Prologo Del secretario
Non bisogna disprezzare come troppo piccole le cose senza le quali non possono esserci le grandi. Una di esse è il secretario. Anima della professione del secretario è lo spiegar concetti in forma scritta. È un atto angelico quello di metter in lingua a tradurre sulla carta in lineatura d’inchiostro la prima radice e il midollo e i concetti del divino padrone. Con la penna il secretario rende chiara e distinta quella materia prima informe dell’altrui concetto; nel simulacro d’una lettera reca splendore a quella tenebrosa idea che, così ricevendo luce e spirto, fa parer presenti le cose lontane, facilita i negotii, accorda i tempi, stabilisce la memoria e, in quel luogo ove giunge il suo scritto, riduce il mondo. Del potere politico il secretario è dunque parte angelica, forma di una forza. La dignità del secretario i teologi l’hanno agguagliata agl’angeli più vicini a Dio. Il secretario non ha ritratto. Con corpo, gesti, abbigliamento e pronuncia egli forgia la propria vita nell’ombra, nell’inevidenza, nell’anonimato, nella solitudine per scelta. È scevro da accenti regionali o municipali, e argina la sua sana e robusta costitutione in un’armatura di stoffa severa di color nero o al massimo bigio nell’età fresca, come consiglia il Castiglione. Senza spada né pennacchio, si nega alla civil conversatione e ai conviti, usa gravità, onestà e modestia in ogni azione, sfugge quanto può di colloquiare e predilige i pasti senza compagnia. In tal guisa il secretario, con virtù lumachesca, s’avvita di nascosto e ascende alla familiarità col padrone.
Anticamente era chiamato scriba. Hoggidì il suo nome procede dal secretum, lo studiolo e archivio de’ prencipi, custode delle scritture segrete. Il secretario vede nascer dalla prima radice i casi che occorrono nello Stato del suo prencipe, le cogitationi di questi et ogni altra materia, e se li vede anco riporre nel petto dal suo prencipe proprio come in una fortissima rocca, o per dir meglio, come in una santissima e sicurissima sacrestia, alla quale par somigliare anche il suo nome. Epperò in guardia: non v’è amicizia tra il secretario e il suo padrone che non sia quella formale dell’apparenza, dei fallaci balzi, del perpetuo gioco di palla che al fumo dei favori corrisponde con il fumo degli ossequi. Esser favorito e secretario mal si convengono: sol per essersi di te fidato, prende a diffidare il prencipe di te: ti odia come suo tiranno, perché pargli che tu abbia in mano la sua libertà, mentr’ei vi ha posta la sua coscienza. La nobiltà dei secretarii è dunque labile e precaria e facilmente stracciabile. Come raccomanda anche Giusto Lipsio, constantia e tattiche di prudenza sottraggono alle insidie, alle sofferenze e al pugno di ferro del potere. Ov’è d’uopo cautela e circospetione, il secretario dissimula dunque d’intendere e di sapere, è parco di se stesso e coperto, come lo fu Sallustio Crispo juniore, secretario dell’imperatore Tiberio, raccontato negli Annali di Tacito: v’era nascosta in lui una forza d’animo e d’intelletto da renderlo atto a compiere grandi cose, tanto più vigorosa quanto più egli la celava sotto un’apparente tendenza al sonno e alla pigrizia. L’officio del secretario partecipa di tutti gli altri officii, ma niuno altro officio ha parte alcuna nell’officio del secretario, cosicché il secretario s’intende d’ogni maneggio altrui, e però niuno s’intende de’ suoi maneggi. Intervenendo come principal membro nel corpo del consiglio del prencipe, il secretario deve aver orecchi e mente, ma non lingua, fuori dal consiglio. Addetto alle missive e ai codici cifrati delle cancellerie, ha la consegna del silenzio. Tutta la sua vita è una tacita persuasione.
DISCORSI UTILISSIMI
Corredati di
RAGIONAMENTI NOTIZIE ESEMPII
& DIALOGHI Estratti dagli eventi dell’Anno Domini 1646 Ad uso del Signorino
ATTO MELANI Da Pistoia MUSICO DEL GRANDUCA DI TOSCANA ALLA CORTE DI FRANCIA
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Discorso I Ove, con una lettera, si narra un primo viaggio a Parigi, alla ricerca di gloria e onori, e s’illustrano in tal guisa i prodromi della storia
All’Illustrissimo Capitano Girolamo Sozzifanti, Cavaliere di Santo Stefano Eccellenza, con devoto et ardente amore di secretario Vostro, corrispondo con questa mia alla richiesta d’una veridica et esattissima relatione del viaggio che il signorino Atto Melani, Vostro pupillo a me affidato, ha compiuto nel mese di novembre 1644 da Roma a Parigi, ov’era atteso dalla Regina di Francia e Sua Eminenza il cardinal Mazzarino, primo ministro. Secondo le istrutioni elencherò ogni circostanza fededegna, da me stesso o da altri appresa. Ciò per soddisfare al desiderio Vostro d’esser regolarmente ragguagliato sul signorino Atto. Giunti in perfetta salute qui a Marsiglia, stiamo per iniziare il viaggio via terra per Parigi. Per il momento posso solo dire che il tragitto non sarà breve perché abbiamo trovato le strade in istato disastroso, e il cibo qui nelle locande di Francia è pessimo e scarso, cosa che mal dispone il signorino Atto alle fatiche di un sì lungo itinerario. Ma Vostra Eccellenza Illustrissima può contare sulla mia indefessa volontà di portare a termine perfettissimamente l’incarico che mi avete così generosamente affidato. Ci siamo dunque mossi entrambi, io e lui, alli 22 dello scorso novembre da Roma verso Firenze, onde prelevare il tenore Jacopo Melani, fratello maggiore di Atto, e la soprano signora Francesca Costa detta La Checca, attesi a Parigi insieme ad altri musici e attori su ordine del cardinal Mazzarino, per prender parte a spettacoli
in musica e poesia. Giunti a Livorno siamo stati imbarcati su una galea di mercanti diretta a Genova, ove avremmo fatto scalo per sbarcare infine a Marsiglia, e da lì proseguire via terra fino a Parigi. Tra i passeggeri erano presenti anche altri letterati e musici. Il capitano era stupito che la mancanza di spazio e di comodità non abbia punto viziato la buona atmosfera tra i viaggiatori. La pacifica convivenza, gli ho illustrato personalmente, era dovuta al fatto che i più si conoscevano già tra loro, avendo suonato o recitato ne La finta pazza, la commedia per musica scritta dal signor Giulio Strozzi, che oltre tre anni fa al Teatro Nuovissimo di Venezia ha avuto successo inaudito, ed ora viene replicata a Parigi alla Corte reale qual munifico omaggio di Sua Altezza Serenissima il Granduca di Toscana alla Regina di Francia Sua cugina e al cardinal Mazzarino. Durante il viaggio siamo stati assistiti da monsignor Alessandro Fabri, secretario del cardinal Mazzarino, di ritorno dal conclave che ha veduto l’eletione di Innocenzo X Pamphili a successore del defunto pontefice Urbano VIII Barberini. Monsignor Fabri è persona amabile assai et ci ha favoriti in tutto, senza lasciare insoddisfatto alcun nostro desiderio. Posso inoltre riferire che i passeggeri degni d’esser considerati (salvo cioè l’equipaggio, i mercanti che portavano a bordo le loro merci e la sporca ciurma dei galeotti incatenati ai remi) sempre hanno lodato il Regno di Sua Altezza Serenissima il Granduca de’ Medici, ch’è il più saggio, il più morale e il più puro dei Regnanti. Ciascheduno ha proclamato che Sua Altezza Serenissima, come ogni predecessore di casa Medici, soccorre meglio di chiunque altro la religione, i costumi onesti e la buona condotta di ogni suddito, e merita il più alto encomio. Debbo precisare che, in verità, il signorino Atto aveva dapprima abbandonato Roma di malavoglia, perché colà stava locupletando grandemente l’arte sua et apprendeva le più sottili raffinatezze del canto, grazie alle lezioni del maestro Luigi Rossi, della sua consorte Costanza arpista e cantatrice, e del più applaudito castrato di Roma, il celebre Marc’Antonio Pasqualini detto Malagigi. A Roma il signorino Atto ha avuto cura di dare il meglio di sé
proprio nel concerto di addio, a palazzo Barberini, nella stessa residenza dei nipoti del defunto Pontefice. È stata una serata memorabile alla presenza di molti Nobili e Porporati; gli stessi signori Malagigi e Rossi, ascoltando cantare Atto per l’ultima volta prima del gran viaggio, hanno avuto lacrime di contentezza per i progressi fatti dal loro allievo, e posso assicurare Vostra Eccellenza che il nostro giovine castrato ha lasciato nelle orecchie dei prencipi romani incancellabile ricordo di sé, procurando grande gloria alla serenissima casata de’ Medici. Il primo giorno per mare da Livorno a Genova è stato funestato da un fortissimo vento di levante, che ci ha portati subito fuori di rotta, così che poco avanti la sera abbiamo dovuto ormeggiare all’isola di Gorgona, la più piccola dell’Arcipelago, proprietà di Sua Altezza Serenissima il granduca Ferdinando come tutte le altre isole del mar di Toscana. Durante la prima notte di navigatione, trascorsa all’ormeggio di Gorgona, ho come sempre badato, secondo le istruzioni Vostre, che il signorino Atto riposasse a dovere e non venisse turbato da estranei o da pensieri smaniosi, ed egli ha dormito da bravo. Il giorno successivo, la ciurma dei buonavoglia (nome che s’addice assai poco in verità ai turpi rematori a pagamento che pur designa) è approdata sull’isola coi soliti orci per fare l’acquata, come la gente di mare chiama il rifornimento d’acqua. Purtroppo uno dei passeggeri ch’eran scesi a terra con i buonavoglia per sgranchirsi, è stato morso da un serpente. Poiché la dotazione medica della nostra nave era alquanto ridotta, il cerusico di bordo ha disposto di lasciare il ferito a Gorgona, dove avrebbe potuto godere delle cure e del riposo necessari nella guarnigione, ed essere dipoi ricondotto in terraferma appena fosse stato in grado di affrontare la breve traversata per mare. Il signorino Atto, assorto nell’esecuzione degli esercizi di canto a maggior gloria di Sua Altezza Serenissima, è rimasto sì incuriosito, ma per fortuna non troppo turbato dall’accidente. Per il resto il viaggio s’è svolto senza grandi intoppi, grazie all’aere che si è messo al bello e al vento che non ci ha recato grave impe-
dimento. Il signorino Atto ha ingannato il tempo esercitandosi con l’accompagnamento d’una piccola chitarra, giocando a carte, nonché scrivendo alcune arie per voce sola che appena possibile manderà a Sua Altezza Serenissima il Granduca (in verità non osa ancora, insicuro delle sue creationi). Non ha tuttavia tenuto in ispregio la lettura de’ volumi che avevo recato con me per sua istruzione e diletto. Posso insomma ribadire che il Vostro pupillo si è portato bene assai, e mai l’ho visto dire o fare cose sconvenienti, et ha seguito tutte le mie raccomandationi, e si potrebbe dire che nessun giovin dell’età sua potrebbe avere condotta più laudabile. Il signorino è d’animo sincero, sempre contento di ciò che la volontà del Signore gli mette sulla via, et era disposto al viaggio in Francia con la più grande gioia nel cuore. Il Serenissimo Granduca e l’eccellentissimo Principe e Governatore Suo Fratello possono essere compiaciuti assai del loro giovine protetto e Vostro pupillo, e confidare che continuerà ad esser loro fedele et a servire gl’interessi del Granducato. Iddio preservi la virtù sublime dei castrati, che donano al mondo le voci più celestiali ch’orecchio umano possa udire! Il mero lor angelico sembiante gonfia i cuori della brama di penetrare gl’incogniti recessi della Grazia Divina ed effondervisi intieramente. In tal guisa essi servono l’Altezza Vostra Serenissima con tutta la loro arte e le loro molteplici virtù! Non furono resi forse essi eunuchi per il Regno dei Cieli, secondo il dettame dell’evangelista?
Discorso II Ove, due anni dopo, si tenta nuovamente la fortuna a Parigi Sia maledetto il dì ch’io ti conobbi, Musica, eterna morte, di chi t’adopra in Corte. Come scoppian le corde Perché non mi scoppia il petto?
Nell’ebbro canto, mio giovine Atto, inarcavi all’indietro il tuo busto di ragazzo, mentre le tue lunghe braccia e le sottili dita da castrato disegnavano volute in petizione del cielo, che si confondeva all’orizzonte col blu nel Mare Nostrum, il Mare Nostro, come piaceva chiamarlo agli antichi Romani. La brezza marina di dicembre ti sferzava il collo, non avresti dovuto azzardare tanto. Avevi quella blusa di damasco color incarnatino, indossata per la prima volta a Roma, nella famosa serata a palazzo Barberini, quando gli applausi quasi avevano fatto staccare gli affreschi dal soffitto. Da quella celebrata notte la indossavi quasi ogni dì, contando ti portasse fortuna. S’era adesso nel dicembre del 1646; due anni erano trascorsi dal primo viaggio verso Parigi. Ci trovavamo ora ospiti d’una galea dell’armata navale francese, dalla linea slanciata e dalle decorationi singolarmente ricche, a cominciare dalla sontuosa polena che ornava la prua. Pochi marinai a bordo, i banchi dei rematori occupati solo a metà, il vento che gonfiava festosamente la vela dell’unico albero. La traversata era all’inizio. Destinazione di sbarco in Francia era stavolta non più Marsiglia, bensì il porto militare di Tolone. Da lì mi sarebbe toccato scrivere la solita lettera al capitano Sozzifanti, mio padrone e tuo padrino, per rassicurarlo che tutto fosse andato bene. Incrociavamo ancora nel quadrilatero di mare compreso tra Livorno, la Corsica e Orbetello, punteggiato dalle isole del Giglio, di Pianosa, Elba, Capraia e Gorgona, superbamente pescose, utili per avvistare navi corsare e anche per confinare criminali e poveri dementi; isole, soprattutto, vitali per la sicurezza militare del Granducato, che tramite esse controllava il traffico marino tra la Liguria e il basso Tirreno, e quindi anche tra la Francia e il vicereame spagnolo delle Due Sicilie. Stavi provando l’aria a due famosa della Finta pazza, che avevi cantato due anni prima a Parigi e prima ancora a Venezia, appena quindicenne. Il tuo compagno di duetto entrò puntuale, con una spassosa vocina nasale, nella parte della principessa Deidamia: Che mormori, mezz’uomo?
Poi scoppiò a ridere. Era Barbello, il piccolo e tondetto castrato veneziano dalla liscia chioma castagna a paggio, con una frangia lunga fin quasi sugli occhi, le guance imbellettate di biacca e nei finti, che adorava deridere la tua natura effeminata, che poi era anche la sua, perché con le provocazioni sapeva spazientirti a dovere. «Ecco gli allori, ecco le palme e i fregi», recitò poi tutto serio, citando i versi dell’Adone di Marino, che estrasse dalla sua inseparabile sacca di tela cerata. «Si gela, signorino Atto», ti ammonii, «se perdete la voce ora, Iddio ne scansi, meglio buttarsi giù dalla nave e non arrivarci mai, a Parigi. E poi toglietevi di capo una buona volta questa Finta pazza. In Francia stavolta si va a fare una nuova commedia in musica. O sbaglio?» Mentre Barbello mimava il gesto d’issarti una corona d’alloro in testa, mi lanciasti un’occhiata torva. Ti martellava il pensiero che adesso a Parigi non avevi idea di cosa ti avrebbero dato da cantare. Questa novella avventura verso la gloria in terra francese ti esaltava e angustiava insieme. La tua seconda esibizione alla Corte avrebbe eguagliato il clamore di due anni prima? Avrebbe ottenuto lo stesso plauso? Sotto sotto, avevi un folle terrore che ti rifilassero qualche passatempo da comprimario. Lo stesso tuo maestro, Marc’Antonio Pasqualini detto il Malagigi, che ora era sulla galea con noi, malgrado i suoi eccellenti contatti non era riuscito a sapere alcunché. Il nunzio papale in Francia da mesi scriveva a Roma che in preparazione a Parigi c’era un balletto per il duca d’Anghino, il vincitore della battaglia di Rocroi, che tutti già annunciavano imponente e sontuoso, senza però conoscerne nulla (il bello dei francesi è l’entusiasmo, diceva sempre Pasqualini). Di opere in musica, invece, non se ne vedeva l’ombra. Appena giunto nel porto di Livorno, il Malagigi si era informato con tutti gli altri cantanti, che come noi erano in attesa da giorni d’esser imbarcati. Durante le lunghe soste in una taverna del porto, mentre io facevo la spola con la banchina per sapere se era ora d’imbarcarsi, ci si era scambiati ogni ragguaglio possibile, fino agl’infimi pettegolezzi, col risultato che nessuno aveva idea di cosa si andasse a fare, tutti pigiati in nave per ordine del cardinal Mazzarino, verso
la remota Parigi. All’ultimo momento, per ragioni di spazio (così suppose il Malagigi), eravamo stati imbarcati su navi diverse. La maggior parte dei cantanti, incluso tuo fratello Jacopo, era stata fatta partire qualche giorno prima di noi su un mercantile diretto a Marsiglia. Invece il Malagigi, Barbello, la soprano Rosina Martini e tu, con me al seguito, eravamo stati convocati sulla banchina più volte a vuoto e lasciati attendere per ore. La cosa vi aveva snervati non poco, finché, dopo miei numerosi andirivieni da un ormeggio all’altro, tornai finalmente con la notizia ch’eravamo stati invitati a bordo di una magnifica galea militare. Il comandante della nave, nello scusarsi per l’attesa, mi aveva detto ch’era espresso desiderio di Sua Eminenza il cardinal Mazzarino che voi quattro, i più pregiati virtuosi attesi a Corte, viaggiaste col minor disagio possibile. S’era dunque scelto questo superbo bastimento dell’armata francese di ritorno verso il porto di Tolone dopo le operationi militari nel mar di Toscana compiute contro le navi spagnole. L’orgoglio per cotanto trattamento aveva smorzato un poco le ansie tue e del Malagigi e vi aveva rassicurati sugli intenti del Cardinale. A bordo tuttavia, il tarlo del dubbio era tornato a poco a poco a roderti. Colui ch’avrebbe dovuto scrivere il libretto della nuova opera, l’abate Francesco Buti, e l’autore delle musiche, il tuo caro maestro Luigi Rossi, erano a Parigi da mesi a far girare i pollici. Pur di non restare del tutto ozioso, Rossi componeva un po’ di cantate a voce sola, mentre Mazzarino non faceva la più lontana allusione ad alcuna opera in musica; ma allo stesso tempo, gli imponeva quasi giornalmente di scrivere a Roma per sollecitare l’invio di cantanti. Il Cardinale faceva anche pressione in Italia per mezzo dei suoi agenti e ammucchiava, sì, i cantanti italiani ottenuti sulle prime navi francesi, militari o mercantili, che incrociavano nelle acque toscane; ma nient’altro. In programma per i prossimi mesi era solo il famoso balletto per il duca d’Anghino, dove non c’era posto neppure per un quinto di tutti i cantanti ordinati da Mazzarino. E allora per qual cagione mai insistere finanche con arroganza presso il Papa e presso i Medici, e rasentare in tal poco avveduta guisa l’incidente diplomatico? Il Cardinale aveva scritto ai fiorentini informando addirittura che la regina Anna non poteva resistere senza di te. I conti però non
tornavano; per scrivere libretto e musica, le parti degli orchestrali, fare le prove, progettare e montare le macchine di scena, servivano mesi e mesi. Significava che una volta giunto a Parigi anche tu, caro mio Atto, saresti rimasto lungamente e inspiegabilmente in ozio. Leggevo nel tuo sguardo il medesimo sconcerto e l’inquietudine di tutti gli altri musici. Non avevi tempo da perdere. La tua parabola ascendeva al massimo della velocità; ogni mese, ogni settimana poteva essere quella del grande successo che t’avrebbe assicurato la gloria definitiva, con cui vivere di rendita per il resto della vita. Magari avresti avuto un beneficio dal Re, una pensione, un canonicato. Perché dunque andare a Parigi per restare con le mani in mano? Cosa caspita aveva in testa il Cardinale? «Vattene, idiota!» gridasti a Barbello cercando di colpirlo con un calcio: dopo averti offerto i disdegnati allori ti aveva infilato un pezzo d’alga gelida e grondante nei pantaloni, ed era scappato sghignazzando. Combattuto tra risate e collera, ma guardandoti bene dall’obbedirmi e mettere finalmente il collo al riparo dal vento, ti desti un’occhiata intorno, da cui traspariva tutto il tuo spaesamento. Certo, la sfarzosa galea militare francese che ci trasportava era ben altra cosa dallo scricchiolante mercantile italiano che ci aveva ospitati durante il primo viaggio. Questa volta non si dormiva tutti vestiti nella stiva, sotto i banchi dei rematori, stravaccati su poche balle di paglia, con finestrelle strette come feritoie. Io e te avevamo, come altri passeggeri, un piccolo alloggio a parte, al pari degli ufficiali di bordo. E poi era una nave non grande ma straordinariamente curata, con le sue balaustre intagliate, lo scafo ricco di dorature, a poppa una sontuosa lanterna con vetri colorati di fattura insolitamente pregiata. Perfino le pale dei remi dei forzati, arabescate su entrambi i lati, erano degne d’un ebanista. Ma a te gli splendori adesso erano divenuti indifferenti. Su quello scafo in mare aperto ti mancava Luigi Rossi, il grande maestro che a Roma t’aveva iniziato alle finezze segrete del canto, che non vedevi l’ora di raggiungere a Parigi e magari ti avrebbe spiegato l’enigma degl’incomprensibili disegni di Mazzarino. Ti mancava sua moglie
Costanza, la fulva arpista e cantatrice che così spesso aveva accompagnato il tuo canto durante le lezioni con Rossi. Rimpiangevi la vista degli splendidi e arroganti principi romani che scendono dalla carrozza mentre i lacchè fanno loro strada a colpi di frusta, i cardinali dalle sottane color porpora e le scarpe lucide, Eminenza vi bacio l’anello, onoratemi della Vostra protetione… Sette o otto giorni di traversata da Livorno a Tolone, e poi da lì proseguire via terra. Mangiar male, dormir peggio: una tirata da stremare anche i più vigorosi. Durante il primo viaggio avevi retto bene il beccheggio dello scafo; adesso, invece, nel primo giorno avevi già dato di stomaco tre volte. Davanti ai tuoi occhi c’erano solo le lucide crape rasate a zero dei rematori galeotti, le carcasse maledette degli schiavi turchi e i busti consunti dal sole dei buonavoglia, i rematori mercenari coi lunghi mustacchi intrisi di sudore, e il tanfo insopportabile dei bastimenti militari, vomito e sterco, che tutti dicono peggiore delle navi negriere. Tra una vogata e l’altra, gli schiavi sputavano in terra e guardavano torvi in direzione tua e del Malagigi: le donne a bordo portano sfortuna, figuriamoci i castrati. Non ultima, forse, ti mancava la magia delle umili notti all’aperto in galea, quella di due anni prima non aveva la comodità del castelletto di poppa, ma eri ugualmente protetto dal freddo grazie al fuoco di bordo, al bestiame imbarcato con noi, alla tua giovinezza e, soprattutto, alle donne. La Checca stavolta era già a Parigi; rimpiangevi la materna perizia che avevano le cantanti di lungo corso come lei nel farti sentire d’esser ancora, un po’, un uomo, al riparo d’una discreta coperta sotto la nera volta del cielo stellato in mare aperto. Lì, durante quel nostro primo viaggio a Parigi, eri stato davvero ben servito. A bordo con noi avrebbe dovuto esser sua sorella, Margherita Costa, da Venezia, ch’eri curioso assai di conoscere, essendo la sua fama di canterina e cortigiana diffusa in tutta Roma. Stranamente, però la Margherita non s’era veduta. Ci avean detto che s’era già imbarcata per la Francia ancor prima che giungessimo al porto di Livorno. Ben conoscevo, tuttavia, il segreto del tuo cuore di fanciullo: appena quindicenne, eri già da alcuni anni al servizio privatissimo dei fratelli del Granduca, quando fosti iniziato alle gioie dell’amore,
quello vero, a Venezia, proprio grazie alla Finta pazza. Potevo quasi leggere sul tuo volto i ricordi di quel sogno di passione e d’applausi, il tuo grande successo veneziano, cinque anni addietro. Durante le settimane di prova ti aveva adocchiato Barbara Strozzi, musicista e canterina, figlia bastarda del poeta Giulio Strozzi, librettista della Finta pazza. La Strozzi, sei anni più di te, aveva un nobile e ricco amante che la manteneva e del quale era rimasta appena incinta, quel Giovanni Vidman a cui avrebbe dato tre bambini. A Vidman suo padre aveva addirittura dedicato il libretto della Finta pazza. Ma ciononostante si era invaghita di te, tanto che a Venezia girava una satira su voi due: Il professare e l’essere sono termini differenti, tuttavia io anco la vedo castissima, mentre potendo, e come femina e come educata in libertà, passar il tempo con qualche amore, ella nondimeno impiega tutte le sue affettioni in un castrato.
Il suo amante non si curava della vostra passione così come non gl’importava della gravidanza bastarda di Barbara: lo divertiva che una delle sue amanti si dilettasse con un piccolo castrato di quindici anni. Ben diversa era, invece, la tua situazione: solo per un miracolo la tresca con la Strozzi non era giunta agli orecchi del tuo geloso padrone Mattias de’ Medici, venuto a Venezia per assistere alla tua esibizione nella prima serata, al Teatro Nuovissimo, pieno da scoppiare: l’Accademia degli Incogniti, alla quale appartenevano tutti i grandi di Venezia, compreso Giulio Strozzi, aveva fatto propaganda forsennata. Finiti erano ora quei giorni, schiacciati in un groviglio di ricordi dalla pressa del tempo, finita Barbara, finito tutto. Adesso, sulla galea francese, potevi solo compiacerti della vicinanza timida e adorante della giovane Rosina Martini, la fresca soprano scritturata dal cardinal Mazzarino. Altre donne sulla galea non ve n’erano; s’intuiva che Barbello avrebbe volentieri condiviso le notti al tuo fianco, se solo fosse riuscito a superare il tuo disgusto.
Alle donne, si sa, piacciono i castrati. Ma un castrato a cui piacciono le donne è faccenda pericolosa, se la voce arriva ai suoi signori. E può precipitare te e me nella rovina. E così, sfilando con paterna fermezza la mano della Rosina dalla tua sotto lo sguardo trionfante di Barbello, ti condussi verso il castelletto di poppa, dove intendevo farti una predica, ma breve e pacata, perché non serve gran cervello per capire cosa si cela dietro la solerzia con cui tu, Atto mio, vieni pagato, ospitato, imbellettato, raccomandato, conteso dal Granduca e dai suoi fratelli. Ti dovevo forse ripetere ciò che tutti a Firenze sanno?
NOTITIA
Dove si lumeggia come la casa de’ Medici abbia praticato la sodomia tanto per il diletto quanto per presunzione e per gl’interessi di Stato: nel primo caso con il fare, nel secondo col credere, nel terzo con il dire
Il nostro amato granduca Ferdinando de’ Medici, lasciato presto orfano dal padre e rimasto solo con la madre, Maria Maddalena d’Austria, aspra e glaciale, in giovinezza aveva avuto d’improvviso una febbre che lo aveva tenuto per giorni in preda al delirio. Al risveglio era stato avvinto da passione contronatura per ogni bel paggio che aveva attorno. Pare che la stessa misteriosa febbre, con gli identici malaugurati esiti sodomitici, avvincesse inesorabilmente tutti i membri di casa Medici. E ciò sin dai tempi di Lorenzo il Magnifico e di suo fratello Giuliano, i quali infatti avevano provato le medesime squallide passioni per i loro compagni e amici, tra i quali anche il valentissimo pittore Sandro Botticelli e il poeta dolcissimo Agnolo Poliziano. Invano quei rari e preziosi cappellani di famiglia che non partecipavano anch’essi dello squallido vitio, ammonivano che a Santa Caterina da Siena, com’ella stessa riferisce nel suo Dialogo della Divina Provvidenza, il Cristo in persona aveva reso noto quanto la bùggera facesse schifo a vederla persino ai demòni, che pur ad essa istigavano. I suddetti cappellani parlavano quindi di ossessione diabolica
e offrivano di praticare le preghiere di liberazione: offerte che venivano puntualmente derise e disdegnate. Si racconta che uno di quei sant’uomini, non volendosi dare per vinto, giacché il peccato va condannato con la stessa intensità con cui il peccatore va amato, profittò di una messa privata a casa Medici per declamare a sorpresa alcune speciali preghiere, volte a stanare i diavoli ch’egli vedeva celarsi nelle anime del granduca Ferdinando e di suo fratello Mattias. E si racconta che in effetti entrambi i principi dessero subitamente di stomaco, vomitando con virulenza umori fetidi e financo una testa di rospo davanti all’uditorio terrorizzato. Al frate fu tuttavia impedito con la forza di proseguire e l’unica conseguenza duratura del tentato esorcismo fu che il religioso stesso pochi giorni dopo fu trovato sgozzato da mano ignota. Nei suoi verdi anni, il Granduca s’era divertito soprattutto col giovanissimo principe di Venosa. Avevano percorso l’Europa in lungo e in largo, andando a trovare parenti e conoscenti di famiglia: lo zio imperatore, un altro zio arciduca in Austria, perfino il Papa a Roma. Al ritorno da quel viaggio di gran piacere, il giovane Ferdinando aveva assunto il governo del Granducato di Toscana, e nel modo che più gli si confaceva. Una sera lo aveva improvvisamente visitato l’Arciduchessa sua madre, mentre egli si stava scaldando davanti al camino. Profondamente turbata, la donna annunciò che le era stato denunciato un segreto abuso di carne contronatura nella città di Firenze. Tirò fuori una lista con i nomi delle persone coinvolte, tutte potenti e d’alto affare, chiedendo seccamente al figlio che fossero castigate. Il Granduca lesse la lista senza batter ciglio, e rispose che la sua signora madre non era ben informata: mancavano nella lista altre persone ch’erano incorse nel medesimo traviamento. Si alzò, prese dal tavolo una penna, la intinse nel calamaio, poi tutto tranquillo scrisse in testa alla lista, a gran lettere, il proprio nome. Dopodiché rimise in mano alla madre il pezzo di carta. L’Arciduchessa: “Voi fate ciò solo per salvare costoro!” Il Granduca: “Qual pena desiderate per questa gente?” E lei: “Farli ardere vivi!” Ferdinando allora prese nuovamente la lista, l’accartocciò fino a
ridurla come una palla e la scagliò in mezzo al fuoco, nel camino. Poi disse: “Eccovi accontentata. E d’ora in poi, signora madre, non pensate più alle faccende della Corte, e non proponetemi mai più casi simili, che servono solo a porre sossopra i miei Stati”. L’Arciduchessa se n’era avuta molto a male. Aveva prelevato dal palazzo le sue più belle gioie, gli ori e gl’argenti, e se n’era partita verso la Germania. Arrivata alle montagne presso Trento si era ammalata in un’osteria e dopo non molto tempo era morta. Otto anni dopo Ferdinando si era sposato con la duchessa Vittoria della Rovere, carica di grandi ricchezze, dalla quale è nato il piccolo Cosimo che un giorno succederà a Ferdinando nel governo. Ma ciò non ha cambiato granché le inclinationi del padre, e si dice che tra i due sposi sia già consumato il litigio definitivo, e che altri figli, almeno per il momento, non ne arriveranno. La Granduchessa ha scoperto il consorte più volte in camera con giovani paggi, coi quali si divertiva nei modi più vari. Lui fa finta di non notare l’ira della moglie, e continua a modo suo. Si diverte a turbare le notti di Firenze, istigando i suoi amanti più scapricciati (sono quelli che predilige) a introdursi in case private per corrompere questa o quella donzella, mentre lui si gode lascivamente lo spettacolo da dietro la porta, rischiando a volte la vita pur di togliersi gli sfizî. Una notte, mentre in un’alcova stava spiando uno dei suoi favoriti, chiuso in amplesso con una pulzella alla quale egli stesso l’aveva spinto, una candela ha dato fuoco alle tende del talamo e si è scatenato un incendio, nel quale per poco non è perito lo stesso Granduca. Un’altra volta, lasciato solo in strada dai suoi per qualche attimo, due ignari briganti l’hanno accoltellato, e se sotto la veste non avesse avuto la sua corazzina di cuoio, ci avrebbe certo rimesso la pelle. Per sottrarsi al ribrezzo che la squallida pratica dei sodomiti suscitava nel popolo, ribrezzo che rischiava di cangiarsi repentinamente in ribellione, il Granduca, come già i suoi avi, faceva circolare la voce che tutta Firenze e financo la Toscana intiera fossero pederaste. Nessuno si sottraeva, a udir le chiacchiere
diffuse ad arte dai diffamatori prezzolati dei Medici. Accanto alle tresche vere di finocchieria che si dipanavano nella ristretta cerchia dei Medici, venivano imbastite favole mendaci sul popolo fiorentino e toscano tutto, tanto meglio credute quanto più audaci ed esagerate. Tali calunnie fecero presto il giro del mondo, tanto che i todeschi, per significare sodomita dicevano florenzer, e la pederastia era detta vizio fiorentino. I signori della città requisiscono bambini e ragazzi del popolo, dai sei ai sedici anni. Li conducono a passeggio con magliette che lasciano fuori l’ombelico, e calzoni che si aprono sia davanti che dietro. Li chiamano cagna, bardassa. Dal popolo, invece, sono detti sodomiti, buggeroni. Quando crescono, e capiscono che sono marchiati e ormai la loro vita è quella, non hanno altra scelta che vendersi nei bordelli. Sin dal loro arrivo a Firenze trecento anni fa, i Medici mandano bande notturne in giro per la città a sodomizzare i tiratardi e a dar spettacolo di sé. Dopo un secolo, la città di Firenze, che godeva ancora delle antiche libertà comunali, aveva istituito gli Ufficiali di Notte, una magistratura col compito di vigilare sul vitio dell’ano. Avevano una milizia, funzionari e fondi per pagare le spie; tutti i cerusici erano obbligati a denunciare se trovavano qualcuno con il buco rotto o con le creste di gallo, le cancrene che decorano l’ano dei finocchi. Alla fine i Medici sono riusciti a far abolire gli Ufficiali di Notte senza troppe proteste del popolo: avevano diffuso la voce ch’era stato beccato in flagrante perfino il vecchio Doffo di Nepo degli Spini, l’ex gonfaloniere di giustizia che aveva istituito la loro magistratura. A settant’anni suonati, sussurrava la propaganda, avrebbe abusato di un fanciullino di quattordici, insieme con il sessantenne Ciamberlano di Giovanni, famiglio todesco del potentissimo Palla Strozzi. Al posto degli Ufficiali di Notte erano stati lasciati a sorvegliare gli Otto di Guardia e i Conservatori di Leggi, magistrati più discreti, e guarda caso dopo un po’ i loro registri si sono persi. Da dove veniva tanta sfacciataggine? Come poteva un principe
andare in strada a mostrare il deretano senza sentirsi diminuito nella sua dignità? Il fatto è che l’esser finocchi, a Firenze, proprio dai Medici è stato reso bello, e desiderabile, e cosa di gran prestigio. Questa elevazione della bùggera fu operata in guisa astutissima: con le armi d’una scienza ben lontana, ma solo in apparenza, la Filologia. Ovverosia lo studio de’ Poemi degl’Antichi. A Firenze infatti aveva vissuto il poeta Agnolo Poliziano, l’iniziatore, ne’ nostri Tempi, di questa disciplina. Poliziano era universalmente noto come invertito e amatore di puttini, cosa che non aveva difficoltà a far emergere nelle sue opere. Nelle sue poesie in greco e latino smaniava per Coridone e Biondo Ricciolino; amava perfino rivelare le tendenze sodomitiche di altri amici illustri come Botticelli e Donatello. Ciononostante Lorenzo de’ Medici lo aveva assunto come istitutore dei suoi figli, e poi gli aveva fatto assegnare la cattedra fiorentina d’insegnamento dei classici, in particolare di quelli greci. Poliziano aveva inventato un nuovo metodo per indagare i testi antichi: comporre l’albero genealogico di tutti i manoscritti giunti sino a noi, per capire quale di essi fosse stato copiato da quale altro, e ricostruirne così la storia. Il suo metodo gli aveva procurato lodi e notorietà in tutta Europa (anche se non mancava chi lo accusava di plagio e gravi errori); così era avvenuto che a innalzare il vessillo dell’erudizione e quello della perversione fosse la medesima mano. Poliziano e gli altri della sua masnada sbandieravano che fosse pederasta il grande Mecenate, l’amico dell’imperatore Augusto che dava da mangiare a Virgilio e a Orazio. Giuravano che Alessandro il grande avesse per amico Efestione e l’eunuco Bagoa. Raggiunti dal tocco magico di Roma e Atene, ch’è simile a quello di re Mida, Sodoma e pederastia s’erano tramutati in oro. Questo era l’insperato traguardo raggiunto dai praticoni dell’amore obliquo: prenderlo nel didietro era diventato un atto eroico, da compiere con la corona d’alloro sulle tempie e la cetra in mano. La Historia Augusta assicurava che l’imperatore Adriano amava il suo Antinoo al punto da divinizzarlo, quando il ragazzo morì.
Peccato che la Historia Augusta fosse stata prestissimo tacciata d’inaffidabilità e qualche dotto avesse perfino sussurrato (timidamente, per carità!) che fosse un falso scritto molto più tardi…