Nessuna carezza

UNO

Il treno passa fischiando, dalle fronde degli alberi si leva un piccolo stormo di uccelli per niente nobili. Raggiungono disordinati l’aria, dovrebbero tendere verso il cielo, invece appena il treno si allontana ricadono in basso, risucchiati tra i rami. Un cielo pieno di lividi, danneggiato. Ha iniziato a piovere spesso e la stagione ha cominciato a fare accorciare le giornate. Fa buio presto, per le strade gli uomini camminano appena più veloci, tradendo il desiderio di arrivare al proprio metro quadro il prima possibile. Infastiditi dagli altri uomini. Nel piazzale di cemento le automobili sono parcheggiate una di fianco l’altra, in attesa di essere risvegliate e portate via. Sono auto con la polvere e i graffi del vandalo notturno, a parte un paio. Sono auto che vengono lavate e profumate un sabato ogni due. C’è scritto «baby a bordo» e c’è il gagliardetto della squadra di calcio. Qualche rivista di motori sparsa sui sedili. Un seggiolino per il bimbo seminato di briciole.

L’orario di apertura al pubblico dell’ingrosso è già terminato da più di mezz’ora e adesso ci sono soltanto le sedici persone che ci lavorano. Si salutano dentro, al caldo, perché fuori poi ognuno camminerà svelto verso il proprio abitacolo e se ne tornerà per qualche ora alla propria vita, la casa, la famiglia e il divano, aspettando che la sveglia lo rimetta in piedi e che l’automobile lo riporti al lavoro.

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Apre al pubblico alle otto e trenta, orario continuato fino alle diciannove.

Mauro sale in auto sbuffando e imprecando, ha appena finito di ascoltare il discorso del capo. Noioso. L’altra sera infatti mancavano dall’incasso duemila euro e sta per scoppiare un bel casino, uno di quei bubboni che creano scompiglio e sguardi torvi e malessere. Per duemila euro. Chissà poi chi sarà stato. Legge i messaggi di Veronica che gli ricorda di passare a comprare le banane, perché sono finite e lei ha bisogno delle banane e del loro potassio. È incinta, ha bisogno di potassio, glielo ripete continuamente. Mauro ha anche cercato su internet questa cosa del potassio e non gli pare proprio vera, però non è il periodo giusto per contraddire Veronica.

Non è il periodo giusto per contraddire Veronica e non è il periodo giusto anche per altre mille cose, perché il contratto gli scade fra tre mesi e non sa se glielo rinnoveranno.

Il padre di Veronica gli ripete in continuazione che è da irresponsabili mettere al mondo un figlio senza avere certezze sul proprio futuro e Veronica gli ripete che il padre ritiene irresponsabile mettere al mondo un figlio eccetera.

In una trasmissione televisiva ha sentito un tizio famoso dire che «i figli si sono fatti anche durante le guerre» e si è trovato d’accordo. Pochi minuti dopo una tizia famosa ha detto che «per il modello di sviluppo economico attuale non fare figli può rappresentare una soluzione»: Mauro su questa seconda affermazione ha dovuto riflettere un poco, ma ha finito per trovarcisi comunque d’accordo. Concludendo il presentatore ha parlato di controllo delle nascite, «come fanno i cinesi», e ha spiegato che un figlio per coppia, non di più, sarebbe stata una soluzione definitiva e possibile. Hanno tutti annuito, perché quando la verità sta nel mezzo tutti sono sovente d’accordo.

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Mauro gira la chiave e accende il riscaldamento. L’aria che proviene dal cruscotto gli carezza fastidiosamente i capelli, come un parente troppo affettuoso. Abbassa da tre a due la manopola e si guarda nello specchietto retrovisore.

«Domattina mi faccio la barba.»

Sul telefono appaiono un messaggio di sua madre, uno del suo amico Michele e anche uno di Ester, una sua ex fidanzata. Scrive: «Come stai? Oggi ero al supermercato e mi è caduto a terra un vasetto di miele e si è rotto. Che imbarazzo. Mi sei venuto in mente tu quando facevi cadere le cose per terra. E mi sono messa a ridere».

A lui le cose continuano a cadere per terra, ma nessuno ci ride più sopra. Lo rilegge, sorride, e infine lo cancella.

Veronica potrebbe risentirsi, se lo vedesse. Anche se è solo un saluto, una carezza tenera. In verità Veronica ha smesso da circa un anno di essere gelosa, o almeno così pare. Prima, all’arrivo di ogni messaggio o una telefonata induriva il viso, le compariva una ruga sopra la tempia e aspettava di sapere chi fosse per scegliere quale espressione mantenere.

Ora non più.

«Le banane.»

Innesta la retromarcia, schiaccia l’acceleratore e rilascia la frizione. Troppo in fretta, forse. Si gira per controllare, un gesto soltanto accennato visto che di solito non passa mai nessuno. Non quella sera, perché Vincenzone ha l’automobile a riparare, problemi alla testata, e così da un paio di giorni viene al lavoro con il motorino della figlia sedicenne.

La figlia è costretta a prendere l’autobus, «come gli sfigati», e ogni sera rimprovera di questo faticoso stravolgimento il padre. E gli chiede quando sarà pronta l’auto, che lei rivuole indietro il suo motorino.

«Amore, che ne so, fai la brava. Con quello che mi costa!»

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«E io che c’entro?»

«Anche tu mi costi.»

E lei scoppia a piangere, sbatte la porta e poi ascolta i due genitori litigare in cucina.

«Sei sempre il solito.»

Sul cruscotto del motorino c’è appiccicato un cuoricino rosso e sotto al sedile un adesivo con due orsetti, tanto che i colleghi nella pausa pranzo di due giorni prima lo avevano preso in giro.

Mauro avverte un colpo forte, poi un rumore sordo e infine uno lungo, costante. Quindi silenzio.

Toglie la retromarcia, mette la prima e cerca di riposizionare l’auto al suo posto. Ma nella concitazione la fa spegnere. Urla qualcosa, solo consonanti. Apre la portiera, senza pensiero, così che sbatte sulla fiancata della macchina di lato, quella di Carlo, ma chi se ne frega. Ora sente il cuore battere e ha freddo alle gambe. Non riesce più a urlare, gli si strozzano delle parole in gola e gli escono soltanto dei bisbigli, come una preghiera, o una cospirazione.

Si decide a scendere e vede a terra Vincenzone riverso a pancia in giù. Gli viene in mente quella volta che aveva assistito a un incidente dove un ragazzino era stato investito e giaceva sul cemento piangendo e gridando «mamma, mamma!» e poi aveva saputo dal giornale, il giorno dopo, che era morto.

Il motorino è poco distante, su un fianco. La ruota posteriore gira ancora. L’adesivo con gli orsetti è venuto via.

Si avvicina al collega e questi sta bestemmiando, non chiamando la mamma. Nemmeno morendo, però. Vorrebbe sbraitare, sfogarsi, ma pare frenato dal casco, dalla posizione e dal respiro corto.

«Stai bene?»

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«Ma vaffanculo!»

Mauro appoggia una mano sulla spalla dell’uomo, non sa come ci si comporta in questi casi. Bisogna girarlo? Farlo rimanere fermo? Chiamare un’ambulanza? Si guarda intorno e per sua fortuna sopraggiungono alcuni colleghi: qualcun altro saprà cosa fare, qualcuno di loro saprà sicuramente cosa fare quando uno ha appena avuto un incidente ed è riverso a terra. Smette di tremare.

«Cosa è successo?»

«Perde sangue?»

«Vincenzone, come ti senti?»

«Ma vaffanculo!»

Arriva il capo, in mano ha il telefono.

Gli fanno spazio per la battuta.

«Ho già chiamato l’ambulanza, restate calmi.»

Tolgono il casco al collega sventurato e lo posizionano di lato. È l’unica cosa che fra tutti riescono a rammentare dai corsi per il primo soccorso.

«Fatelo respirare!»

Qualcuno si accende una sigaretta. Anche Vincenzone chiede una sigaretta e quelli dell’ambulanza lo trovano così, riverso di lato mentre fuma, come fosse sulla spiaggia a prendere il sole.

Lo caricano sulla barella e ripartono.

Lo stagista nemmeno troppo timidamente si rivolge a Mauro.

«Ma come hai fatto?»

Ora tutti lo guardano. Sul gruppo ha iniziato a scendere una pioggerellina sottile, fitta e fastidiosa. Un nugolo di mosche d’acqua. Sul binario della ferrovia poco distante transita un treno regionale, e come ogni volta fischia per avvisare, casomai ci fosse qualche sciagurato che vuole get11

tarvisi sotto. Il rumore del treno immobilizza per qualche secondo l’intera scena, poi, una volta passato, i movimenti e le parole degli uomini ricominciano, come se avessero ricevuto di nuovo il permesso.

«Io e Carlo andiamo in ospedale. Appena ci dicono qualcosa ve lo facciamo sapere. A domani, puntuali.»

Mauro si avvicina al capo.

«Posso venire anche io?»

«No, vai a casa.»

Ritorna all’auto e dando un’occhiata all’orologio capisce che il supermercato sarà già chiuso e che per questa sera niente banane. Veronica capirà. Si guarda nello specchietto accorgendosi di essere sudato. Oppure è pioggia? Con la manica si asciuga la fronte, e poi prova a darsi una pettinata.

Per un attimo pensa che ora lo licenzieranno, perché ha fatto una stupidaggine. Vincenzone è in azienda da tanti anni, e magari si arrabbierà e lo farà licenziare. Pensa a Veronica e pensa al padre di Veronica.

«Che palle!»

Rifila una manata al cruscotto, facendosi anche un po’ male. Trema ancora.

Il capannello si scioglie definitivamente e anche Carlo sale sulla sua automobile, non prima di avere rivolto un’occhiata a Mauro. Osserva un’ultima volta la scena dell’incidente scuotendo la testa.

«Che coglione.»

Il capo lo raggiunge. Si siede, indossando un’espressione infastidita.

«Che puzza che c’è qui dentro. Ma hai ricominciato a fumare?»

«Ogni tanto.»

«E tua moglie che dice?»

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«Ha ricominciato a fumare anche lei.»

Si avviano verso l’ospedale, il capo rimane per tutto il tragitto con il telefono in mano.

«Stasera avevo anche un aperitivo.»

«Donne?»

Alza la testa dallo schermo, gli rivolge un sorriso sornione e un occhiolino. Allora Carlo gli chiede di raccontare e il capo volentieri si abbandona alla confessione, alla chiacchiera, all’invenzione. Quando si sta per entrare nel dettaglio è tempo di parcheggiare, e i due se ne dolgono.

Due uomini in confidenza infatti hanno sempre la sindrome della cameretta dei giochi, e quando li si interrompe ci rimangono male. Anche se è pronta la merenda. Figurarsi per entrare in un ospedale.

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DUE

Viktor è appoggiato al bancone e aspetta la sua birra.

«Ecco qua.»

Ringrazia, afferra il bicchiere di plastica, si accorge che ha il fondo bagnato e che lo deve asciugare. Infila il dito nel portatovaglioli ma gliene rimangono in mano troppi. Ne usa solo un paio. Gli altri li infila in tasca, senza farsi notare, perché si sente in colpa a sprecarli ma non vuole nemmeno sembrare uno di quelli che li ruba per non comprarli. Al supermercato ha assistito alla scena di un uomo che aveva sotto la giacca una decina di buste di plastica, e ne voleva pagare solo una. Scoperto dal cassiere, si era messo a piangere. Non pena, ma vergogna.

«Ma cosa te ne fai?»

Leggermente infastidito cammina verso il tavolo di fianco alla vetrata. Guarda fuori: il traffico della statale è sempre uguale, placido, e le luci dei fari delle automobili solo ogni tanto, chissà perché, raggiungono il bar. Rimbalzano, forse, oppure i fanali non sono regolati bene. Le grandi luci dei tir mai, sono solide e mirano avanti, ampie e presuntuose.

Viktor alza la testa e osserva la televisione, muta, ma con le immagini del telegiornale. Nel locale si diffonde la musica di una radio e a quest’ora anche la radio sta trasmettendo il notiziario. Per qualche minuto Viktor prova a sentire se 14

per caso i due elettrodomestici riescano a sincronizzarsi, almeno per una notizia, ma gli pare di no.

Ascolta la radio pronunciarsi sulla crisi politica e poi vede il giornalista in televisione parlare della crisi politica, sottotitolato dalla scritta nella parte bassa dello schermo.

Poi si passa a una nave che è affondata al largo di Tunisi, questa viene meglio in televisione, perché ci sono anche le immagini riprese dall’elicottero. Però alla radio parlano di otto dispersi, mentre la scritta in sovraimpressione dice nove.

Si ferma a pensare per qualche secondo su quale delle due informazioni sia vera. Se il disperso sia stato ritrovato e tolto dalla lista oppure se, in senso opposto, si sia appena aggiunto. Pensa ai familiari, se ce li ha. O ai suoi amici, se ce li ha. Ha un ricordo. Il suo migliore amico di tanti anni prima aveva avuto un incidente mentre era in vacanza con la fidanzata in Sudamerica. Dall’ambasciata avevano telefonato e detto che lui era morto, e la fidanzata si era invece salvata. Viktor aveva preso un aereo insieme con la madre del suo amico e la sorella della fidanzata. Un viaggio straziante, perché le due donne avevano gradi diversi di disperazione e si rincuoravano, e lui si trovava nel mezzo.

Una volta arrivati sul posto si era scoperto che invece era accaduto l’esatto contrario, il suo amico era sopravvissuto e la fidanzata morta. Tutto ribaltato. Gli occhi e il sangue delle due donne compresi.

Finisce la birra in fretta per attenuare il ricordo, e si alza per chiederne un’altra e ordinare qualcosa da mangiare.

Viene qui tutte le sere, almeno durante la settimana, dopo il lavoro.

Mangia un panino o due, e saltuariamente anche le patatine fritte, o le olive ripiene, ma solo quando ha l’im15

pressione che abbiano cambiato l’olio per friggere. Da qualche parte ha letto quanto può essere dannoso l’olio per friggere usato e riusato. Nell’immensa dose di nozioni utili o meno che riceve quotidianamente quella gli si è inchiodata nel cervello e pare avere trovato una collocazione privilegiata e ostinatamente difesa. Oppure sono le altre nozioni a essere più deboli. Dovrebbe infatti sapere, ad esempio, che il macchinario che spina la birra e le altre bevande gasate non viene quasi mai pulito, e ogni giorno che passa somiglia sempre di più a un continente pieno di germi e batteri.

Ma non lo sa.

Torna a sedersi, masticando arachidi e bevendo birra a piccoli sorsi, così gli pare che duri di più. Anche il cibo nelle ciotole di ceramica non è igienico. Le ciotole rimangono infatti giornate intere appoggiate sul bancone, raccogliendo le mani e la sporcizia di tutti gli avventori.

Ma Viktor non sa o immagina nemmeno questo.

Sa invece che guardare le automobili andare su e giù lo rilassa, perché lui questa faccenda delle automobili ce l’ha sempre avuta sin da piccolo. Lo mette in pari con il mondo, cosa rara. Così come lo rilassa stare al balcone e osservare le persone in basso semplicemente passeggiare. O assistere mentre si sbattono contro. Ora abita al pianoterra, dalla sua finestra si scorge soltanto un pezzo di via, e non lo può fare. Ma la prossima casa si è promesso di trovarla ai piani alti, almeno terzo. Gli piace inoltre stare fermo e seduto ai tavolini dei bar all’aperto, quando si può. A volte pensa che per essere felice, o perlomeno contento, gli sarebbero sufficienti un tavolino, una strada con del passaggio (ma non troppo e non troppo rumoroso), un cameriere a servire la birra, il pacchetto di sigarette pieno, il bagno 16

del bar vicino ma non in fondo alle scale. Quelli al piano di sopra o di sotto lo sfiancano, lo costringono a trattenersi e aspettare proprio il momento di scoppiare, perché la birra è implacabile. Così sceglie sempre i posti con il bagno comodo, e il tavolino lo sceglie sempre vicino all’ingresso, possibilmente contro un muro su cui appoggiarsi con la schiena. Durante la bella stagione si mette sempre nei tavolini all’aperto, anche in questo posto orrendo che è il bar della stazione di servizio. Una volta ha sentito un tizio dire che alcuni posti sono così brutti da diventare belli. Lo stesso tizio aveva aggiunto che alcune persone sono così stronze che diventano quasi simpatiche. Su questa ultima cosa Viktor ogni tanto ci ragiona e si trova abbastanza d’accordo. Il bar della stazione di servizio quindi è così brutto che è bello, gli piace, lo appaga, perché non ha l’incombenza dei clienti abituali degli altri posti, non c’è per esempio quello che usa sempre lo stesso tavolo, o quello che legge il giornale e non lo molla mai. Nessuno entra dalla porta baldanzoso avendo la certezza di essere riconosciuto e coccolato, o anche soltanto sopportato. A parte Viktor stesso.

Ma i baristi qui non sono tenuti, e non ne hanno nemmeno voglia, a fare chiacchiere con lui. D’altronde parla poco, e solo dopo qualche birra.

Esce fuori, nel gazebo di legno compensato, con il bicchiere in mano. Fuma una sigaretta e continua a guardare la statale scorrere. Questa sera tira vento, e le orecchie sono fredde. Ha smesso di piovere da un paio di ore, e l’asfalto restituisce umidità e odori di benzina, sporco, erba tagliata da poco nella solitaria aiuola di fianco alla struttura. Si rannicchia dentro il giubbotto e alza il bavero. Forse è arrivato il momento di cambiare giubbotto e prendere definitivamente quello invernale. Potrebbe comprarsi un 17

cappotto. Smuove le gambe, che i piedi altrimenti si raffreddano. Osserva il piazzale antistante. I clienti fanno benzina, qualcuno scende di corsa a comprare qualcosa al bar. Qualcuno si ferma a mangiare un panino, veloce, appoggiato ai tavoli alti di plastica, quelli rossi che la cocacola regala ai locali che acquistano tanta coca-cola. Altre persone vanno al bagno, o fumano vicino ai cestini della spazzatura, perché nelle stazioni di servizio non è permesso fumare vicino alle pompe di benzina. È uno di quei divieti che non fanno venire voglia di essere trasgrediti, nemmeno dal fumatore più ottuso, ad esempio quello che fuma nel bagno dei treni.

Viktor torna dentro, paga e saluta il barista di turno.

Questo non gli piace tanto, ha troppi tatuaggi e non si fa mai la barba. Preferisce quello basso con gli occhiali, oppure Veronica, anche se ultimamente non la vede in gran forma e in ogni caso non sempre lavora di sera. Lei è fidanzata con un collega di Viktor, e inizialmente, appena scoperto, questo aspetto stava per fargli cambiare abitudini, spingendolo a cercarsi un altro posto dove andare a cenare.

Ma l’abitudine è più forte anche di quel poco di fastidio che gli restituisce l’incontro saltuario del collega fuori dal lavoro, quando viene a prendere la fidanzata. Lei in ogni caso si è sempre comportata bene con lui, e Viktor è riconoscente con chi si comporta bene nei suoi confronti. Non ci è molto abituato.

Risale in auto e rimane qualche minuto fermo dentro l’abitacolo, parcheggiato come al solito di fianco al guardrail.

Posto in prima fila per quello spettacolo apparentemente noioso e inconsistente che è la statale. Ma lui tutte le sere è lì, a riempire la giornata dopo il lavoro e terminarla rassettando dei pensieri casuali, a volte tremendi e spaventosi, 18

altre invece fanciulleschi e buffi e perciò per lui ancora più vergognosi. Si guarda nello specchietto retrovisore, accende la radio. Trova una musica che gli piace e rimane con le mani sullo stereo, perché sa che dopo probabilmente ce ne sarà una che non gli piacerà. Rimane fermo, in attesa: continua a interrogare quel piccolo rettangolo di vetro e i suoi occhi, a cercare negli angoli del viso uno spunto per fare conversazione. Come previsto la canzone successiva non gli piace, così preme il tasto per cambiare frequenza. Nulla lo soddisfa. Accende il motore. Arrivato sotto casa ha di nuovo la mano sul tasto. Non ha trovato nulla di meritevole per il viaggio. Dovrebbe comprarsi uno stereo nuovo, migliore, così da non essere obbligato ad ascoltare soltanto la radio.

Sono le nove e mezzo.

Mette sul fuoco un caffè e si sveste. Indossa una tuta blu e delle ciabatte verdi con sopra disegnato un delfino. Sono ciabatte estive, di plastica, e infatti le dovrebbe buttare perché gli fanno puzzare i piedi. Attende davanti al fornello che il caffè sia pronto e poi lo versa in una tazza bianca con sopra disegnato un elefante. Aggiunge dell’acqua del rubinetto, perché non ha mai voglia di aspettare che si raffreddi.

Di fianco al frigo c’è uno specchio, lungo, che Viktor ha spesso pensato di spostare ma che invece è rimasto sempre al suo posto. Indugia qualche secondo, si guarda. Il pantalone della tuta è sgualcito in basso a destra, perché lo trascina con il tallone sul pavimento. Non ha mai capito perché gli si sgualcisce e buca solo il lato destro di tutti i pantaloni che usa in casa. Deve essere qualcosa collegato alla postura. Regala un’ultima occhiata alla sua immagine, tirchia di proposte, poi scivola via. Si siede sul tavolo della cucina, accende una sigaretta, sorseggia il caffè, sfoglia stancamente la 19

pubblicità di un centro commerciale. Dovrebbe comprarsi uno stereo nuovo per l’auto. Anche uno spremiagrumi. Le televisioni costano sempre meno.

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