Musica infedele & inchiostro simpatico

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POSTFAZIONE

IL PICCOLO BADILE NERO DEL NORTH END

The morning bells begin Schoolchildren chant and spin A length of rope Below a hanging tree Like cruel secrets some of us turn out to be «Rope»

Il tonfo sordo e monotono del suo grosso pugno che batteva contro la porta. Ogni volta che arrivava, si trascinava dietro un tamburellare tanto nefasto quanto soffocato. Si poteva udire il biascichio piatto e stonato della lingua che oziava nella bocca indolente di quell’adulto bambino, prima di levarsi in un gemito di compassione mentre la canzone continuava per la sua strada. I nostri vicini, vale a dire i suoi nonni, avevano piazzato il grammofono a un centimetro dalla parete della camera da letto allo scopo di facilitargli la vita nei momenti in cui lui se ne rimaneva al riparo dagli scherni dei bambini del quartiere. Il muro che divideva le due case era sottile. «Distant Drums» suonava a ripetizione. Anch’io ero dai miei nonni.


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Avevo dodici anni. Me ne stavo sdraiato al buio, infilato sotto un copriletto ricamato sbiadito e soffocante, che schiacciavo le bollicine di vernice incrostatesi sui motivi a forma di lira e ghirlanda della carta da parati. Al tatto risultava umidiccia. Alla fine, quel lamento raccapricciante cessava. Il bambino doveva essersi addormentato, e io gli andavo dietro. La notte dopo era esattamente come la precedente. La casa di mia nonna era uno dei quattro appartamenti che componevano la palazzina. Le pareti erano di cartapesta, certo, ma come se non bastasse c’era anche qualche vetro che si reggeva a malapena dentro le intelaiature delle finestre. Non sono certo che si trattasse solo di uno sciatto lavoro di muratura. Più probabilmente, aveva a che fare con il fatto che l’intera cittadina fu quasi rasa al suolo dai bombardamenti. I più anziani parlavano ancora della guerra come se fosse finita la settimana prima. A separare la vecchia casa di Pat e Molly dal binario merci che affiancava i moli di Birkenhead c’erano cento metri appena. La Luftwaffe aveva mancato quell’obiettivo per un soffio, ma in compenso aveva quasi interamente distrutto la loro abitazione mentre la famiglia correva a rifugiarsi poco distante. Parte della gente che abitava all’estremo sud alla città sgattaiolò su nel North End, con la complicità della notte e del consiglio di un uomo che forse possedeva qualche palazzo, o che magari era un semplice opportunista. «Tenete le chiavi. Qui c’è l’indirizzo.»


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Non avevano fatto altre domande. Per le questioni di soldi c’era tutto il tempo del mondo. Stavano tutti talmente accalcati che per un po’ non riuscii a distinguere quali fra loro fossero amici e quali amanti. Varcavo la soglia di portoni spalancati e mi sentivo il benvenuto, com’è usanza nei vecchi ricordi di tempi più affidabili di questi. È lì che mi avevano portato da bambino per farmi battezzare. All’epoca, a mio nonno restavano ancora pochi giorni da vivere, e il viaggio verso sud sarebbe stato troppo per lui. Mi diedero il nome di un prete amico suo, laggiù nella chiesa di Holy Cross Church, mentre il mio secondo nome, Patrick, era proprio in suo onore, che allora stava soffrendo le pene dell’inferno. Di lui ho soltanto una manciata di ricordi sconnessi. Io che spingo una macchinina giocattolo in mezzo all’erba che fa capolino dall’asfalto, mentre subito alla mia destra le pantofole a quadri di mio nonno si trascinano cercando di evitare le crepe nel lastricato. Non indossa dei normali vestiti ma una vestaglia, e nessuno dei due ha gambe abbastanza forti per arrivare lontano. Arbusti rotolanti e trucioli di vetroresina piroettano nella corrente che si leva da Bidston Moss per sfilare davanti alle fattorie e ai depositi di Valley Road. Un veterano di guerra con il petto carico di medaglie tiene d’occhio i veicoli che vanno e vengono dalla Dunlop Rubber Factory nei pressi di un posto di blocco che altro non è che l’insegna di un barbiere issata su un perno in mezzo alla strada. Al richiamo di un fischietto, un buon numero di operai e operaie si riversa nella via, mentre altri arrancano su Penny Bridge


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per oltrepassare le piattaforme girevoli di ferro e le gru di metallo che galleggiano accanto agli Spiller’s Mills. I cani ululano reclamando la loro dose quotidiana di biscotti. I fumaioli delle imponenti navi cargo – ecco la Blue Funnel Line, che traghetta carichi dall’Oriente – riescono a scorgersi tra le file di comignoli e le prime antenne televisive, mentre le banchine serpeggiano verso l’interno, allontanandosi dal fiume e correndo dietro le case. A mezzanotte, le loro sirene da nebbia si mettono a strepitare fendendo l’aria densa e satura di carbone alla vigilia del nuovo anno. Nonostante io sia appena un bambino, un vicino dai modi gentili mi offre un po’ di sherry dolciastro. Nessuno sembra preoccuparsi dell’alcol che c’è dentro. Le cupole pallide del Bidston Observatory, come pure il cilindro di arenaria e la tettoia verde del faro, si stagliano come un rilievo vivido contro il cielo in tempesta. Lungo la cresta più alta della collina giace abbandonato il Bidston Windmill, là dove uomini e cani se ne vanno a passeggio tutti i santi giorni, tranne quelli in cui si gela. Fino al 1969, il One O’Clock Gun fu sparato tutti i giorni all’una in punto per ricordare l’ora esatta. Al Bidston Observatory non si fa altro che mappare le stelle e tracciare le maree che spostano le nubi, eppure quella mastodontica struttura vittoriana sembra più il luogo ideale per riti tragici e macabre fantasie. Qualcuno scolpì la sagoma di un impiccato nella roccia accanto al muro dell’osservatorio. Ho cinque anni e non ho ancora abbastanza coraggio, e così


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me ne vado in giro con i bambini più grandi, vagabondando tra le felci e il muschio e acciuffando le rane viscide col terrore che il sole cali tutt’a un tratto. Poi, in una mattina assolata, un uccellino si infila nella canna del camino che un tempo riscaldava la stanza dove me ne sto lungo sul letto a canticchiare per soffocare i tormenti notturni. Il camino si trova accanto a un piccolo armadio pieno zeppo di vecchi completi di mio nonno ancora immersi nella naftalina, nonostante siano ormai trascorsi otto anni dalla sua morte. Spostiamo faticosamente il pesante armadio dalla parete e allentiamo la tavola inchiodata alla bocca del camino per sbarrare la strada agli spifferi. Ecco l’uccellino, che svolazza freneticamente a destra e a manca spinto dal disperato frullo delle ali che, prese dal panico, lo sbattono contro il legno, i mattoni e la grata di ferro. Tolta di mezzo la tavola e offertagli una via di fuga, l’uccellino nero saetta all’impazzata verso la luce:, vale a dire una finestrella in fondo al corridoio che dominava una ripida scalinata, su cui mio nonno, da bravo uomo assai poco pratico, aveva attaccato con il nastro adesivo la moquette staccatasi dai gradini quando una delle guide metalliche che la tratteneva era saltata. L’uccello si schianta contro il vetro e cade a peso morto dietro la porta d’ingresso, probabilmente stecchito. Io pesco la pala fra gli attrezzi del camino sul retro e, riluttante, vado a recuperarne il cadavere. Una volta raccolto l’uccellino con il piccolo badile di acciaio nero, spalanco la porta, e lui che fa? Torna in sé e schizza via. Nella credenza, c’è un cassetto rivestito di fogli di vecchi gior-


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nali ingialliti con dentro un’accozzaglia di cimeli di mio nonno: stemmi ricamati prelevati da uniformi militari, una pipetta di argilla intagliata, scatoline di latta un tempo destinate a tabacco o caramelle per la tosse e adesso usate per raccogliere monetine da tre penny da regalare ai bambini o magari qualche scellino per il contatore elettrico. Prendo la sua adorata spilla smaltata del Tranmere Rovers Supporters Club, poi ne giro e rigiro il metallo gelido nel mio palmo caldo. Trovo anche un programma di quella famosa vittoria 13 a 4 sull’Oldham Athletic il giorno di Santo Stefano del 1935, sebbene mi abbiano spifferato che allora mio nonno poteva permettersi solo il biglietto ridotto per entrare al Prenton Park a metà partita. Trascorro ore a passare al setaccio un vecchio atlante geografico. Il globo è perlopiù rosa, all’infuori delle macchie verdi riservate all’Africa orientale tedesca e quelle viola che identificano le colonie portoghesi, con tutte le alleanze, i principati e i granducati risalenti a prima del 1913 ancora al loro posto. Imparo a memoria tutti i minuscoli paesi che ora compongono la Germania dell’Ovest. Nell’armadietto accanto all’atlante c’è un eccentrico album di foto ricordo del Giubileo d’Argento di Giorgio V, con tanto di re ritratto sulla cartolina con su scritto FOR KING AND COUNTRY. Sento mia nonna sfaccendare in cucina; sta preparando un piatto di lingue di gatto per il mio tè, seguito da una ciotola di mandarini sciroppati su cui ha versato del latte condensato. È un miracolo che io sia ancora vivo per potervelo raccontare. Nell’angolo del soggiorno c’è un grammofono a manovella


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incassato dentro un mobiletto di noce, le cui ante rivestite di legno impiallacciato e armate di piccoli manici di ottone ricordano quelle che accolsero Alice nel Paese delle Meraviglie. Sul piatto del giradischi, accanto a un barattolo di puntine, qualcuno ha lasciato «The Laughing Policemen». Se lasci che l’aggeggio finisca di girare prima dell’ultimo solco riesci persino a far echeggiare la sua folle risata fragorosa. C’è anche un pianoforte Rushworth and Dreaper rimasto lì sin dai tempi in cui mio nonno insegnava. Sollevando il coperchio dello sgabello, scoprirai uno scomparto segreto contenente i suoi studi di tromba, alcuni saggi di teoria e le scale ed esercizi che appuntava a mano. Quando mio padre mi mostra il tasto del do centrale, io finisco per imparare le mie prime triadi semplici, le stesse che ancora oggi uso più di frequente suonando gli stessi accordi con entrambe le mani. Più avanti feci mia anche «Kind Woman» di Richie Furay, con tutti i suoi ricami, i walkdown dei gospel e le battute strampalate alla Floyd Cramer, senza dimenticare «Down River» di David Ackles e «Border Song» di Elton John. Pesco una raccolta di spartiti intitolata A Folio of Bob Dylan Songs dal leggio del Rushworth; gli unici pezzi che conosco sono «The Wheel’s on Fire», «The Mighty Quinn» e «You Ain’t Goin’ Nowhere». So leggere solo i simboli degli accordi per chitarra, per cui provo a immaginare la melodia di «Too Much of Nothing». Ascolto la radio fino a tarda notte, aspettando che mio padre torni da uno dei suoi ingaggi in ogni stramaledetto circolo di un dopolavoro che sia a portata di macchina da casa nostra. Mia


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nonna sistema qualche panino e una bottiglia di Guinness su un comodino. Certo che a quell’ora potrebbero anche lasciarmene bere due sorsi. È il 1971. Radio Luxembourg sta trasmettendo un intero lato di After the Gold Rush. Il segnale va e viene sulla strofa iniziale di «Tell Me Why»; scompare e ritorna durante «Only Love Can Break Your Heart». L’assolo di chitarra di «Southern Man» vacilla e crepita, come anche la fine di «Till the Morning Comes». Non c’è da stupirsi che io non abbia mai imparato nessuna di queste canzoni come si deve. Sento infilare una chiave nella porta e mettere il bollitore sul fuoco. Adesso che siamo gli unici svegli in tutto il vicinato, ce ne restiamo seduti accanto alle braci di un fuoco morente. Racconto a mio padre della canzone impegnata che ho cercato di cantare qualche ora prima in un club folk, ma è come se venissimo da due pianeti diversi. Quando parla, lui ricorre a gag e a un gergo tutti suoi; descrive le modeste pensioni per teatranti dove passa quasi tutte le sue notti come i suoi «alloggi». La «doppietta» sta per due spettacoli in locali diversi nell’arco della stessa sera. La «tripletta» è ancora più tosta, ma grazie al cielo più rara. Racconta il destino di tutti quei numeri mancati o «voltafaccia», quelli che ti costringono a ingoiare l’affronto del venire «liquidato», ovvero dell’essere mandato via senza aver portato a termine l’ingaggio invece che lasciato alla mercé di una folla contrariata o ostile.


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Non è una vita facile. Racconta le storie di personaggi assurdi e disperati che si aggrappano alle briciole di una qualche forma di notorietà: giovani cantanti impazienti, ventriloqui eccentrici e comici imbronciati, alcuni dei quali incarnano il cliché del clown triste, mentre altri diventano ubriaconi a caccia di rissa. Lui non fa che vedersela con agenti e promoter che esercitano la loro futile autorità con malizia e una punta di invidia. Lo accompagno in un paio di occasioni per potervi assistere con i miei occhi. Niente di affascinante, ve lo garantisco. L’impianto audio di parecchi locali è rudimentale e gracchiante. Fanno poca differenza tra i cantanti raffinati e le grasse risa dei comici. Mio padre porta con sé solo un carrello pieghevole pieno di lampade da terra colorate, una strobo per un siparietto con gli effetti speciali, la custodia della tromba e gli spartiti. L’accompagnamento è un terno al lotto. Ci sono musicisti capaci e volenterosi, ma ci sono anche batteristi che assecondano il ritmo di una melodia invece che andare in controtempo, e organisti per i quali la distinzione tra un accordo in maggiore e uno in minore è un mistero. È una sera d’estate a Blackpool, lassù nella vivace costa del Lancashire. In fondo al molo c’è un telescopio dal quale si riesce persino a scorgere… Il mare.


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Il bingo è l’unico gioco d’azzardo permesso da queste parti, e i pullman carichi di turisti ci si avventurano ancora per contemplare «le luminarie», come ai tempi in cui l’energia elettrica era davvero una novità. La maggior parte dei bambini è già a letto, imbottita di acqua salata, bibite alla vaniglia, zucchero filato e patatine, ma stanotte io non mi limito a portare a spasso la custodia della tromba di mio padre. No, stavolta mi accomodo in mezzo all’orchestra. Forse non saprò leggere la musica, ma almeno riesco a codificare i simboli degli accordi; e così, mio padre mi allunga una pila di spartiti che io sistemo diligentemente sul leggio come ho visto fare a un sacco di musicisti sin da quando ero piccolo. Me ne sto seduto insieme a un’orchestra scettica dietro a un sipario abbassato, che armeggio per accordare la mia chitarra. Nonostante il vociare venga attutito dal tendone, i clienti sembrano assetati e irritabili, forse avranno avuto una giornata dura, forse l’avranno spesa a trascinare i loro bambini riottosi e scottati dal sole via dalla sabbia e fuori dalle sale giochi. Mi becco un rimprovero dall’organista, che ha la faccia del colore della colla per la carta da parati. Di sicuro saprà che il suo organo impiegherà un minuto o due per raggiungere la piena potenza e il massimo tono. Il presentatore finisce di declamare i numeri del bingo, poi passa all’elenco delle esibizioni in arrivo e comincia a presentarci. Mio padre mi lancia un’ultima occhiata di incoraggiamento e controlla che io abbia sullo spartito la canzone giusta. So che è felice di avermi lì con lui, ma l’insistenza del suo sguardo dice anche: Questo non è un gioco, è il mio lavoro.


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Proprio mentre i riflettori ci abbagliano, sento lo stridio da mal di mare di una pianola che scivola su un semitono, facendomi arenare come uno straniero sulla spiaggia. Fisso una pagina piena di giri di accordi e cerco di aggiustarli mentalmente mentre lascio correre le dita a un paio di millimetri sopra la tastiera. Abbasso il mio volume al minimo e mimo l’intero spettacolo con un bel sorriso stampato in faccia. È l’introduzione perfetta alla mia vita nello show business. Da allora, quasi tutto non è stato altro che un’illusione.


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