L'ora solenne. Gli italiani e la guerra d’Etiopia

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INTRODUZIONE. UNA GUERRA DIMENTICATA

Ufficiali, sottufficiali, gregari di tutte le forze armate dello Stato, in Africa e in Italia, camicie nere, italiani e italiane. Il popolo italiano ha creato col suo sangue l’impero. Lo feconderà col suo lavoro e lo difenderà contro chiunque con le sue armi. In questa certezza suprema, levate in alto, o legionari, le insegne, il ferro e i cuori, a salutare, dopo quindici secoli, la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma. Ne sarete voi degni?

Con queste parole, la sera del 9 maggio 1936 Benito Mussolini, affacciato dal balcone di Palazzo Venezia, annunciò all’adunata oceanica di italiani riuniti nelle piazze di tutto il Paese, in collegamento via radio con Roma, la proclamazione dell’impero. L’ovazione che si levò dalla folla in risposta alla domanda del duce fu impressionante, e se si volesse fissare in un momento-simbolo il punto più alto della parabola del consenso che gli italiani tributarono al fascismo potrebbe essere proprio questo. Questo grido – aggiunse subito dopo Mussolini – è come un giuramento sacro, che vi impegna dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini, per la vita e per la morte. 11


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Parole, queste, che si rivelarono tristemente profetiche. L’ondata di entusiasmo e approvazione che la guerra d’Etiopia e la proclamazione dell’impero avevano contributo a generare, infatti, si dimostrò del tutto effimera – come lo fu del resto l’impero, perso già nel 1941 – ma la curva discendente sarebbe stata lunga, lenta, tragica e dolorosa. E gli italiani avrebbero pagato a caro prezzo quel giuramento, prima di poter concludere nella riconquistata libertà e nella democrazia il lungo viaggio attraverso il fascismo. Un lungo viaggio del quale, però, preferirono dimenticare molte tappe scomode. La rimozione postuma di memoria sulla guerra d’Etiopia è stata impressionante, specie se paragonata alla rilevanza che essa ebbe nella vita e nella coscienza degli italiani di allora. Basti pensare che due anni dopo il discorso del 9 maggio, nel 1938, il Touring club che aveva appena cambiato nome in Consociazione turistica italiana per via della stretta sulle parole straniere voluta dal regime, pubblicò una Guida dell’Africa Orientale italiana con una tiratura stratosferica di 490.000 copie. Si trattava di una bella edizione di 640 pagine, con due segnalibri in tessuto, una quindicina di mappe, alcune delle quali a colori, e un’elegante copertina di tela coloniale con l’aquila littoria argentata impressa al centro. Insieme a molti altri volumi celebrativi della campagna militare appena conclusa che presero a fare bella mostra di sé nelle case degli italiani, la Guida, oltre a prospettare un florido futuro di avventure turistiche e affari economici nelle terre annesse, celebrava con tutti gli onori la nascita di questa nuova entità sulla carta geografica mondiale e rendeva omaggio – come spiegava la premessa – «agli italiani di 12


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ogni ceto e condizione che, con la loro disciplina pronta a ogni ordine del Capo, hanno dimostrato come si risponda alle sanzioni applicate da 52 Stati coalizzati nell’illusione di poter infrangere la volontà di un popolo risoluto a trovare il proprio posto al sole»1. Va detto che alla base di queste orgogliose speranze vi erano motivi pre-fascisti già presenti nella cultura dell’Italia liberale, ma che il fascismo aveva inserito nel proprio originale sistema valoriale incentrato sull’affermazione di un ordine e di un uomo nuovo che non potevano prescindere da una revisione dello status quo internazionale e dall’affermazione di una coscienza imperiale nazionale. E va detto altresì che la nemesi di tanta dedizione, partecipazione, entusiasmo, e sogni di gloria e grandezza, sopraggiunse molto presto. Lo testimonia, ad esempio, il fatto che già nel 1947, a soli due anni dalla fine della seconda guerra mondiale, che aveva spazzato via il fascismo e il suo impero africano, il premio Strega fu assegnato al romanzo Tempo di uccidere di Ennio Flaiano. In quelle pagine, l’Etiopia e la guerra che facevano da sfondo alle vicende personali dell’ufficiale protagonista, venivano rese con tutta la loro decadenza, il sudiciume, le asprezze ambientali, le incomprensioni culturali e la voglia di fuga, rendendo giustizia della prosopopea e della retorica del «posto al sole» che così a fondo avevano compenetrato l’immaginario degli italiani in relazione all’Oltremare in generale e all’Etiopia in particolare. L’invasione dell’Etiopia – Stato libero e indipendente, membro della Società delle Nazioni, aggredito senza una formale dichiarazione di guerra – iniziò alle prime luci dell’alba del 3 ottobre 1935 e finì formalmente la sera del 5 maggio 1936, quando le truppe 13


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guidate da Pietro Badoglio entrarono nella capitale Addis Abeba, abbandonata dal negus Hailè Selassiè costretto a fuggire in esilio. La decisione di attaccare l’Etiopia – l’«ora solenne», come l’aveva definita Mussolini nel discorso del 2 ottobre col quale aveva annunciato la guerra – però non aveva avuto nulla a che vedere con le operazioni coloniali vecchio stampo, localmente circoscritte, condotte da piccoli corpi di spedizione nazionali affiancati da truppe indigene e lontano dall’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e internazionale. Per conquistare l’Etiopia, invece, l’Italia fascista aveva messo in campo il più grande e moderno esercito mai visto nella storia dell’espansione coloniale, ormai al tramonto, sfidando apertamente e in nome del revisionismo le grandi potenze europee, con una mobilitazione di truppe e popolazione civile nazionale senza precedenti. La guerra d’Etiopia, dunque, fu una guerra nazionale2 dettata cioè da motivi di prestigio interno e internazionale, come vendicare la sconfitta di Adua e affermare il proprio ruolo di grande potenza imperialista, con la maggiore partecipazione di soldati nella storia dell’Italia unita dopo le due guerre mondiali. Fu inoltre una guerra moderna, perché caratterizzata dal massiccio impiego di mezzi motorizzati e armi di nuova generazione, come i carri armati e soprattutto l’aviazione, sperimentati per la prima volta su così vasta scala, e per questo motivo più simile a operazioni di là da venire – come quelle francesi in Indocina e in Algeria o americane in Vietnam e per certi versi in Iraq – piuttosto che alle precedenti campagne coloniali. Fu infine una spietata guerra d’annientamento e criminale, per il modo in cui fu fatta valere sul campo la schiacciante superiorità tecnica e d’armamento, il ricor14


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so ai bombardamenti a tappeto, l’impiego sistematico delle armi chimiche nei frangenti più delicati del conflitto e la pratica delle rappresaglie anche contro la popolazione civile. Ma soprattutto la campagna d’Etiopia si collocò nel mezzo di un intenso e delicato crocevia storico, tra la prima e la seconda guerra mondiale, ed ebbe caratteristiche e conseguenze molto importanti sotto vari profili: sia nella parabola interna del regime fascista (facendogli toccare il vertice del consenso e l’avvio di una lenta e tormentata fase discendente) sia nella revisione del sistema di alleanze tra le potenze del concerto europeo (sbilanciando definitivamente l’Italia fascista verso la Germania nazista nel ruolo di destabilizzatrice dell’ordine e della pace mondiale scaturiti dalla Grande guerra). Con essa iniziava quella che è stata definita «l’era delle invasioni»3, che avrebbe sconquassato l’ordine e la pace sanciti a Versailles dopo l’ecatombe della prima guerra mondiale e in breve tempo avrebbe condotto l’Europa e il mondo nel baratro di un nuovo conflitto globale. Tuttavia, nonostante questa rilevanza, il dibattito pubblico, l’attenzione storiografica e la memoria successiva della guerra italo-etiopica non hanno avuto la necessaria continuità, alternando fiammate di interesse (specie mediatico, come nel caso del serrato confronto tra Angelo Del Boca e il reduce Indro Montanelli sull’impiego dei gas negli anni Novanta, o in occasione della restituzione della stele di Axum trafugata dal fascismo come bottino di guerra a metà degli anni Duemila) a lunghi periodi di silenzio e oblio. Gli studi storici disponibili – ai quali le analisi condotte in questo volume naturalmente devono molto – hanno senza dubbio raggiunto un buon livello di accuratezza e approfondimento. 15


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La guerra d’Etiopia, infatti, è ampiamente trattata nel Mussolini di Renzo De Felice, Gli anni del consenso4. Ma è in particolare ai lavori pionieristici di Angelo Del Boca, avviati a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, e di Giorgio Rochat, che si deve un’approfondita messa a fuoco delle vicende politiche e militari italiane in Africa5. Una fase successiva di studi e ricerche, che ha portato alla luce nuova documentazione e ha consentito ulteriori approfondimenti di analisi, non solo sulla guerra del 1935-36 ma anche sull’intera questione del colonialismo italiano e del breve periodo di esistenza dell’impero, è stata caratterizzata dagli studi di Nicola Labanca e svariate altre ricerche tematiche e settoriali6. Tra i temi scandagliati spiccano, naturalmente, quello dell’impiego dei gas7, l’atteggiamento della chiesa cattolica8, la memoria (anche fotografica)9, l’impatto su determinate realtà locali italiane10 e la fabbrica del consenso attraverso l’opera ampia e incessante della propaganda11. Ma nonostante gli studi – o per certi versi proprio a causa della loro varietà e specificità – la reale conoscenza, la piena consapevolezza dell’importanza e soprattutto la corretta memoria di questa guerra sono rimasti del tutto limitati fuori dalla cerchia degli specialisti. Il paradosso evidente, cioè, è stato che la conquista dell’Etiopia e la successiva proclamazione dell’impero, che furono tra gli eventi più radicati nell’immaginario collettivo degli italiani e più celebrati dal fascismo, attraverso una mobilitazione senza precedenti, hanno finito per diventare una delle sue pagine più dimenticate nel dopoguerra. Come mai? 16


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Inizialmente la ricerca storica è stata senz’altro ostacolata dalle problematiche di accesso alle fonti, conservate negli archivi governativi e militari (basti pensare che la pubblicazione ufficiale dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito è arrivata solo nel 200512). Ma al di là delle difficoltà nella ricerca, in parte fisiologiche, il vuoto e la distorsione del ricordo sono stati determinati anche da un aspetto più intimo e profondo, perché strettamente connesso alla cultura, la mentalità e la memoria collettiva del dopoguerra. Di fatto gli italiani hanno sempre preferito non fare i conti con gli aspetti più sgradevoli del proprio passato fascista, assecondando una diffusa tendenza a minimizzare le responsabilità, sotto la comoda vulgata di un dittatore e di un regime alla buona, che qualcosa di positivo l’ha pur fatta, anche in Africa dove il colonialismo nostrano è stato più umano e positivo rispetto a quello di altri Paesi per le popolazioni locali che hanno beneficiato della costruzione di strade, ospedali e altre infrastrutture. Un quadro, questo, che per tanti anni ha contribuito a lasciare in ombra, dietro al mito stereotipato degli italiani brava gente, pagine nere come il razzismo, la persecuzione degli ebrei, la partecipazione entusiastica alle campagne d’aggressione nella prima fase del conflitto mondiale, i crimini di guerra nei territori occupati e la collaborazione attiva della Repubblica di Salò all’opera nazista di deportazione e morte. Tale rimozione, ha provocato uno schiacciamento della memoria (e in parte degli studi) sul dissenso diffuso verso il fascismo, che in realtà si manifestò solo dopo il 25 luglio e soprattutto l’8 settembre del 1943, facendo passare in second’ordine il consenso e l’adesione zelante del periodo precedente13. 17


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A questo destino non è sfuggita nemmeno la guerra d’Etiopia, alla quale si è preferito togliere importanza, riducendo quell’imponente e spietata campagna militare – peraltro fuori tempo massimo rispetto all’espansione imperialistica delle altre potenze europee – a un piccolo conflitto coloniale localizzato, passato alla storia più per i motivetti spensierati che l’accompagnarono (Faccetta nera su tutti) che per i bombardamenti terroristici, il ricorso sistematico e a lungo negato alle armi chimiche, le migliaia di vittime tra i nemici valorosi ma del tutto privi di armi ed equipaggiamento per affrontare una guerra moderna, e i metodi feroci e razzisti adottati nei territori occupati. «Il segreto [dei gas] – ha osservato ad esempio Angelo Del Boca – è durato quasi ottant’anni. Se qualcuno, documenti alla mano, cercava di dimostrare che il regime fascista aveva usato l’arma chimica nel corso delle sue guerre africane, veniva prontamente sbugiardato, messo a tacere in malo modo, minacciato o, nel migliore dei casi, deriso e messo alla gogna come anti-italiano»14. Questa «esperienza collettiva nazionale difficilmente sottovalutabile» – come l’ha definita Nicola Labanca – si trasformò cioè in un ricordo «rimasto spesso imbarazzante, collegato come fu a entusiasmi nazionalistici e a un sostegno al regime persino da parte di chi più tardi avrebbe negato al fascismo e a Mussolini ogni legittimità, o addirittura lo avrebbe combattuto in armi»15. A questa complessa vicenda italiana è dedicato il presente libro, che analizza l’opinione, il sentire degli italiani di fronte alla guerra d’Etiopia, dalla lunga fase di preparazione che la precedette, sotto il martellamento costante della propaganda, alle grandi manifesta18


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zioni di piazza che accompagnarono l’inizio delle operazioni, fino all’apoteosi rappresentata dalla proclamazione del tanto ambito impero, passando per la fase della resistenza al cosiddetto «assedio economico» per via delle sanzioni imposte dalla Società delle Nazioni in risposta all’aggressione. Abbiamo analizzato cioè l’insieme delle emozioni, dei sentimenti, delle speranze, delle considerazioni, delle convinzioni, degli ideali, delle illusioni (poi disillusioni), dei miti e delle aspettative degli italiani in patria e al fronte, fermo restando gli inevitabili distinguo quando si procede ad analizzare per linee generali un tema così ampio e articolato. Questa analisi dello spirito pubblico – definizione utilizzata all’epoca, più adatta del concetto di opinione pubblica per riferirsi a un regime autoritario che vietava e puniva le opinioni diverse da quelle dominanti – è stata condotta sulla base di un intreccio di fonti esclusivamente coeve, pubbliche e private, ufficiali e non, in grado di controbilanciarsi e completarsi a vicenda, fornendo un quadro nitido sufficientemente consapevole dei condizionamenti del tempo e protetto dalle distorsioni della memoria successiva. Le fonti utilizzate vanno dalle relazioni delle autorità locali e dei federali del Partito nazionale fascista sulle attività svolte e sulla situazione locale, alle carte di polizia relative agli atti ritenuti sovversivi o di opposizione, dalle note fiduciarie delle spie dell’Ovra – il misterioso braccio segreto della polizia politica che scrutava incessantemente gli italiani e ne rendicontava in modo capillare e sistematico comportamenti, atteggiamenti e pensieri – alle lettere a Mussolini, fino alla corrispondenza privata e ai diari privati dei combattenti, fatta eccezione naturalmente per quelli che furono pubblicati tra il 1936 e il 1938, essendo certamente rielaborati, 19


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rispetto agli scritti in presa diretta destinati semplicemente ad annotare i propri pensieri e non a una diffusione pubblica16. Ne è emerso un ritratto dettagliato e sfaccettato di quanto fosse ampio e radicato il consenso e l’entusiasmo manifestato dagli italiani di fronte alla decisione di Mussolini di invadere l’Etiopia; e soprattutto quanto fosse trasversale, coinvolgendo uomini e donne di ogni età, di diversa estrazione sociale e di ogni angolo della penisola. Si percepisce nettamente come, a dispetto della memoria successiva, fossero state in realtà ben metabolizzate, condivise e introiettate le istanze alimentate dalla propaganda di regime, come l’ambizione e le aspettative del «posto al sole», il diritto all’espansione, la necessaria superiorità razziale per pretenderlo, la valenza patriottica (ma sarebbe più giusto dire nazionalistica) e cristiana della causa e l’avversione verso la Società delle Nazioni e le grandi potenze egoiste, restie a consentire una più giusta ed equa ripartizione delle risorse e della ricchezza a vantaggio dei Paesi giovani e proletari. Si evince, inoltre, quanto fosse profondo il mito personale del duce e più in generale come fosse diffuso il consenso verso il suo operato e il fascismo, arrivando a produrre una crisi d’identità e di capacita operative dell’antifascismo, spiazzato sia dalla condivisione al suo interno di alcune istanze patriottiche messe all’ordine del giorno con la guerra d’Etiopia, sia dalla compattezza dimostrata dagli italiani nel sostenere il regime impegnato a realizzarle. Ma s’intravedono anche quegli elementi di debolezza e di disillusione, quelle contro-istanze che una mobilitazione così pressante e di massa – basata su aspettative tanto radicate e diffuse – aveva necessariamente al proprio interno e che essa stessa aveva contri20


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buito ad attivare. Contro-istanze dalle quali prenderà le mosse una fase – lunga, lenta e dolorosa e con altre pagine nere ancora da scrivere – di disgregazione. Una curva discendente sulla quale la memoria successiva ha preferito concentrare in via esclusiva l’attenzione, dimenticando ciò che era accaduto prima.

Note di redazione I brani delle lettere, dei diari e delle relazioni sono stati riprodotti fedelmente, senza interventi sugli errori e sulla forma. Generalmente sono state riportate con l’iniziale minuscola parole che nei testi compaiono con la maiuscola, come ad esempio duce, partito, patria ecc. I punti sospensivi tra parentesi quadre indicano parti omesse. Per i nomi dei luoghi si è scelto di utilizzare generalmente la versione riportata nei resoconti e nei documenti militari italiani dell’epoca. I nomi dei luoghi citati nelle lettere, nei diari e nelle relazioni sono stati riportati così come sono scritti negli originali.

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