Nessuna croce manca

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TORNEREMO NELLA SUD

Taranto, 24 gennaio 1988 Un’alta colonna di fumo si ergeva sul pratone davanti allo stadio. La videro in lontananza, appena girato l’angolo tra via Dalmazia e il palazzo color mattone con i pilastri di cemento a vista pieno di murales. Un’Alfetta a sirene spiegate con due falchi a bordo tagliò loro la strada, sculettando in curva nello scivolo del controsterzo. «Dai, cazzo, investici: faccia di merda.» Mancavano due ore all’inizio della partita. Lo chiamavano «Il pratone», quel largo spiazzo in leggero declivio di rocce ed erba spelacchiata dove la gente andava a scopare di notte, con i fogli di giornale sui vetri delle automobili che coprivano l’ultimo accenno di pudore. Funzionava anche da discarica: manopole, lavastoviglie rotte, maioliche, lavandini, tubi, e tutto ciò che la domenica gli ultras tiravano addosso ai celerini e ai tifosi delle squadre che venivano a giocare contro il Taranto. Sulla curva Nord campeggiava la scritta: Noi odiamo tutti. Ci volle poco per capire che la colonna di fumo era il segnale di benvenuto per i laziali. Fino all’ultimo momento nemmeno al bar di viale Liguria – dove si riunivano i capi di domenica mattina quando si giocava in casa e di venerdì 9


sera quando si andava in trasferta – erano riusciti a sapere in quanti sarebbero venuti. Una contabilità del coraggio che stabiliva le gerarchie delle tifoserie organizzate. C’era chi diceva che si sarebbero presentati in cinquanta, chi in duecento, chi nessuno, perché se l’erano fatta sotto non appena un postino aveva recapitato loro l’ultima lettera di minacce alla sede degli Eagles Supporters. I laziali. Non era colpa loro, erano pure fascisti come si deve, ma quel gemellaggio con i baresi per un tarantino era peggio di una bestemmia. Qualche chitièstramorto se lo meritavano. Ma erano tipi tosti, quelli, e c’era molta attesa, perché erano a conoscenza del comitato di accoglienza che era stato preparato loro già all’uscita del casello di Massafra. Quel cono vaporoso e acido testimoniava, adesso, che erano arrivati, e qualcuno era andato a riceverli dalle parti del settore ospiti, posto nello spicchio di destra della tribuna coperta. La polizia aveva commesso l’errore di far arrivare gli autobus dove li avevano caricati in viale Magna Grecia prima dell’inizio della partita. Avrebbero dovuto immaginare la serenata di sassi. «Hanno cominciato a lanciare i lacrimogeni!» «Sbrighiamoci, mena, scendiamo giù.» «Prendi delle pietre, mettitele in tasca.» Dindo e Claudio presero a correre in direzione della curva, assieme ad altri ragazzi, presi dal medesimo istinto all’esplosione degli spari, all’odore di nitrocellulosa e cloroacetofenone e alle volanti che belavano eccitando l’atmosfera come una scarica elettrica sottopelle. «Madò, guarda, stanno caricando…» Erano sopraggiunti altri due blindati, e i Carabinieri era10


no scesi con scudi e manganelli. Si erano disposti in schiera con passo svelto. L’avanzo di collinetta dove si fermarono, un dorso di terra arida dove stazionavano i resti spappolati della scatola di cartone di un trenino, dava ai due amici la giusta visuale. Erano nel pizzo più alto della strada che conduceva allo stadio da viale Ancona. Da lontano videro una testuggine di divise nere e grigie, una affianco all’altra, farsi largo in mezzo a un paio di centinaia di ultras. E però, una volta smaltita la sorpresa, la linea d’attacco dei tifosi tarantini si era ricompattata. Volevano fare qualche altra decina di metri, e arrivare ai due autobus carichi di laziali. Quelli restavano ai finestrini a godersi lo spettacolo. Dindo però vide, a un certo punto, che dentro gli autobus stavano cominciando a divellere a calci le aste di appoggio. Tempo un minuto, e quei tubi si sarebbero trasformati in armi da spaccare sul cranio del primo malcapitato. I Carabinieri spararono ancora una decina di lacrimogeni per tenere a bada i tarantini, che via via stavano aumentando di numero. Una cinquantina di loro, con i volti coperti dalle sciarpe, aveva attaccato banda e rispondeva, tirandogli addosso di tutto. Tutto quello che erano riusciti ad afferrare nel pratone. Due cassonetti dati alle fiamme erano stati lanciati in mezzo alla strada. L’odore della plastica bruciata si mischiava a quello dei gas polizieschi in una ributtante nuvola nera. Ma Dindo e Claudio non fecero in tempo. Quando arrivarono davanti alla curva, era già tutto finito. Gli autobus pieni di laziali, che avevano iniziato a intonare canti dai finestrini sventolando i tubolari, erano stati 11


risucchiati da un cancello che si era aperto e richiuso velocemente. L’appuntamento era rimandato alla fine del secondo tempo. «Ehi, dove lo dobbiamo vedere? Come si chiama il tipo?» Dindo camminava sul tappeto di pietre e bottiglie rotte che ornavano l’asfalto. Si erano fermati accanto a uno dei cassonetti in fiamme. «Chiodo. Si chiama Chiodo. Dentro la curva, vicino allo striscione dei Rebels.» Claudio rispose senza alzare lo sguardo. Si era accosciato per raccogliere un pezzo di vetro. Cominciò a giocarci riflettendo la luce del sole. «Scusa, perché lo chiamano così?» Dindo era incuriosito da quel ragazzo che avevano incontrato la sera prima in via d’Aquino. Basso e segaligno, i capelli neri cortissimi a fare da cornice a due occhi a palla del colore della notte. «Sta in fissa coi dark, e tiene sempre addosso ’sto giubbotto di pelle con le borchie. Non se lo toglie manco d’estate. E poi è secco come un chiodo. Capito mo’?» «Ma qual è il suo vero nome? Tanto per sapere.» «Francesco. Si chiama Francesco Cosentino.» Sulle cancellate dell’ingresso 1 qualcuno aveva scritto «L’Istria all’Italia», firmandosi con una croce celtica. Subito sotto qualcuno dei collettivi aveva risposto con dello spray rosso: «E Gullit al Taranto». I due amici si misero in fila. I bagarini svendevano gli ultimi biglietti rimasti, volevano entrare anche loro. Dindo alzò la cerniera del suo Schott nero, che si era slacciato prima per il calore della corsa, e aggiustò la sciarpa rossoblu annodandola al bavero. Gliel’aveva regalata Giampaolo Spagnulo, il portiere del Taranto, che abitava nel loro 12


condominio. A Claudio aveva invece donato un pallone di cuoio con le firme di tutti i giocatori che nessuno s’era mai permesso di calciare. Terminati il carosello e la sassaiola, la situazione era tornata calma. La nube nera era evaporata. Quelli che si erano fatti acchiappare, una decina, erano stati caricati sui cellulari delle guardie. La gente stava, biglietto in mano, nella fila ondeggiante. Qualcuno spingeva, più che altro per ammazzare la noia. Si sentiva un rumore diffuso di radioline sintonizzate su Tutto il calcio minuto per minuto. Bisognava tenere il culo posato allo stadio Iacovone, ma intanto gettare un orecchio ai campi di serie A. Il solito complesso di inferiorità delle provinciali. A loro due, che di Milan, Inter e Juventus se ne fottevano proprio, questa cosa aveva sempre dato fastidio. C’era il Taranto, e doveva bastare anche se stava facendo un campionato di merda, ed era da inizio anno a un passo dalla zona retrocessione. La serie A non era mai arrivata, il destino porco dieci anni prima aveva infilato Erasmo Iacovone tra le lamiere in un incidente stradale, e con lui il sogno della promozione; e già quella era una punizione che faceva cristonare la gente per la malasorte. Un altro anno di serie C sarebbe stata una condanna ingiusta per i migliaia che ogni due settimane andavano a vedere Paolucci, Roselli e De Vitis, con la flemma rabbiosa di una processione di fedeli. Alla Lazio bisognava togliere punti. Bisognava vincere proprio. Spezzargli le ossa dentro e fuori il campo. Dindo si accorse di avere ancora le pietre in tasca. Le mollò a terra prima che il ragazzo che staccava i biglietti controllasse il suo. 13


Il tizio alle sue spalle commentò: «E che ti eri messo le pietre in tasca perché tenevi paura di volare?» Lui abbozzò un sorriso. Magro, era magro, in effetti. I jeans Avirex comprati un anno prima gli stavano larghi di una taglia, dagli strappi sulle ginocchia uscivano due ossi sbozzati di asciutto. Con i Dr Martens neri sembrava uno spaventapasseri. Eppure mangiava abbastanza, come deve nutrirsi un quindicenne che va in palestra tre volte alla settimana. Al suo confronto, Claudio sembrava un culturista. Entrarono nel settore di destra, e la curva era quasi già piena. Come nelle grandi occasioni. Molti erano in piedi con le mani nei giubbotti, in attesa che i capi chiamassero i primi cori. Dei vaffanculo contro i laziali erano già partiti, ma erano solo schermaglie, l’antipasto della scenografia, l’anticipazione della canizza. A piccoli passi, facendosi spazio tra i gradoni, raggiunsero Chiodo. Era arrampicato su una balaustra, dove erano montati anche tre grossi tamburi, grancasse da banda riadattate con lo scotch per essere battute con delle piccole mazze. Si scambiarono un veloce cenno di saluto. «Tuttapposto?» «Tuttapposto.» La loro attenzione era rivolta a quanto stava avvenendo in campo. O, per meglio dire, nella tribuna ospiti. Un paio di ragazzi della curva Nord erano riusciti a intrufolarsi tra le maglie larghe dei controlli raggiungendo – questo vedevano a un centinaio di metri di distanza – la zona sottostante lo spicchio di seggioline occupato dai laziali, che avevano appeso due striscioni, tra i quali uno stendardo con la testa di un’aquila imperiale. Uno dei due compari, un capellone magrissimo con un bomber arancione addos14


so, aiutato dall’altro che gli faceva cavalluccio, cominciò ad arrampicarsi. Un centimetro per volta, saliva, stando attento a non farsi beccare dalla pattuglia di biancocelesti che stava assiepata sulla balaustra. Ci fu attimo di silenzio, poi un grande ohhhh di incitamento cominciò a salire dal pubblico, e continuò a crescere di intensità fino a che non riuscì ad afferrare lo stendardo, strapparlo via e scappare a più non posso in direzione della curva con il bottino di guerra, tra le risate e i cori di scherno di tutto lo stadio. Avevano rubato uno striscione, e questa per un gruppo ultras era una delle onte peggiori che si potesse subire. La furbata aveva avuto successo. E il canto di guerra ebbe inizio. Benvenuta, adrenalina. All’intervallo, con il Taranto in vantaggio per 3 a 1, furono accesi alcuni fumogeni rossi per salutare la squadra che entrava negli spogliatoi. Dindo e Claudio raggiunsero Chiodo, che stava seduto su un gradone a fumarsi una sigaretta. Accanto a lui un capannello vociante: alcuni dei Rebels parlavano con i capi degli altri gruppi della curva. Chiodo aveva percosso il tamburo per tutto il primo tempo, sbatteva all’aria il braccio sinistro come lo volesse rianimare, e non sembrava aver voglia di chiacchierare. Loro si avvicinarono lo stesso, e lui si rivolse per primo a Claudio. «È questo l’amico tuo?» La sua testa rasata metteva bene in vista i tre orecchini – uno a cerchio, uno di zircone, uno a neo – che gli spuntavano dal lobo sinistro. «Dindo. Mi chiamo Dindo.» Notò che la terminazione di un tatuaggio a due colori, nero e rosso, gli copriva quasi per intero il dorso della 15


mano destra. Solo nei fumetti giapponesi aveva visto robe così. Chiodo portava i suoi vent’anni con la fatica di una maturità arrivata troppo in fretta. Da due anni lavorava nel Siderurgico, gli aveva detto Claudio. Operaio diplomato alle cockerie. Un reparto su cui in città giravano storie bruttissime, storie di malattie che esplodevano e rabbie tacitate con congrui incentivi al prepensionamento. Lui era ancora agli inizi, eppure nello scavo irregolare del viso, negli accenni rugosi tra le sopracciglia, si riusciva a leggere un accenno di consumazione prematura. Di allenamento alla fatica bestia. Per questo a Dindo quel ragazzo piacque subito. Lo immaginava uno che va al sodo delle cose, che ha fatto della necessità una ragione di adattamento. «Ma che cazzo di nome che tieni! È la prima volta che venite in curva?» «No, ma fino a mo’ ci mettevamo là», rispose Claudio. Indicò uno spicchio della curva che stava in alto a sinistra. Appena sotto era appeso lo striscione del Collettivo. «Ho capito. Stavate in mezzo ai compagni. Bella storia… meno male che ti ho preso per le orecchie, l’altro giorno.» Tirò fuori dalla tasca del giubbotto di pelle un pacchetto di Merit gialle. Offrì loro da fumare, e i due amici si sedettero con lui sui gradoni. Giusto il tempo di chiarirsi delle cose che volevano sapere. La vera ragione del loro incontro. Dopo poco, Taranto e Lazio emersero nuovamente dal sottopasso e ricominciarono i fuochi artificiali. Le braccia spalancate in alto come frecce al cielo. Torneremo nella Sud con le spranghe a caricar… La Lazio riuscì ad agguantare il pareggio. Un colpo di testa di Muro a sei minuti dal termine. Una palla giunta 16


nel sacco per colpa della pessima guardia di Paolinelli aveva ricacciato in gola l’esultanza per una vittoria che sembrava davvero a un tiro di schioppo. Diecimila facce ammutolite. Il regalo funesto di un cazzo di colpo di testa a sei minuti dal fischio dell’omino nero. Sulla strada del ritorno, il sole si stava accucciando nel suo precoce riposo invernale. Il poco calore che aveva emanato nelle ore precedenti era del tutto sparito, quando si fermarono al muretto. Della partita c’era poco da discutere. Certe volte l’orologio non fa la magia giusta. I laziali stavano ancora rinchiusi a svernare dentro lo Jacovone aspettando che tutti quanti tornassero a casa. Allo stadio, era impossibile avvicinarli. La polizia aveva già fatto una stupidaggine, e non poteva ripetersi. Di sicuro avrebbero organizzato loro qualche scherzetto sulla Appia, ne erano certi, o così avevano capito dalle parole che avevano captato nell’intervallo. La loro testa comunque stava altrove. Chiodo aveva spiegato loro bene. Era sciocco fare una scelta solo perché avevano pestato uno sconosciuto davanti ai loro occhi e loro erano corsi a difenderlo, anche se quell’anonimo dal terzo minuto dell’intervallo aveva un nome, Alessandro, e la nomea di un bravo ragazzo. Aveva consigliato loro di pensarci, tanto nessuno li inseguiva. Comunque sia, si erano tesserati ai Rebels. Un passo l’avevano compiuto. Sulla tessera, un cartoncino bluastro con le scritte rosse, c’era una croce celtica arpionata dalle zampe di un’aquila. Dindo aprì il portafoglio e ne estrasse una pallina di stagnola. 17


«Proprio mo’ lo devi fare?» «Tengo voglia, che vuoi, mica sono problemi tuoi. Mi va di fumare da solo, una volta tanto, senza quegli scrocconi degli amici nostri.» Dindo aveva già sbriciolato su un pezzo di carta il contenuto di una sigaretta. Aprì la stagnola, e ne uscì un tocchetto che pareva carbone molle che si mise a riscaldare con l’accendino. Prese una Rizla, strappò in due un biglietto usato dell’Amat per fare il filtro e, con una mossa rapida, mischiò tocchetto e tabacco, arrotolando tutto quanto; a Claudio, ogni volta che vedeva il prodotto finito, ricordava la forma di un preservativo bucato. Il primo tiro gli provocò un leggero colpo di tosse. Le chiamava «scosse di assestamento». Un odore dolciastro di caramella bruciata, denso e pesante, si propagò attorno a Dindo. «Quando fumi quella merda mi sembri più cretino di loro.» Non si scompose più di tanto. Il fumo cominciava a fare il suo effetto. Si chiuse a riccio per non lasciar rovinare la sua creatura da folate di vento. «Vabbuò, fatti miei.» Di fronte a loro stava il grande ulivo nodoso e anziano che si ergeva in mezzo ai caseggiati. Una piccola pattuglia di ragazzini ci giocava, attorno, a nascondino. «Andiamo a parlare con Gorgo? Dovrebbe stare a casa, adesso. Il Professore non le ha dato il permesso di venire con noi perché ha preso tre in francese e domani tiene il compito in classe.» Dindo non disse che aveva insistito in ogni modo, trin18


cerato nella nuova cabina telefonica che la Sip aveva montato in viale Trentino, perché ignorasse gli ordini del padre e li raggiungesse vicino allo stadio. Lei per un attimo era sembrata sul punto di cedere, poi aveva pensato che così avrebbe saltato di certo il sabato appresso al Cotton Club e aveva detto a Dindo che era molto gentile a incaponirsi, ma che no, preferiva stare con loro senza rischiare paternali e punizioni. Tanto il Taranto giocava ogni domenica, e se doveva far imbufalire il Professore avrebbe preferito farlo per qualcosa che ne valeva davvero la pena; una trasferta, ad esempio. «Citofoniamole. Che ci costa.» «Se il Professore ti vede vestito così, ti chiude la porta in faccia.» Indicò i pantaloni mimetici, che Claudio aveva infilato dentro gli scarponi. Il bomber grigioverde. La coppoletta nera. Ma tanto, che problema c’era. Mica riusciva a vedere dal citofono. L’avrebbero fatta scendere. Cinque minuti di ricreazione il Professore non poteva negarglieli. Passeggiavano su un tratto di marciapiede scalcagnato, tirato all’aria per aggiustare delle tubature e mai più riparato. Rimanevano resti di pavimentazione divelta e una frollata di pietre e terra umida. Gorgo ascoltava. Era scesa in tuta, Superga, un giaccone Henry Lloyd verdastro con il colletto blu, i capelli ricci e neri tenuti su con una pinza. Gli zigomi, satinati, di pelle fresca, risaltavano con maggiore precisione in quella luce di tramonto in cui il rosa e il pesco si erano impadroniti del cielo e coloravano di pastello i muri e i lampioni. Un gruppetto con le sciarpe dei Rebels attraversò la strada. 19


Chiesero notizie. Una decina di macchine erano in viaggio verso l’Appia, dalle parti della direzione nuova del Siderurgico, ad appostarsi con pietre e biglie per augurare ai laziali un felice ritorno a Roma. Dindo pensò alle elementari, a quando era stato lì, nei pressi di quell’edificio ocra e nero con le grandi finestre e le porte elettroniche, con la signora maestra, i grembiuli bianchi e blu e le cravatte verdi con la E di Europa. Con la sua classe, aveva piantato dei minuscoli eucalipti, che avrebbero dovuto assorbire le polveri rosse del Siderurgico. Gorgo si scusò per l’abbigliamento alla che me ne frega, ma per una camminata sotto casa con gli amici se lo poteva permettere. Della rissa davanti al liceo di via Abruzzo sapeva già tutto, il pomeriggio del venerdì la notizia aveva fatto il giro di tutte le scuole di Taranto, deformandosi in contorni sbracati e particolari tanto fantasiosi quanto attendibili; da una storia di tre contro cinque – meglio sarebbe stato dire di due più uno, perché Dindo e Claudio erano corsi in soccorso del solo Alessandro – viaggiando di bocca in bocca si era trasformata in un parapiglia di venti a venti tra fasci e compagni che aveva lasciato sull’asfalto sangue, denti rotti, i resti di una Cagiva e pure quelli di un professore di latino che era uscito da scuola per cercare di sedare la baruffa e ci aveva rimesso la montatura nuova degli occhiali. Piuttosto, era ansiosa di sapere quello che gli aveva detto Chiodo. Lei non lo conosceva ancora, e gli occhi ingolositi di Dindo – le volte che stava così sfatto, il loro verde scoloriva in un azzurro acquoso e timido – stimolavano ancora di più la sua curiosità. Diede un leggero colpo al cappellino di lana bianca per aggiustarlo sulle orecchie. Soffriva maledettamente l’umido. Da quando, nel 1979, la società editoriale aveva trasferito 20


il padre dalla Campania, con la promozione a direttore del quotidiano di Taranto, non si era mai abituata a quel clima che umettava gli indumenti di una sostanza rugiadosa anche d’inverno. Lanciò una rapida occhiata a Dindo e Claudio. La voglia di una conferma le brillava in volto. «Che si fa, allora?» «Andiamo. Deciso.»

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