In principio. Ci fu una e-mail
Alla c.a. del Prof. Daniel Di Schüler e p.c. alla c.a. del Prof. Daniele Scolari Loro Sedi Egregio Prof. Di Schüler, come da accordi intercorsi tra Lei e mio cognato, Daniele Prof. Scolari, in Vostre e-mail del 18 e 19 c.m. (cfr. riff. in calce), Le invio con la presente… Sono arrivato fin lì dove iniziano quei puntini, prima di ricordarmi che non stavo rivolgendomi a un cliente o a un fornitore. Non ho cancellato quelle righe, però. Credo che in un certo qual modo mi presentino; che dicano molto di quel che sono stato e di quel che è stato il mio lavoro fino a qualche mese fa. Poco da aggiungere, per quanto mi riguarda; se leggerà quel che ho scritto, di me saprà tutto quel che credo di sapere io. Solo vorrei spiegarle come è nato quel testo che, così come appare ora, potrebbe lasciarla perplesso. Una decina d’anni fa credo di aver attraversato la più classica delle crisi di mezza età. Come tanti, mi sono messo a scrivere. Una decisione meditata e sofferta. Per almeno una serata. Un romanzo? No, ci ho pensato su per una bella mezz’ora, ma non mi è venuta in mente nessuna trama. Un’autobiografia? Esatto, una specie. Il racconto di una mia giornata. La descrizione minuziosa, scientificamente precisa, di ogni mio
gesto, di ogni mio pensiero, dal risveglio al momento in cui avrei spento la luce. Mi creda, avevo già deciso come sarebbe finito, il mio capolavoro. Con un «e furono le tenebre». Dopo almeno mille pagine. Che c’è? Sta male alla sola idea di leggerlo? Non si preoccupi, il furore creativo mi è durato appena una notte. A qualcosa, però, quella febbre credo sia servita. Me ne sono reso conto qualche mese fa, quando ho ritrovato quelle pagine nell’hard disk di questo catorcio di computer. Ho sorriso della mia ingenuità d’allora, ma pure ho considerato che avrei potuto, ora che non ho altri impegni, completare il lavoro che avevo solo iniziato. No, non proseguendo in quella follia, ma spiegando la vita e il mondo dentro cui era nata. Come farlo? Ha presente certe edizioni dei classici? Ha presente le note a piè di pagina che informano il lettore del significato di certi vocaboli usati? Be’, mi sono autoannotato. Il risultato è quello che, se il file si aprirà senza problemi (mi faccia sapere, in caso contrario), spero trovi il tempo e la voglia di leggere. E ora, se mi consente un ritorno al passato: in attesa del Suo cortese riscontro, colgo l’occasione per porgere distinti saluti. Rag. Alberto Cappagalli
Quel mattino si risveglia. Un ricostituente o un lassativo? Non ricorda o forse non ha mai saputo che fosse, quel farmaco taumaturgico che, nell’età più felice e remota, sua madre soleva distillargli in mezzo bicchier d’acqua, contando ad alta voce fino a sei. Ma proprio così il mondo gocciola in lui: piangendo condensate lacrime di un presente oleoso che offuscano il sonno già terso, dapprima di cirri striati, poi di nembi che si fan più corposi. Vorrebbe che l’istante sostasse. – Magari una bella oretta. – Vorrebbe non si dileguasse la calda bolla di un sogno che già non ricorda se non per un vago languore e per l’alone di un sapore, forse dolce, che vuole avvertire a fior di labbra. Il calore si fa corpo. Non è più una vaga idea: è il soffice peso del piumone. – Ma che ore saranno? – Dovrebbe guardare la sveglia sul comodino di sua moglie, per saperlo, tuttavia il farlo, in questo momento va oltre, se non le sue forze, la sua volontà. L’idea di esporre la spalla al gelo lo turba. La sveglia, per la sua miopia, non è che una screziatura di luce vermiglia, oltre il volume oscuro dei capelli di Rosa. Gli occhiali dovrebbe averli deposti sul comodino, alla sua destra, di fianco al portafoglio e davanti a una piccola statua in legno, regalo di un amico d’infanzia. Il primitivo piacere di quel tepore gli provoca un indefinibile ma cattolicissimo senso di colpa; immediato un morso d’ansia appaga il suo bisogno, voluttuoso,
d’espiazione: – Ma perché stamattina non suona? Non è che sono di nuovo finite le batterie? – Un’ultima onda di sonno lo riavvolge come una coccola e lui, debole, le si concede. È questo l’attimo nel quale, subdolo, il despertador frinisce. Emette tre squilli impuri prima che le dita della mano destra di sua moglie lo plachino repentine. Non vi sono, nel sospiro che lei accompagna a quel gesto, il rimbrotto del brontolio, la rabbia del grugnito o il gemito della protesta dolente: solo s’ode, remota, l’ineffabile e già estenuata rassegnazione della consuetudine. Decide di concedersi la trasgressione decadente ed eversiva di restare lì, immobile, un poco oltre. Avverte i movimenti di sua moglie, lontani come il memento di altri tempi o il presagio d’altri mondi, all’altro estremo del letto. Non deve schiudere gli occhi e scrutar nella tenebra per sapere: ora lei solleva il capo dal guanciale e, con un’unica precisa rotazione del polso, retrocede del giusto le lancette di quella che è tornata a essere una sveglia: lei può attendere tra le coltri un’ulteriore, lussuosa, mezz’ora. Non fosse per Enrico, che deve scortare alla fermata dell’autobus scolastico sotto casa, potrebbe farlo anche più a lungo: lo studio con cui collabora, eufemismo per dire che lei vi lavora quotidianamente ma non per questo è stata assunta, apre alle nove. È sveglio. Del sonno resta ormai solo la pesantezza delle palpebre che, adesso, faticosamente, lentamente, socchiude.
Si ferma lì per un attimo. Mentre una lama di un bigio appena più chiaro gli taglia negli occhi le estreme tenebre di quella che fu l a notte, si domanda: – Che giorno è che è oggi? – Dopo una fugace esitazione, si rivela: – Mercoledì –. Non sa se dispiacersene o compiacersene. Deciso (e credersi tale lo soddisfa) si scopre fino all’ombelico e ne prova sollievo; è ormai oltre il momento più molesto. Desliza lento le gambe da sotto le coltri, avaro anche dell’ultimo centimetro di tepore. Cerca di girarsi sul letto silenziosamente, non vorrebbe ridestare Rosa che, è una delle sue meraviglie, si è già riaddormentata. Russa, lieve. La pianta del piede destro d’Alberto tocca prima il tappeto; pronta la sinistra la raggiunge. È piacevole sentirne il tessuto ruvido e vi indugia. Deciso (non può evitare di ripeterselo, se vuole esserlo. Almeno un poco) infine si erge. Nel materasso, misteriose e inconoscibili, le molle rilasciano un gemito discendente. Lei borbotta roca, quasi il suono abbia origini gastriche: «Ma… rco… io». Lui vi discerne, o forse teme, alcunché di blasfemo. Si bilancia attendendo che i sensi gli si aguzzino. Solo il vago bagliore della sveglia, ora purpureo, rischiara le tenebre. Può figurarsi le ombre chiare delle lenzuola che disegnano il contorno del letto. Ruota sul tallone destro con usata sicurezza fino a trovarsi dritto di fronte al comodino.
Si china e a tentoni riconosce dapprima il telefono, poi fa scivolare la mano sullo smalto del ripiano fino a incontrare il legno della statuetta. Ritira di mezzo palmo le dita e infine è gratificato dalla superficie fresca, polita e appena convessa delle lenti. Ficca il pollice tra quelle due superfici di plastica morbida e trasparente dove poi infilerà il naso, vi oppone l’indice, premendo leggermente sul traverso metallico che marita le due lenti, e alza gli occhiali girandoli verso di sé. Con le dita della mano sinistra ne allarga le stanghette, prima quella destra, poi la sinistra. Regge ora gli occhiali con il pollice e l’indice sinistri, prendendoli vicino al perno della stanghetta sinistra; libera così pollice e indice destri che applica, poi, vicino al perno destro. Le quattro dita reggono, così, perfettamente simmetriche la montatura. Abbandona, ora, la mano sinistra lungo il fianco mentre affida, solo al pollice e all’indice destri, il peso degli occhiali che in un battito di ciglia indossa, con un movimento garbatamente meccanico, sporgendo un poco in avanti il capo e inclinando a destra. Se li aggiusta da ultimo, sempre con la mano destra, fino a che non li sente appoggiati al naso confortevolmente sicuri. Si volta. Incerti si distinguono nelle ombre i profili delle macchie borrose che prima presagiva. Nel largo squarcio là, in fondo al muro, indovina ora la porta. Avanza cauto di tre corti passi e mezzo, avvertendo con lo stinco sinistro il bordo del talamo: sa d’esser prossimo
alla cassettiera dagli spigoli atroci, che già tanto danno gli fece. Uno spiffero, lasciato trapelare dalla mal connessa finestra, come un sospiro gelato gli soffia sullo scroto regalandogli un brivido e un ammonimento: – Le mutande! – Si rammenta di averle appese, la sera prima, sul pomello di lucido ottone che orna il montante del piede del letto. Si piega in avanti, segue con il braccio vieppiù proteso il bordo del materasso fino alla sua fine e avverte, dopo una cesura larga due dita, il gelido ferro della struttura del letto. Serra la mano attorno al montante e lo accompagna verso l’alto fino a che si ritrova, appoggiati nell’incavo tra pollice e indice quasi lì fossero destinati da una legge di natura, gli sleep penzolanti… …Staccarli dal pomolo, dopo averli saldamente afferrati, è questione d’un sol gesto perentorio, quasi uno strattone, dato verso l’alto, mentre raddrizza la schiena. Il suo respiro si fa più profondo, nella tesa vigilia del momento che più esige alle sue ginocchia, reduci da gloriose, ma ormai distanti, estati di calciatore. Finalmente agisce, mentre lo sforzo e forse anche l’ansia gli bloccano il respiro. Il ginocchio s’alza a cercare il petto, che pare cerchi il ginocchio, mentre le braccia, protese, s’abbassano verso il piede. I pollici, ficcati nell’elastico dello sleep, lo estendono con misurata forza: da sole, le aperture per le gambe s’aprono anch’esse un poco, come le stanche O di un giovinetto
svogliato, disegnando in fondo alla mutanda oscura, due occhi fatti dell’ombra – una lacrima più chiara – della stanza. Considera, con lo sguardo attento che fu del cacciatore, per un lungo istante dagli incerti equilibri, quelle aperture sfuggenti, quasi fossero salmoni guizzanti nella corrente, da arpionare col piede teso. Coglie l’attimo: è un lampo. Il piede trova di giustezza il suo bersaglio; vi s’infila e in unico fluire riguadagna il tappeto. Può ora concedersi un respiro mentre, rialzandosi, forguarda nella plastica, a un tempo opaca e trasparente, dell’anta scorrevole dell’armadio, la propria sagoma ingobbita. Non s’ode musica, nell’aria rappresa del mattino, solo il ronco russare di lei, eppure è corale il rispondersi perfetto delle sue membra: è naturale e armonica danza. Si arcua l’alluce, che pigia più forte il polpastrello carnoso contro il tappeto, quasi a trattener le spalle, che s’abbassano e s’avanzano; si piega il ginocchio mentre il gluteo si tende e protende e in avanti si flette la schiena, torcendosi a destra del giusto, ad aiutar nel loro compito le braccia che portano, con utile eleganza, la mano sinistra ad allargare e la destra a stendere lo sleep che preme, come una pastoia, mezzo palmo sopra alla caviglia sinistra. Porta il ginocchio destro quasi a toccare il cuore, mentre la coscia si affonda nel ventre che, ancor opimo per le libagioni festive, preme sul diaframma e gli abbrevia il
respiro: – Questo è l’ultimo anno che facciamo tutti ’sti cenoni. Mi tocca mettermi a dieta –. In fretta, perché gli è arduo mantener la posa, allunga il piede destro per cercar conferma del passaggio, che avverte nella carezza, garbata e ruvida assieme, del suo orlo sul dorso delle dita, mentre le gote gli si riempion d’un soffio che si lascia sfuggir, lento, tra i denti. Deciso ficca il piede che però, trattenuto per il tallone da quel palmo di stoffa destinato a ricoprire la natica, non s’immerge nella mutanda, come egli si attendeva: uno spasmo delle mani, un tirare nervoso l’elastico, accompagna lo spingere della gamba che, a viva forza, libera il piede che può così infilarsi d’impeto nella propria meta, in un moto però fatto ormai di rabbia e non di calcolo, e che ha quindi perso la sua giusta misura. Non ha tempo per pensare: è ancora l’istinto a guidare il saltello che ricompone l’equilibrio. Sente il cuore che gli batte più forte per lo sforzo e l’agitazione, mentre si lascia sfuggire un sospiro di sollievo, che a mezzo s’interrompe, per farsi esclamazione – cazzo! – quando si sorprende nello scoprire che il riflesso dei suoi occhiali, nell’anta dell’armadio, è ora solo a due palmi dal suo naso: – Ancora un po’ e stavolta mi spaccavo la faccia –. Ragiona. Finalmente è ben saldo, piantato sui due piedi che, perfettamente paralleli, stanno esatti sul bordo del tappeto: i talloni ancora ne calcano il tessuto e, mentre le frange dell’orlo gli vellicano gentili l’arco plantare, le dita già sentono, assai più liscio e d’un nulla più fresco, il parquet.
La ode rigirarsi infastidita nel letto, mugugnando una lunga protesta di cui giusto intende l’alfa – allora? – e, ridotta a un sibilo, l’omega: – …far casino –. Riprende gli sleep, che aveva lasciato poco oltre le rotule, e, dopo avervi ficcato dentro i pollici, li guida verso l’alto, facendoli scivolare su per le cosce, fino a quando si arrestano contro le pudenda che sollevano delicatamente e leggermente spingono all’infuori. Si compiace del peso della propria virilità, o forse lo commisera. Certo pare vi sia una nota triste nel sospiro, pur appena accennato, che si lascia sfuggire quando, dopo averli di nuovo allargati, stavolta infilandovi un solo pollice e tirandone dapprima l’elastico in avanti, fa risalire gli sleep fino alla loro definitiva posizione: – Ecco re-imballata la mercanzia… – Sta in quei pochi centimetri quadri di tessuto la misura della decenza che sente d’aver recuperato; abbastanza da volgere il capo e la propria attenzione verso la porta, oltre la quale l’attendono il giorno e le sue cure. Un vago baluginar di metallo nel buio è la maniglia. È ancora il suo tallone destro a conficcarsi nel tappeto e ruotar per primo di quell’esatto quarto di giro che è il necessario. Gli bastan due passi ora, sommamente leggeri, fatti appoggiando dapprima la punta dei piedi e solo poi, con studiata lentezza – se la sveglio del tutto, poi quella… – i calcagni, a raggiunger quel che della notte considera in cuor suo l’estremo confine. Si muove per antica consuetudine, la mano che sale a incontrare l’ottone. Si serrano le dita attorno alla maniglia
che subito, aiutate dal polso, abbassano. Di un nulla dapprima, poi di un altro nulla e poi di un altro ancora. È sempre il timore dell’ira coniugale a suggerirgli tanta cautela e a strappargli una muta imprecazione – ma porca di una – quando lo scatto metallico del chiavistello gli pare rimbombi nella stanza. Non fiata. Ascolta. Lei è tornata a russare. Si rilassa. E quasi con noncuranza spinge la porta. I cardini, che da troppo si era ripromesso d’ingrassare – ci vorrebbe dell’olio per la macchina da cucire. Ma dove lo trovo, di questi tempi? – lo puniscono emettendo un gemito alto quanto quello di un lamantino ferito dalla ruota a pale di un battello alla foce del Mississippi. – Ma… – Con la congiunzione avversativa inizia la recriminazione che s’alza dal letto a trafiggergli vieppiù l’orecchio. Sa quel che le seguirà, e cerca di sfuggirgli. Spalanca quindi la porta e d’un balzo, o perlomeno d’un balzello, ne attraversa il vano, atterrando sulle artiche piastrelle del corridoio. Con una piroetta, quasi fosse davvero ghiaccio quello su cui si trova e ai piedi avesse dei pattini, compie un mezzo giro e si affretta a richiudere. Appena in tempo per smussare il filo tagliente della doppia zeta che sibila nell’ultimo saluto di sua moglie, che pure resta perfettamente discernibile: – …azzo –. Si volta ora a sinistra, mentre non sa definire il sapore del rimpianto che gli sale alla bocca – una volta mi dava un bacio, prima di uscire – come non sa nominare il colore del primo chiarore del giorno che traspare dal vetro lattiginoso della porta che s’apre sul soggiorno; luce che
già stempera l’arancio di quella del lampione, ma ancora tanto tenue da non esser neppure cinerina, come sono sempre le albe, da quelle parti, anche in quella stagione che dovrebbe esser bella. Verso quel lucore s’avvia, rinunciando ad accendere la plafoniera che, se alzasse la testa, si vedrebbe dinnanzi; non sopporta l’infermo verdastro di cui si tingono le quaranta candele della sua lampadina attraverso quella semisfera di vetro azzurrino. Alzando prima la gamba sinistra e avanzando, muove un passo. Vorrebbe fosse risoluto; quello d’un uomo che va a compiere quel che sa essere il proprio dovere. La schiena piegata, le spalle spioventi e le braccia che gli penzolano inerti lo fanno apparire come il passo d’un condannato sulla via che conduce all’estremo castigo. Completa un altro passo. Urla. In perfetto silenzio, ma con tutto il fiato che ha in corpo: – Ma porca di una vacca, di una troia, di una maiala puttana! – Non è tanto il dolore che prova al piede destro, pur ferito alla sommità dell’arco plantare, là dove più fine e sensibile è la sua pelle, a strapparglielo; è la sorpresa che presto sfuma nella comprensione, questa sì atroce, d’esser stato ancora una volta tradito dalla carne della propria carne: – Ma quante volte glielo devo dire, di non lasciare in giro ’ste macchinine? – Sta già saltellando sul piede sinistro, mentre accartocciato si massaggia il destro, quando pronuncia queste ultime parole… Tre saltelli, tutti sulla stessa piastrella, durati il tempo di capire di non essersi
tagliato, ma non quello di smettere di recriminare. – E pensare che io, alla sua età… – continua a dire, mentre con uno sbuffo, piegandosi un poco sulle ginocchia, con il ventre che pare gli si gonfi a tendere la scritta Casa del Maiale, verde pineta sul bianco antico della maglietta che egli chiama «da notte», si abbassa a cercare l’artilugio che gli era stato d’inciampo. Lo individua, scura forma di cui solo il contorno spicca sul pavimento chiaro, lo raggiunge e lo serra con le dita della mano destra, quindi, con un lamento, tra lo scricchiolio delle ginocchia e quello, forse meno fragoroso ma certo più sinistro, della terza lombare, si rialza e se lo porta davanti al volto. – Il camion dei pompieri. – Si scopre un sorriso sul volto, mentre completa la frase che aveva lasciato in sospeso: – Alla sua età? Be’… sì, giocavo anch’io con le macchinine. E avevo un camion circa come questo –. Lieto, come sempre quando si riconosce nel figlio, tanto pieno d’improvvisa dolcezza che gli verrebbe da paragonarsi a un krapfen alla crema, e dimenticato il fastidio al piede, quasi danza gli altri due passi e mezzo che lo separano dalla porta della cucina che, come quasi sempre, ha lasciato aperto alla fine della sua abituale incursione notturna. Si volge a destra fino a trovarsela di fronte, quindi con un altro passetto la varca appena, mentre con la mano sinistra sfiora il muro, una spanna oltre lo stipite, alla ricerca dell’interruttore che prontamente trova ma, turbato dalla zaffata ancor greve che sale dalla frittrice, con pari prontezza non preme.
Sospende invece lo sguardo nel vuoto, ancor perfettamente illune, poiché è serrata la tapparella che protegge quanto ha di più intimo dall’inopportuna curiosità vicinale – se no mi vedono ogni volta che apro il frigo – e cerca di rammentare: – Bastoncini o sofficini? – Vi rinuncia presto – boh – sottolineando con uno scrollar di spalle appena accennato, la suprema irrilevanza di quella questione. Eppure v’è un che di stizzito – certo che neanche ricordarsi cosa si è mangiato a cena – nello scatto dell’indice che pigia infine il pulsante. Ed è luce. Bluastra. Quella di una rotonda lampada al neon che pende appesa sopra al tavolo, sotto a quel che pare un catino di porcellana bianca rovesciato: un lampadario che può salire e scendere, grazie a un contrappeso a forma di grossa pigna e che, perlomeno nell’insindacabile opinione di Rosa, è un «mezzo capolavoro di modernariato». E lui non sindaca. Avanza di un passetto, piuttosto, prima di lefàtare, aggirando d’un nulla lo spigolo della cucina, e farne altri tre, un poco più distesi, sulle piastrelle ora diventate più piccine e di quel che lei chiama cotto anticato, fino a fermarsi con il bacino a tre dita dal ripiano di marmo, pure anticato, che, partendo dai fornelli, gira attorno a quasi metà di quel locale… Subito allunga il braccio, che si sorprende d’aver lasciato piegato contro il petto, e posa, davanti a una minuscola bilancia di cui non ha mai compreso appieno l’utilità, il giocattolo del figlio, che ancora teneva nella destra.
Ne considera la livrea, con un solo sguardo «sì, anche il colore. Lo stesso rosso di quello che avevo io», per evitare che troppa tenerezza lo sommerga «e anche a me lo aveva regalato papà», quindi ha la prontezza di tornare a occuparsi delle due più impellenti necessità che possa avere un uomo che si sia appena ridestato. Dapprima il caffè. La macchinetta è lì, alla portata della sua mano sinistra. È addormentata; lo dice il vermiglio della pupilla in centro al suo tasto d’accensione. Gli basta ancora l’indice per premerlo, far diventar smeraldo quella lucetta e ridestare il draghetto di metallo lucente, anche se ci vorranno alcuni minuti prima che sia pronto a soffiar vapore. Subito dopo, la televisione. La più piccola delle quattro che hanno in quella casa, si trova al capo opposto della cucina, quasi esattamente alle sue spalle, a fianco del tavolo dove sono soliti mangiare. Per accenderla, però, non deve far altro che mandare la propria mano destra a recuperare il telecomando che Rosa ha lasciato sopra al monolite di lamiera smaltata e vetro affumicato del forno a microonde. Usa il pollice, stavolta, per schiacciare il bottone del quinto canale… Non si volta, nel farlo. Solo si porta il telecomando all’orecchio, lo punta all’indietro, all’incirca in direzione dell’apparecchio, e lo aziona, fino a sentire una voce femminile, a un tempo sensuale e nasale, dire qualcosa a proposito di una ricetta della più tipica cucina abruzzese o forse di un’operazione chirurgica, prima di posarlo dove l’aveva trovato.
A questo punto fa dietrofront. Alla voce della donna, si unisce quella di un uomo. È roca; anzi, cavernosa. Pare che i due stiano per fare l’amore o che abbiano da poco finito di farlo. Si limita a sguardarli, mentre compie il secondo dei tre passi e mezzo che, facendogli di nuovo sfiorare l’angolo mai abbastanza maledetto, lo fanno tornare alla porta. Con un successivo mezzo passo se la lascia alle spalle, ma non la richiude – tanto ci devo tornare – per subito fare il primo di altri quattro passi e mezzo, iniziati alzando, e conclusi appoggiando, per primo il piede sinistro. Le sue falcate descrivono una diagonale che, attraversando il corridoio e tornando verso le camere, lo fa giungere dinnanzi alla lacca bianca – ma no Alby; non vedi che è avorio – da poche settimane riverginata, di un’altra porta: quella che s’apre sulla stanza che a tante cose serve, ma che è chiamata da bagno, e che lui trova chiusa. La spalanca, con la subitanea energia di chi si decide a levarsi un fastidio, appoggiandovi l’omero sinistro, mentre con le falangine della stessa mano ne preme all’ingiù la maniglia, di disegno diverso dalle altre, più grossa e di un ottone ancor più lucente. Nello stesso slancio entra, ma subito s’arresta e si volta, mentre, con perfetto tempismo e insospettabile grazia di ballerino, la sua mano sinistra lascia la maniglia esterna e la sua destra va a cercare quella interna, per richiudere la porta. Per pudore e prudenza – prima era giusto lei che entrava mentre ero lì che… adesso ci si è messo anche
l’Enrico – s’affretta poi a serrarla, facendo compiere due giri al pomello che fa lì il lavoro che più comunemente farebbe una chiave. Pudore e prudenza gli fan tacere quel che accade nei successivi sei minuti e ventitré secondi. Non che faccia nulla di diverso, questo sì, tiene a precisare, da quel che fan tutti, prima o poi, nel corso della giornata. Solo lo preoccupa un poco che da qualche mese gli ci voglia tanto tempo, e non poca fatica, a fare quel che prima gli riusciva con estrema facilità: – Che sia l’età? Forse dovrei ascoltare la Rosa e provare con le fibre –. Neppure gli pare sia opportuno riferire di certe idee con cui s’è baloccato – certo che poi ti invitano in tivù; come il barbone di stamattina – tra l’uno e l’altro dei suoi molteplici sforzi: – Che poi avrà scritto uno dei soliti libri; uno di quelli dove succede di tutto, ma che non dicono niente –. …Pensieri inutili – «farei un libro dove succede poco, ma che dicesse tutto; una giornata qualunque, ma con tutti i dettagli. Be’, certo, se sapessi scrivere» – e addirittura perniciosi se trattenuti troppo a lungo – «ma poi ci vorrebbero delle ore. E chi ce l’ha?» – mentre si trova di fronte la crudezza della sua quotidiana realtà. Proprio di fronte, quando torna a raccontare, dentro il grande specchio, incassato nel mobile in tiglio tinto ciliegio, dalle forme inutilmente aerodinamiche, che pure avvolge maternamente l’ovale azzurrino del lavabo. E ha due occhi ancor gonfi di sonno, la realtà. E gli angoli della bocca piegati verso il basso.
Ed è stempiata la realtà, con i suoi pochi capelli già spolverati dell’argento di una canizie precoce. Non vuole vederla oltre; leva i propri occhi da quelli del suo riflesso e li punta in basso, ancorandoli al rilucente acciaio inossidabile del miscelatore. Quel gioiello del disegno industriale, dove il lavoro dell’orefice ha incontrato la scienza dell’ingegnere aerospaziale, è comandato da una snella leva. Dovrebbe sollevarla, ma non lo fa subito; resta a osservarla come un monaco buddista farebbe con la ghiaia del proprio giardino. Si perde. Si ritrova. Dal miscelatore scende un filo d’acqua: deve averlo aperto, mentre era sovrappensiero. Se ne preoccupa. Qualunque cosa gli sia passata per la testa, sa di non potersela permettere. Deve riprendere a funzionare. Se lo impone. Si bagna le mani e se le sfrega, ignorando la macchia rosa della saponetta che il buon gusto di Rosa ha posto in un angolo del lavabo su di una saponiera color burro e salvia a foggia di fagiolo che a lui è sempre parso sarebbe stata benissimo nel gabinetto di un medico, magari con dentro una siringa o delle pinze. Con la punta delle dita si bagna appena gli occhi e le tempie, che si sofferma a massaggiare leggermente con l’indice e il medio. Usando anche il palmo delle mani, si stende un velo d’acqua sulle guance, irte di quell’ombra di barba che si appresta a eliminare: – Scriverà, quello là, andrà in tivù, ma se si tiene la barba… –
Alla sinistra del lavabo, meticolosamente piegato in due, è appeso, a una stecca di metallo cromato che si snoda dalla parete, un asciugamano di un colore pallido, tra l’azzurro e il lilla, che crede si dica glicine, anche se non ha precisa conoscenza di cosa questo sia. – Boh? Un fiore, ne sono quasi sicuro. – Torce un poco la schiena, per arrivare a strofinarvi sopra la destra lasciandolo dov’è. Fronteggia di nuovo lo specchio e manda la mano, così asciugata, ad aprire il vetro molato dell’anta dell’armadietto che sta alla destra di questo. Sul ripiano più basso, l’unico che contenga cose sue, lo attende il rasoio che Rosa, tanto sensibile quanto assennata – «ma mettilo via; non vedi che fa schifo» – vuole tenga nascosto alla vista di eventuali quanto improbabili ospiti. Sempre con la destra estrae lo strumento e lo appoggia proprio davanti a sé, sulla mensolina che corre sotto lo specchio. Per quanto sia ingombra di boccette e flaconi, anche sopra questa vi è solo una cosa che gli appartenga: la bomboletta della schiuma da barba; un alto cilindro di metallo blu, nell’angolino destro più lontano. Allunga il braccio per prenderla, la impugna e se la porta a due spanne dal petto. Con la sinistra le leva il tappo, che pure lascia sulla mensola, quindi se la fa ruotare nella destra fino a poter appoggiare il pollice, nel modo più opportuno, al suo tasto, che preme dopo aver disteso la sinistra e averla riposizionata, a mo’ di bersaglio, sotto l’ugello dell’erogatore. Sta attento. Appena il grumo di schiuma sul palmo della mano raggiunge le dimensioni di una grossa noce – inutile metterne di più; non è
che la regalano – interrompe l’operazione e deposita la bomboletta accanto alla saponiera. Divide equamente tra le due mani la schiuma e inizia a distribuirsela sul volto, controllando nello specchio dove cerca di vedersi senza troppo guardarsi. Dapprima sulle guance, usando solo le dita; poi sul collo e sul mento, adoperando anche i palmi: una sottile maschera bianca che completa, usando le punte degli indici, tracciandosi i baffi… Un’ultima rapida occhiata, per esser sicuro di non aver omesso nulla, quindi infilare ancora le mani sotto il rivolo d’acqua; le lava dalla schiuma che vi era rimasta, poi con la destra recupera il rasoio che subito avvicina al volto. Deve riguardarsi allo specchio, ora, seppure un poco di sguincio, per appoggiare la doppia lametta, con la necessaria e millimetrica precisione, là, sul margine inferiore della basetta destra, dov’è solito cominciare a radersi. Non vorrebbe, eppure si trova a fissare il proprio occhio destro; non che scorga nulla di particolare in quella cornea arrossata e in quell’iride di un bruno banalmente slavato, ma il semplice sorprendersi a farlo, lo sconcerta. Reagisce. Stringe più forte l’impugnatura del rasoio, talismano in cui si concentrano rito e abitudine, e torna perfettamente in sé. Già si prefigura il primo solco, che, come ogni mattina, scaverà nell’immacolata schiuma: giù per la guancia, poi in avanti a seguire il profilo della mascella, quindi avanti ancora, fino ad arrivare proprio in centro al mento.
Un lungo sospiro, di cui non vuole chiedersi il significato, un’ultima occhiata alla posizione della lametta ed è pronto a cominciare. Eppure ancora esita.