile e tremula di suo padre. Anche il colore dei capelli e la forma del naso erano diversi. E l’altezza. Isidoro era alto qualche centimetro più di Simon, che era, però, più robusto, più maschio. «Conosco il suo curriculum signorina», le disse sedendosi, mentre un po’ timorosa Federica si sedeva di fronte a lui, «so che lei ha studiato cose molto interessanti e ha scritto cose che mi piacerebbe approfondire… so molto di lei. Non si spaventi, non sono una spia. Lei ha tutte le caratteristiche che ci occorrono…»
Accucciato sotto la sedia su cui sedeva Simon, o, piuttosto, allungato in tutta la sua lucentezza nera, un animale più simile al lupo che al cane osservava la nuova venuta. Federica se ne accorse soltanto in questo istante, e lo sguardo che la fissava dal buio le fece paura. Simon allungò una mano per accarezzare il dorso lucente dell’animale e con premura le chiese: «ha paura dei cani?» Federica scosse la testa: «Al contrario, li adoro». «Minosse sa comportarsi come un vero gentiluomo, se questo può bastarle, ma se occorre lo leghiamo in cantina.» Minosse sorrise, orribilmente, e ringhiò. Simon Mehta alzò lo sguardo con un sorriso mellifluo, accarezzandosi con l’indice il labbro inferiore. «Torniamo a noi, signorina. Ho portato i documenti per la cessione della sua anima, come avevamo stabilito. La disturbo se fumo?…» Si accese un sigarillo dall’intenso profumo di bosco, quindi estrasse un foglio dalla borsa appoggiata sul tavolo. «Questo è il contratto, lo legga con attenzione.» E le porse una penna che Federica tenne in mano a mezz’aria mentre leggeva quelle clausole senza capo né coda. Un intenso profumo dolciastro proveniva da quell’uomo. Occhi verdi cerchiati di nero. Federica firmò dopo aver letto che l’agenzia Mehta acquistava tutti i diritti sulla sua anima per la durata di tre mesi non rinnovabili. Di comune accordo. Restituì la penna cercando di tenere gli occhi fissi negli occhi di lui. «E adesso?» chiese dopo aver firmato. «Adesso cosa?» «Adesso cosa devo fare?» Mehta fece spallucce e allargò le braccia. «Nulla. Faccia pure quel che preferisce, signorina. Le abbiamo riservato
una camera molto luminosa, qui, nel nostro residence, non le chiediamo di fare nulla, la sua firma ci basta.» Versò un sorso di liquore verde nei due bicchieri. Federica bevve. Chiuse gli occhi e sospirò profondamente come Indra nell’istante in cui si addormenta, e il mondo prende forma dalla sua incoscienza.
RIZATRIPTAN
Isidoro Vitale si svegliò con un terribile mal di testa. Ne soffriva da decenni, ma negli ultimi tempi gli attacchi si erano fatti sempre più frequenti. Si svegliava così, con un intenso dolore alle tempie che gli impediva quasi di respirare. Per fortuna quella mattina poteva restare a letto. Non doveva, come gli altri giorni, alzarsi in fretta e precipitarsi a scuola per confondersi con il nugolo vociante di alieni. Rimase disteso, allora, immobile, con gli occhi socchiusi cercando di respirare profondamente, in attesa che il dolore rifluisse lentamente giù dalle tempie dietro le orecchie, sul collo, fino a sciogliersi. Lentamente, lentamente. Solo chiudere gli occhi, inspirare ed espirare con regolarità, ingoiare una compressa di rizatriptan e aspettare che il male si attenuasse. Attese a lungo che il farmaco facesse il suo effetto, attese che la pressione alle tempie diminuisse, a occhi chiusi guardò nei profondi recessi della circolazione sanguigna, verso le zone sofferenti del suo cervello, partecipò silenziosamente al lento lavoro di decongestione. Immaginava molecole di rizatriptan insinuarsi furtivamente nei cunicoli venosi e inscenare una danza leggiadra per convincere i neuroni a rilassarsi. Durante queste crisi di emicrania, che arrivavano specialmente la mattina, il corpo era quasi paralizzato. I movimenti divenivano lenti e penosi, ma Isidoro non smetteva
di pensare. Il pensiero si organizzava in forma di loop. «Il cerchio non si chiude» si diceva mentre sullo schermo interiore della sua mente si proiettava sempre lo stesso film. Una scena d’infanzia, quando andava al mare coi genitori, bambino filiforme con le gambe ossute come lunghi stecchi di legno. E sullo sfondo il mare nero la sabbia bianca e tutto il resto grigio. Un guizzo associativo collegava questa scena a un’altra, incastonatasi nella sua memoria dopo la visita a un museo del nord. Una goccia cade ritmicamente da un rubinetto sulla pelle tesa di un tamburo, il suono enormemente amplificato. La goccia ingrandita cento volte su uno schermo scende dal pertugio metallico del rubinetto, e vibra ingrossandosi e trema e si allunga e si lacera cadendo infine col rumore di un tuono. Poi lo sguardo di Federica, l’ultima volta che si erano visti, invadeva la sua mente come inchiostro scuro. L’ultima volta, quando gli aveva parlato di quell’oggetto misterioso dal nome quasi impronunciabile che le era stato rivelato nei pressi di una tomba dalle parti di Hierve el Agua. Allora il dolore scemava, il respiro si faceva più rilassato e Isidoro poteva muoversi e riprendere la sua vita normale. Era ormai mattina inoltrata, quando decise di alzarsi. Preparò un caffè e lo sorseggiò lentamente, poi, massaggiandosi la faccia con la schiuma da barba, si guardò allo specchio: la curva stanca delle gote cadenti, la tristezza irreversibile degli occhi, la luce che si spegne e i capelli sempre più radi e sottili sulla testa. Isidoro Vitale era stato un uomo di raffinata bellezza. Gli era mancata l’energia per essere un seduttore avventuroso, e infine la sua bellezza aveva iniziato a sfiorire, trascinandosi da un decennio all’altro senza mai scomparire del tutto. E lui continuava a spiarla, questa sua estenuata bellezza, come
si guarda un bene che deteriora senza dare alcun frutto. Guardò l’ora e fu preso da un’ansia frettolosa, come se ci fosse qualcuno ad aspettarlo. Ma non lo aspettava nessuno. In un luogo della pianura il cui nome non vogliamo ricordare, non molto tempo fa si trovava un borgo quasi antico, con edifici dai mattoni rossi. Nel mezzo una piazzetta con un caffè dove all’ora del tramonto si davano appuntamento gli anziani del quartiere per commentare gli eventi e attendere la sera. Tutto questo non esiste più, naturalmente. I piccoli edifici ottocenteschi sono stati abbattuti e la piazza scomparsa con loro, per far posto al centro commerciale Borgosano. All’interno del centro commerciale hanno ricostruito la piazzetta sotto cupole azzurrate di materiale sintetico componibile. Poco distante, ci sono le casse dell’ipermercato e coppie ineleganti dall’aria trafelata che fanno la fila per pagare il conto. Davanti all’entrata un vasto parcheggio chiuso da un lungo pannello pubblicitario. L’edificio ottagonale in finto marmo screziato, vetrate nere, tiranti di acciaio che disegnano ampie diagonali intrecciate in alto, dove la cupola di plexiglas è abbagliata da trecentoquaranta lampade. Le pareti sono dipinte con allegri colori pastello. E musica anestetica come una doccia tiepida piove da qualche punto nascosto dello spazio. I vecchi del quartiere continuano a ritrovarsi qui per effetto dell’irresistibile attrazione dei luoghi, come uccelli che tornano sempre anche quando il loro nido non c’è più. Laddove un tempo c’era stato un borgo in cui la sera sciamavano immusoniti operai di ritorno dalle fabbriche meccaniche dell’estrema periferia, ora ci sono migliaia di
scaffali di metallo arancione e blu cobalto e una caffetteria col bancone di alluminio verde e tavoli e sedie di plastica dura. Al centro di quella che un tempo era stata la piccola piazza, adesso c’è un fast food per i clienti dell’ipermercato, e il Paradise bar, parete di fondo celeste con nuvolette dipinte di bianco e due angeli paffutelli che reclamizzano una marca di caffè. La casa in cui vive Isidoro sta poco lontano dal centro commerciale Borgosano. Perciò lui viene abitualmente la mattina per sedersi a un tavolo a fare colazione. In uno schermo rettangolare si susseguono e si miscelano mandala rilassanti dell’Inside, flussi videoliquidi, cantanti lamentose che sporgono in avanti le gonfie labbra siliconate martoriate di rossoviolanero. Tutt’intorno, un ronzante via vai di rabbiosi facchini che scaricano merci. Frequentatori del posto che Isidoro conosce da decenni passano a salutarlo. Si scambiano poche parole, si ascolta in silenzio il rumore della cittadella artificiale. Federico Beliz è un ospite fisso del Paradise bar. Isidoro ricorda di averlo visto seduto sulle panche di legno che arredavano il vecchio caffè. Un tempo viaggiatore e avventuriero, quel vecchio signore brasiliano con un patetico codino di capelli bianco-gialli ora appare un po’ incongruo su quella sedia di plastica. E in mente gli tornano i versi che da giovane si ripeteva spesso: «siamo gli uomini vuoti, siamo gli uomini impagliati, appoggiati gli uni agli altri, le teste piene di stoppa… e come spaventapasseri patetici ridicoli sinistri a volte, animati da un maleficio continuiamo a stare piantati, di sbieco, in campi aridi che nessuno visita più».
MARTINA
Isidoro osservava distratto il simbolo olografico della Ma¯ya¯ Unlimited sul pannello pubblicitario che si stagliava sul fondo lontano dell’ipermercato: un ragno verdescuro muove lentamente le sue lunghe zampe sintetiche di colore cangiante, secernendo una bava d’argento che si diffonde sul mondo. Quelle zampette pelose lo avevano quasi ipnotizzato. Immobile, trasognato, dimentico del flusso. Una donna entrò nel suo campo visivo. La guardò interrogativo, trattenendo il respiro. Puntò le mani sui braccioli della sedia, si dondolò leggermente in avanti indeciso se alzarsi e andarle incontro o attendere ancora un istante. Sapeva di conoscerla, ma non la riconosceva. Una bruma luminescente circondava il ricordo. Martina? Non può essere vero, sono passati vent’anni da quando ha abbandonato la Pianura. Timidezza, indecisione e un leggero tremore lo incollarono alla sedia troppo a lungo. La donna si avviò verso l’uscita e le porte scorrevoli si chiusero alle sue spalle. L’ultima cosa che Isidoro poté vedere furono i suoi capelli grigio ferro raccolti da un grosso pettine di legno. L’acconciatura di un tempo. Per quanto il corpo florido della donna mostrasse assai meno degli anni che Martina doveva avere, tutto diceva a Isidoro: è lei, è Martina. Si alzò allora con tutta l’agilità che il suo corpo era in grado di offrirgli, uscì e la raggiunse. Con la portiera già aperta
stava entrando nella sua auto, quando Isidoro le toccò una spalla e pronunciò il suo nome. Si aspettava di vederla trasalire, e invece Martina si voltò verso di lui con un sorriso da cinematografo. Pareva lo stesse aspettando. Lo abbracciò. Si abbracciarono. Si guardarono, il tempo dei ricordi rifluì su di loro. Quell’estate lontana in cui avevano affittato una villetta sull’isola. Tutti insieme, Paula e tu e io e Valérie, che aveva da poco compiuto dieci anni. Te lo ricordi Isidoro? Certo che lo ricordo. C’era anche Federica naturalmente, ma pronunciando il suo nome Martina sospirò abbassando la voce e lo sguardo. Sapeva. Poi aggiunse: «E tu come stai?» Nel parcheggio assolato le cromature delle auto mandavano riflessi iridescenti. Isidoro non rispose subito. Cercava ancora, strizzando gli occhi, di rivederla quasi nuda inerpicarsi agile sugli scogli di quell’isola invitandolo civettuola a seguirla. «Allora Isidoro, mi senti? Ti ho chiesto come va.» «Che importa», le rispose finalmente, «non sono un soggetto molto interessante, parliamo piuttosto di te. Cosa fai? Perché sei qui?» «Non possiamo raccontarci tutto in questo posto ripugnante. Devo andare, ora. Vado a prendere Mel, mio nipote, il figlio di Valérie.» «E Valérie come sta?» «Valérie? Non proprio bene in questo momento. Ne parleremo quando ci vedremo, non adesso. Devo correre a prendere Mel che esce da scuola.» «Ti fermi nella Pianura per qualche tempo?» «Mi fermerò per sempre. Sono tornata pochi mesi fa e non ti ho cercato perché sapevo che prima o poi ci saremmo incontrati, e poi avevo tante cose da fare. Telefonami, vieni a trovarmi.» Dicendo queste parole Martina estrasse dalla
borsa di tela un pennarello viola e scrisse a caratteri cubitali su un cartoncino giallo il suo nome, il suo indirizzo e il numero di telefono. Sorrise ancora con un cenno di intesa e se ne andò. Mentre l’auto si allontanava, Isidoro rimase immobile col cartoncino giallo tra le dita, come avesse assistito al rapido svanire di un miraggio. Tornò al Paradise bar chiese qualcosa al cameriere, poi si rese conto che non aveva voglia di mangiare. Annullò l’ordinazione e se ne andò. Tornato a casa si mise ad ascoltare Gershwin: le architetture di cristallo scuro evocate da Rhapsody in blue lo aiutarono a ricordare alberghi pieni di gente elegante, stazioni ferroviarie scintillanti e malinconiche. Martina, che sorpresa. Poi ricordò che nel primo pomeriggio era prevista una riunione per la programmazione didattica. Si avviò verso la scuola. Entrare in quell’edificio quando non c’erano i ragazzi aveva un effetto rassicurante.