1. MIRACOLO A SCAMPIA
Questa è la storia di uno scugnizzo che grazie alla musica ce l’ha fatta. Tutto è partito dalla scuola e da un insegnante. «Gianni, ho fatto una scommessa», mi disse. Una scommessa. Qui a Scampia è una parola enorme, ha troppi significati, perché la vita tutta è una scommessa. Qui basta un attimo, un sì all’amico sbagliato e ti ritrovi dentro un inferno da cui esci o morto, o al carcere, o rovinato per sempre. Qui ’a scommessa è farcela ogni giorno a portare pane pulito sulla tavola dei tuoi figli, è fare i conti con i compromessi con te stesso mentre insegni ai tuoi figli a essere gente per bene, sapendo che in ogni momento fuori di casa possono fare una brutta fine. Qui ’a scommessa più grande è realizzare i propri sogni, sogni normali, di ragazzi, diplomarsi o laurearsi in qualcosa, diventare musicista, artista, trovare un lavoro decente, quello che per altri è un percorso normale qui ti costa una fatica assurda per compensare tutto quello che non hai, che non ti danno, e ti devi inventare come ottenerlo. Qui ’a scommessa è il miracolo di solidarietà che ci fa aiutare tutti con tutti per ottenere quello che altrove hanno di diritto. La scommessa di tanti a Scampia è avere la forza di riprendersi se stessi dopo che si è caduti, e basta poco per cadere, perdere il lavoro di schifo che trovi ma sempre meglio 9
della disperazione, uscire dalla droga che ti fotte la vita, o semplicemente trovare la forza per andare avanti malgrado sfratti, bollette da pagare, soldi che non bastano mai, la scuola per i figli che almeno abbiano un futuro migliore del tuo. Qui tutto è una scommessa, e ognuna ha il suo destino, il suo volto e il suo nome. La scommessa che mi proposero si chiamava Antonio. Era venuto a parlarmene un insegnante di una scuola media di Scampia, nel gennaio del 2013. L’oro di Sydney 2000 era ormai un ricordo. Tredici anni sono tanti, un periodo in cui la mia vita era stata ribaltata. Come un judoka che finisce al tappeto e poi si rialza. Ero cresciuto sportivamente a Miano, nel quartiere dove mi ero trasferito da bambino insieme ai miei genitori e ai miei fratelli. Poi, dopo l’oro olimpico di Pino, decisi di fare qualcosa per la mia gente. Qualcosa di vero, di concreto. La svolta arrivò nel 2004. Fino a quell’anno gestivo una piccola palestra proprio a Miano, dove negli anni Novanta feci nascere una generazione di baby fenomeni del tatami. Il judo ad altissimi livelli nacque in quella struttura ed esplose con Pino alle Olimpiadi. Pino era il più bravo, un leader vero per tutti i suoi compagni di team. Il suo oro in Australia mi permise di alzare la voce con le istituzioni: dopo l’oro di Sydney volevo uno spazio più ampio e lo volevo a Scampia, il quartiere delle Vele. Chiesi l’autorizzazione al Comune per ottenere la gestione di una struttura fatiscente in un terreno abbandonato, con un piccolo cortile all’esterno. La ottenni e diventò la mia scommessa da vincere. La struttura si trovava, e si trova, in Viale della Resistenza, nel cuore di quella Scampia che si stava facendo conoscere come la piazza di spaccio di droga più grande del mondo. I riflettori dei media non erano ancora accesi, ma io ne conoscevo i problemi come le mie tasche. Conoscevo 10
persone che non potevano pagare una retta mensile per permettere al figlio di fare sport, persone che non avevano soldi per una visita medica. A queste persone, a noi abitanti di Scampia, era stata tolta la dignità. Seminai in quel periodo l’embrione del Percorso Maddaloni: primo comandamento, sport gratuito per tutti i ragazzi e bambini. Oggi la palestra supera le 1200 presenze tra genitori e figli e pagano soltanto i genitori, 20 euro al mese in due. Volevo portare nelle famiglie del quartiere un valore aggiunto, lo sport. Ero la speranza per un futuro diverso? Ben venga. Mi sono sentito spesso solo, in questi anni. Ho rischiato di chiudere non so quante volte per colpa dei debiti. Non avevo soldi per pagare le bollette, provavo a spiegare alle istituzioni i miei sogni, il valore educativo della mia opera. Io volevo partire dal basso, dare una seconda opportunità a chi aveva avuto la sola sfortuna di nascere in un territorio dove manca tutto. Ma le istituzioni sono state miopi, spesso: volevano che saldassi il conto, possibilmente entro la data di scadenza indicata sulle bollette. Ho resistito mettendoci anche soldi di tasca mia. Da ragazzo, dopo la morte di mio padre, mio zio mi trovò un posto di lavoro al Policlinico di Napoli, presso l’Università Federico II. Negli anni Settanta era più semplice inserirsi, oggi non sarebbe possibile. Ho usato quello stipendio per costruire il mio sogno, per aiutare la mia gente. A me, invece, mi hanno aiutato in pochi. Una collaborazione fattiva è nata con la scuola media «Ilaria AlpiCarlo Levi», un’eccellenza del nostro quartiere. Si trova in via Bakù, a un passo dalle Vele, il simbolo più triste della nostra Scampia. Lo conoscono, ahimè, in tutto il mondo: Vesuvio, pizza, sole, mare… e Vele. Eppure lì, dirigenti e insegnanti svolgono un lavoro splendido perché allo studio 11
uniscono progetti finanziati con fondi europei che riguardano lo sport, il teatro, la musica, il giornalismo, la fotografia. Danno un’opportunità ai ragazzi, quella di apprendere non soltanto dai libri, ma dalla vita. Fanno toccare con mano le arti, offrono la possibilità di esprimere un talento. L’insegnante che mi aveva presentato il «problema bullo» mi convocò a scuola. Con noi, anche il dirigente scolastico. «Tra i nostri studenti c’è un ragazzo che mostra segni di bullismo», mi dissero. «È violento verbalmente e in alcuni gesti, insulta i compagni e ignora gli insegnanti. Siamo convinti che possa essere recuperato soltanto da te, dal tuo amore e dai corsi di judo. Abbiamo scommesso su di te, Gianni.» «Ma io non posso occuparmi di bulletti, io offro un modello, indico una strada parallela alla malavita a gente che rischia veramente di perdersi!» «È esattamente ciò di cui ha bisogno questo ragazzo», mi risposero. «Famiglia problematica, il padre in galera. Gianni, questo ragazzo è avviato su una brutta china…» La brutta china qui da noi è il baratro, ne ho visti troppi di giovani cadere nel gorgo senza più venirne fuori, perché il guaio, qua, è che sei solo se vuoi uscire dal Sistema. E questo è il mio cruccio più grande, non lasciare solo nessuno, non bisogna arrivare dopo, quando uno ha fatto i casini e deve pagarne le conseguenze, bisogna arrivare prima, in quella fase delicata in cui un guaglione sta per fare le scelte sbagliate che lo renderanno n’omm stuorto, un uomo con i valori sbagliati. Contrastare la criminalità dalla base e non dal vertice, con la prevenzione e non con le manette, questa è la mia ossessione personale, ma è anche un metodo, una visione per risolvere i problemi della società. I giudici cercano di arrestare i camorristi, d’accordo, nei centri di 12
detenzione vengono tenuti lontani i soggetti che fanno il male della società, vabbuò, e nelle comunità ci mandano i drogati per recuperarli. Ma prima cosa c’è? Prima ci sono ragazzi lasciati soli, senza genitori in un quartiere che non offre altro che lunghi pomeriggi su una panchina, insieme agli amici, a un motorino e un pallone. Crescere in strada, dare ai ragazzi la possibilità di sentirsi «padroni» del territorio, è l’inizio del baratro. Io non mi tiro mai indietro, non dico mai «non ho tempo», «è un momento difficile», men che meno «sono stanco». Perché? Perché lo faccio? Ogni tanto me lo chiedo davvero. Ho 58 anni e avverto sulle mie spalle il peso della stanchezza, degli anni che avanzano. Ho una famiglia allargata composta da una moglie e 7 figli, gli ultimi due non hanno nemmeno 10 anni. Dovrei godermeli, invece vince il mio essere un agonista anche fuori dal tatami: in ognuna delle storie che incontro vedo una sfida da superare. È proprio il mio spirito sportivo che mi fa affrontare ogni caso come un combattimento da vincere. O forse è l’amore sconfinato per la mia gente, i figli di Scampia che sento tutti come miei figli e mi spingono a ogni abnegazione. Lo faccio perché conosco tutte queste cose, so quanto sia sottile la differenza tra giusto e sbagliato in questi territori. Quando sei figlio di un detenuto, a Scampia ti avvicinano altri figli di detenuti, è quasi un sistema di solidarietà. Entrarci, nel Sistema, è un attimo. La scuola «Alpi-Levi» è davvero un’eccellenza. Lo è da quando, qualche anno fa, lo Stato decise di accendere i riflettori sul nostro quartiere e di puntare, oltre che sulla repressione, anche sulla prevenzione. Fu così che videro la luce istituti scolastici che finalmente si occupavano dei ra13
gazzi nel miglior modo possibile. Ovvero, facendo restare i propri studenti a scuola. Che senso ha mandare i ragazzi di Scampia a casa alle 13? Che senso ha lasciargli i pomeriggi liberi? Liberi per cosa, poi? Per scorazzare sui motorini insieme a coetanei più grandi e imparare il «mestiere» di scippatore o rapinatore? Qui non ci sono biblioteche, parchi, le palestre non sono in numero sufficiente. Se il quartiere non offre alternative, tanto vale restare a scuola. Lo fanno, potrebbero farlo di più se la scuola italiana non fosse come lo Stato: arcaica, legata ai tempi della burocrazia, poco flessibile e dinamica. La scuola offre comunque un modello classico, che poco si adatta ai ragazzi di Scampia. Ecco perché, in casi estremi, chiamano me. In queste quattro mura di palestra, lo Star Judo Club, ho lavorato tanto, ogni giorno, per diventare un riferimento per genitori e figli. E pensare che, se avessi accettato il posto di lavoro che mi venne offerto dopo l’oro di Sydney, oggi la mia vita sarebbe diversa. Accadde nel 2001. La gloria dopo Sydney, tante telefonate da parte di esponenti delle istituzioni ed esponenti della società civile. Una, in particolare, mi colpì. Era dell’assessore comunale allo Sport di Napoli. «Maestro Maddaloni, abbiamo visto la vittoria di suo figlio in tv, le sue lacrime, quell’orgoglio di sentirsi napoletano. Vorremmo offrirle un posto di lavoro in una palestra di Posillipo». La Napoli bene, ricca e borghese, dove la disperazione di Scampia si guarda da lontano. Mi avrebbero dato tutto ciò che avrei voluto. Pochi minuti per pensarci, poi la decisione: resto qui, a Scampia, tra la mia gente. Per quelle persone che non hanno nulla e hanno bisogno di tutto. È giusto che 14
lo faccia ora, penso, perché posso sfruttare la popolarità mia e di mio figlio Pino. La mia scelta ha provocato tensioni, sarebbe inutile nasconderlo. «Perché vuoi restare qui?», mi chiedevano anche i parenti più vicini. «Nessuno ti ha regalato niente, sei il solo a sacrificarti. Mò che hai raggiunto un traguardo tanto prestigioso, l’oro olimpico di tuo figlio, seguito in tv da milioni di spettatori, mò che hai acceso i riflettori su Scampia e il presidente della Repubblica ha nominato tuo figlio Commendatore, dovresti approfittarne. Fai un passo avanti – mi dicevano – hai una vita davanti, conosci i problemi e le possibilità del judo, puoi diventare l’allenatore numero 1 d’Italia, ambire a poltrone prestigiose». La mia risposta è la stessa, da sempre. «Questa è la mia gente. Devo aiutarla e devo farlo per mio fratello, per il maestro Lupo, per chi mi regala sorrisi.» E così sono ancora qua. Antonio era il classico figlio di Scampia. Una madre che si divide tra mille lavori per non fargli mancare nulla e fare anche le veci del padre rinchiuso nel carcere di Poggioreale, qualche visita poche volte al mese e un vuoto pieno di ambiguità. Ok, tuo padre sta dentro perché ha sbagliato o perché, per portare qualche soldo a casa, si è messo nelle mani sbagliate: significa che devi odiarlo perché non c’è ai compleanni e tutte le volte che ne hai bisogno? O lo devi rispettare? Io dico che il rispetto per un padre, un nonno, insomma una persona più anziana, che ti ha dato la vita, è alla base di ogni società. E poi a 11 anni che ne sai di questi drammi della vita. Vuoi soltanto che tuo padre ti dia il buongiorno e la buonanotte, che magari ti accompagni in palestra, che ascolti 15
uno sfogo legato a un amico che ti prende in giro, a una ragazzina che ti fa soffrire. E invece… invece qui i bambini sono adulti e i ragazzi sono già anziani, a causa della vita che fanno. Ma diventare adulti in fretta è una necessità di facciata. È una maschera. Devi forgiare il tuo carattere perché sennò gli altri ti mettono sotto, hai bisogno di farti rispettare, di fortificarti perché vedi tutto il mondo contro di te. È solo una maschera per farti coraggio e far paura agli altri, perché ti senti solo. Ed è normale, a 11 anni hai bisogno di tuo padre, hai un sacco di cose da imparare, e se non ce l’hai, il padre, con chi te la prendi? Con tutti, compagni, maestre, e poi sbirri e magistrati, con tutti quelli che rappresentano l’ordine, le regole, le strade e gli strumenti normali per costruirsi una vita. E siccome quegli strumenti non ce li hai ti incazzi col mondo. E non ce li hai proprio perché a 11 anni vedevi tuo padre due volte al mese dietro un vetro. Non è un caso che i primi segni di squilibrio, Antonio li abbia mostrati dopo il trasferimento del padre in un istituto penitenziario della Sardegna. Addio visite, addio a quegli sguardi di pochi minuti che bastavano per giorni interi. Antonio me le ha raccontate, quelle visite. L’ha fatto con le lacrime agli occhi. «Maé, settimane intere ad aspettare di vedere tuo padre e poi devi accontentarti di sorridergli dietro a un vetro.» Sorridergli, fargli credere che tutto stia andando bene quando dentro hai un vulcano. Ma erano sufficienti a «ricaricarsi», c’erano attese e speranze, gioia e dolore. C’era vita. Poi col trasferimento in Sardegna sono finite anche quelle attese e quei sorrisi. Lì Antonio ha ceduto, si è ribellato con la violenza verbale e fisica all’ennesima ingiustizia di un mondo che deve essergli parso come un Everest da scalare. Ma che si vuole da un bambino di 11 anni? 16
Quando andai a scuola per incontrarlo la prima volta, chiesi di parlare con le maestre e la mamma del giovane. Conobbi una donna umile, una napoletana «verace». Aveva parlato con il marito della possibilità di portare Antonio nella mia palestra, si erano detti entrambi convinti che potesse essere la scelta giusta. C’era anche lui, Antonio, che mi guardava insistentemente. Occhi furbetti, ’na faccia ’e paccheri, diremmo noi napoletani bonariamente. Un ragazzino che sapeva il fatto suo. Capelli chiari e occhi azzurri, sembrava uno scolaretto di quelli cresciuti dalle suore, pulito ed educato, perfetto in ogni suo atteggiamento. A guardarlo, pensi: questo qui ha tutti 10 in pagella, è uno di quei ragazzi talentuosi che non hanno bisogno di studiare troppo per capire i concetti degli insegnanti. Un talento naturale, come ne avevo visti tanti nella mia palestra. E un talento lo era, Antonio, soltanto che era stato indirizzato nel modo peggiore possibile. E cioè nella violenza, nelle risposte sbagliate, nelle parolacce ai compagni di banco. Un tratto che unisce tanti ragazzi di Scampia, e che mi fa paura, è la loro capacità d’intuizione. Semplicemente ci arrivano prima, con quegli occhi che studiano e immagazzinano. Il talento è un sogno per chi ha possibilità e ricchezza, un incubo per chi è circondato dalla malavita. Perché apprendere velocemente, avere la mente sveglia, significa essere una preda per i clan, è una caratteristica apprezzata e ricercata da chi spaccia la droga e cerca ragazzi giovani e scaltri per i propri scopi. Con Antonio fui sincero, quasi duro, perché volevo chiarire sin da subito cosa davo io e cosa chiedevo a lui. «Vuoi fare judo? Vabbuò, ma la prima regola è disciplina. Io ti insegno quello che so, ti tratto come un figlio, ma da te, da tutti i ragazzi, voglio rispetto e disciplina. Ok?» Io ho le idee chiare sulla scuola e le regole. Le regole sono 17
quelle che ho insegnato ai miei figli: i primi tre, avuti dalla mia prima moglie, sono tutti sistemati. Pino è allenatore della Nazionale italiana di Judo ed è tesserato per la Polizia, Laura è finanziere, Marco è arruolato nel Gruppo Sportivo della Polizia Penitenziaria e ha un sogno nel cassetto, una medaglia alle Olimpiadi di Rio 2016. Credete che sia semplice dare regole ai nostri figli qui? Bisogna essere anche duri, far sentire sempre la propria presenza. Non mi stancherò mai di ripetere che le tentazioni sono tante e che la criminalità offre una strada in discesa. Ma è una strada che porta alla ricchezza per uno, due, cinque, dieci anni. E poi al carcere o alla morte. Nessuno è sfuggito a questo percorso, sono quasi tappe obbligate. Meglio la mia politica, quella del «goccia dopo goccia». Il problema è che a Scampia sebbene le scuole si stiano attrezzando con nuove attività e gli insegnanti stiano provando a fare, insieme, dei passi in avanti per comprendere il linguaggio dei loro ragazzi, manca uno sforzo comune. Io lavoro e la politica mi contrasta, un insegnante lavora e lo Stato non offre alternative alla strada quando finisce l’orario scolastico. Qui il livello di istruzione delle famiglie è così basso, che per recuperare questo svantaggio rispetto a quartieri normali di normali città ci vuole una fatica tripla di tutti. Invece fanno passare giorni per concedere un permesso, non danno un contributo economico, seppure minimo. Di calci dietro la schiena ne abbiamo ricevuti centinaia, ma ne abbiamo fatto la nostra forza. Tu mi colpisci, io mi difendo più forte. Qualcosa è cambiato da quando Angelo Pisani è divenuto presidente della VIII Municipalità, quella di Scampia e Miano. Abbiamo cominciato a ricordare le vittime innocenti, ad aiutarci. Abbiamo capito che qui non ci sono soluzioni miraco18
lose, tutto passa da tre ingredienti: educazione, disciplina e regole. Che passano a loro volta attraverso alcuni capisaldi: famiglia, scuola, sport e religione. Le regole sono queste, inutile girarci intorno. Lo strumento dello sport è determinante perché insieme a famiglia, scuola e religione forma il giovane. La mia esperienza mi insegna che, quando ti vengono insegnate le regole in questi quattro ambiti in un’età compresa tra i 4 e i 6 anni, la possibilità che quei bambini non diventino delinquenti, e venga dunque tolta forza ai gruppi criminali, aumenta almeno del 70 per cento. Non c’è bisogno di studi universitari, a dirmelo è la mia esperienza. Diamo valori ai ragazzi e loro impareranno a scalare l’Everest da bambini. Antonio era uno scugnizzo, e per questo ci capimmo subito. Parlavamo la stessa lingua. Forse a unirci è stata la mia schiettezza, non credo che dipendesse dal fatto che glielo chiedevano la madre e le maestre, lui ha scelto di venire in palestra. Forse perché gli ho detto che l’avrei trattato come un figlio e gli ho parlato dei miei figli. Forse era quello di cui aveva bisogno in quel momento. Forse ha capito che dicevo la verità. Da me Antonio avrebbe avuto tutto. Non solo allenamenti e consigli per l’attività sportiva, bensì quello che un padre darebbe a qualsiasi figlio. Amore, rimproveri anche duri quando necessario. E l’avrei ascoltato sempre, caricandomi tutte le responsabilità sulle mie spalle, pronto a sfogarle sulle pagine di un diario che ho iniziato a scrivere qualche anno fa, quando decisi di memorizzare ricordi, emozioni e ferite. Iniziò così il nuovo percorso di Antonio. La prima volta che entrò in palestra mi guardava come se fossi un alieno. Era ammirato da quello sport con i suoi riti, gli inchini, gli 19
esercizi di coppia, e poi la disciplina al primo posto. Gli piacevano i judogi e le cinture, i tappeti, i poster di Pino appesi al muro. Ci mise un po’ a fare le prime mosse, sulle prime mi imitava, io cercavo di farlo sentire uno dei tanti, parte integrante della nostra famiglia. Poi si sciolse, e mostrò quel talento che avevo già immaginato. Avevo messo a segno un ippon, un punto decisivo. O almeno era ciò che credevo, perché una mattina, inattesa, arrivò una telefonata. «Maestro, Antonio si è comportato male con una bambina». Era l’insegnante di Antonio, mi raccontò di una sua sfuriata verso una compagna di banco. Fu un gesto improvviso e inatteso, in palestra Antonio era quello di sempre. Com’è possibile? La mia reazione fu immediata: presi un’ora di permesso a lavoro e andai a scuola. Chiesi informazioni alla maestra, mi disse che quella mattina Antonio le era sembrato più nervoso del solito, ma che la lezione procedeva regolarmente quando d’improvviso sentì la voce di Antonio emergere sulle altre. I toni erano alti, troppo alti per essere in un’aula scolastica. E poi tante parolacce verso una compagna di banco, una violenza verbale che non ricordava più. Ascoltai in silenzio, quindi mi feci portare in classe e, in presenza dei suoi compagni e amici, pretesi che Antonio chiedesse scusa alla ragazza davanti a tutti. Non avevo voluto ascoltare la sua versione, mi bastava quella dell’insegnante. Mi guardava frustrato, livido di rabbia. Forse aveva avuto le sue ragioni, ma dalle regole non si sfugge. E le mie regole non prevedono violenza verbale o fisica. Dai miei ragazzi pretendo rispetto e correttezza, a una provocazione si reagisce con toni composti. Questa non è la strada, non siamo sulle panchine davanti alle Vele. Ebbi il pieno sostegno della madre, in quel momento do20
vevo agire come un genitore. Non potevo permettermi di cedere, se avevamo iniziato un percorso servivano gesti forti nei periodi più difficili. Certo, vedere un mio ragazzo umiliarsi davanti a tutti è una ferita al cuore prima di tutti per me, però questi sono i miei metodi e i risultati mi danno ragione. Non possiamo andare per il sottile qui, non ci sono sfumature psicologiche o sociologiche. Qui è rosso o nero, giusto o sbagliato. Antonio cambiò di nuovo modo di comportarsi e per un mese fu esemplare. Le maestre erano soddisfatte anche del suo rendimento scolastico, mentre sul tatami Antonio cresceva, migliorava, padroneggiava meglio i movimenti e soprattutto aderiva alle regole. Il judo, in questo senso, è uno sport senza eguali: da noi cercare di imbrogliare ti porta alla sconfitta, non fare l’inchino è una mancanza di rispetto. Il rispetto. Quando si parla di Scampia, «portare rispetto» è sinonimo di terrore, di lealtà al boss, di minacce. Perché è vero, è in questo modo che i clan ottengono il rispetto dei loro affiliati. Facendogli paura, pagando «stipendi» da capogiro, che però non portano da nessuna parte se non a un futuro di sofferenze. Il rispetto sportivo, la lealtà al maestro, è l’esatto contrario. È affetto, regole, amore. Sono due strade che camminano parallele, senza incrociarsi mai. Bisogna scegliere quale percorso intraprendere, perché poi cambiarlo diventa difficile. Lo sanno bene anche i carcerati, che sempre più spesso chiedono alle loro mogli di portare i figli da me. Sanno che la lealtà sportiva nasce da qui, sanno che applicare le regole dello sport nella vita di tutti i giorni è qualcosa di spontaneo. Naturale. Lo fai una volta e ti entra dentro. È una forma di lealtà positiva: indirizzare il talento alla parte buona di sé, e non a quella violenta, è la mia missione. 21
Ma il judo è soprattutto una questione di dedizione, di costanza nell’esercizio, perché devi raggiungere un equilibrio fra i movimenti e i riflessi che sviluppi solo con la pratica. È un po’ come la musica, che richiede sacrifici e allenamenti. Forse non è un caso che Antonio si rivelasse un talento anche davanti a una piccola tastiera: gli riusciva bene suonare, batteva quelle dita sui tasti con una disinvoltura fuori dalla norma. Lo ascoltai per la prima volta durante un saggio scolastico. Ero insieme a un giornalista della Rai che mi aveva chiesto una bella storia da raccontare. Pensai fra me e me: vuoi conoscere una Scampia che non è solo droga, morti e Gomorra? Mò ti faccio conoscere quali angeli ci stanno all’inferno! Quando gli segnalai questo ragazzo che stava cambiando nonostante le tentazioni del mondo che lo circondava e la situazione familiare, mi chiese di andarlo a trovare a scuola. Fu una folgorazione. Mi avevano detto che Antonio suonava bene, pur senza aver mai preso alcuna lezione. Ma vedere quelle mani sulla tastiera che procedevano spedite, senza sbavature e incertezze mi riempì di gioia. «Da bambino ha aperto la pianola e ha iniziato a suonare le sue canzoni preferite. È venuto tutto naturalmente», mi disse la madre. Da non credere. Gli chiedevo una canzone e lui la eseguiva così, a orecchio. We are the champions, Stevie Wonder, la colonna sonora del Padrino, brani della tradizione napoletana e qualche canzone ascoltata alla tv, magari da uno spot pubblicitario. Anche musica classica, Rossini, Beethoven. Fu in quel momento che capii che poteva mettersi in moto un nuovo meccanismo, iniziai a sognare per Antonio 22
un futuro diverso, che potesse andare anche oltre lo sport. Di musica non capisco niente, ma il talento vero quando lo vedi lo riconosci subito. Certe gemme da queste parti sono preziose, vanno coltivate con tutte le energie. Perché un conto è crescere in un certo ambiente con tanti stimoli e sviluppare una certa abilità. Ma un altro conto è che sei un guaglione che cresce in mezzo a ’na giungla di pericoli e miseria, nessuno ti dà niente eppure… Eppure vieni fuori con un talento del genere. Non si spreca un dono simile. Ma come riuscirci? Antonio finì in tv, quel giornalista mandò in onda il servizio allo speciale del Tg1 della domenica successiva, tutti conobbero la sua storia e il suo talento musicale e sportivo. Intanto continuava ad allenarsi e suonare nel tempo libero: non avevamo un vero strumento musicale, più che altro era una pianola, né potevo essere io a trovargli un insegnante di musica. Così Antonio ogni giorno apriva quella piccola tastiera, la accarezzava con le sue piccole mani, e si sbizzarriva. Spesso, attorno a lui, al termine dell’allenamento, si formavano dei capannelli di ragazzi. «Ma è vero che sai suonare il pianoforte?» gli chiedevano. Lui sorrideva, quasi incredulo nel dover dare spiegazioni per una cosa che gli veniva naturale. «Sì, ’o vero.» E allora suonaci questo pezzo piuttosto che quest’altro, era la richiesta dei suoi amici. E lui lì, paziente e sorridente. In palestra diventò presto una piccola celebrità, il nostro jolly. Lui era orgoglioso, si vedeva, e a me mi si apriva il cuore. Anche il padre, quel padre che ha avuto la sventura di non vedere crescere il proprio figlio, venne a sapere dei progressi di Antonio, della sua vita cambiata. Un giorno di primavera del 2013, arrivando in palestra, trovai una busta. Era la lettera del papà di Antonio, mi scriveva da un carcere della Sardegna, un posto che in quel momento mi sembrò 23
lontano come Alcatraz. Si diceva felice, felice che qualcuno avesse concesso un’opportunità al figlio, felice che Antonio fosse tornato a sorridere. Caro Gianni, sono il papà di Antonio, mi chiamo Giuseppe, seguo molto i vostri miracoli, qualche volta ti ho anche visto in tv, a Quelli che il calcio. Gianni è un vero miracolo quello che fate, continuate, più e più volte ancora, non mollate mai. Sono onorato delle tue belle parole dedicate a mio figlio, le ho lette su un giornale e ho visto il servizio al Tg1 della domenica sera. So che lo hai preso a cuore, come tutti gli altri bambini che seguite in palestra. Io esorto mia moglie a non far perdere neanche un allenamento ad Antonio. La vostra disciplina insegna innanzitutto il rispetto dell’avversario e forgia veri uomini come il nostro orgoglio, Pino Maddaloni. Un «nostro» fratello, uno di noi. Ricordo quando vidi in tv la sua vittoria alle Olimpiadi, in quel momento tutti noi cittadini di Scampia ci sedemmo con lui sul gradino più alto del podio. Avrei voluto fare tante cose buone, ma come tu già sai Scampia è un vortice, dove è facilissimo perdersi nelle sue spire. Ecco, io sono uno dei tanti ragazzi di Scampia «perso». Gianni, come tu ben sai il padre è la colonna portante per il proprio figlio ed Antonio ha perso questo punto fermo. Ora è un bambino a rischio ed io per questo non mi do pace, mi rimprovero sempre di non avergli dato il necessario, la mia presenza. Ora accogli questa mia richiesta, questo mio grido d’aiuto. Insegna ad Antonio il rispetto per il prossimo, fargli capire cosa è giusto e cosa è sbagliato. 24
Gianni, come tu già sai io sono lontanissimo e sarà molto difficile rivedere i miei figli, qui per arrivarci è un calvario e un grande dispendio di denaro. Che ora non ho. Però Gianni io dovrò iniziare a lavorare e se potrò, vorrei contribuire e ti assicuro che anche una piccola somma io la donerò alla palestra. Auguro a te e alla tua famiglia tutto il bene del mondo e ti auguro di continuare per ancora tanto tempo questa bella iniziativa. Grazie Gianni di tutto e per quello che ancora farai. Il papà di Antonio. A maggio dello stesso anno un’azienda di Pomezia che si occupa di marketing sportivo volle darmi un premio. Aveva letto da qualche parte la mia storia e offriva al Centro Sportivo Maddaloni un contributo economico, conoscendo le difficoltà con cui siamo costretti a combattere. M’invitarono così alla cena di gala dell’azienda, che chiudeva l’anno lavorativo: in quell’occasione era prevista una breve cerimonia, al termine della quale mi avrebbero dato un assegno. Con la mia vecchia Fiat Ulisse di seconda mano partii da Scampia, ma quando raggiunsi Pomezia mi sentii fuori luogo. È una sensazione che mi accompagna spesso a questi eventi. Mi sento un pesce fuor d’acqua, mi sembra di chiedere la carità. È vero, a chi mi è vicino dico sempre che non dobbiamo vergognarci di chiedere l’elemosina per azioni che vanno in favore della nostra gente. A vergognarsi dovrebbero essere i ladri, oppure chi gestisce un potere e ruba. A questi ultimi, ai corruttori di cui leggiamo ogni giorno sui quotidiani, non andrebbe concessa neppure una seconda opportunità. A peggiorare le cose, era un grande salvadanaio allesti25
to all’esterno della sala. Di fatto, si trattava di una raccolta fondi per la mia palestra. Pensai che non fosse un gesto di grande eleganza, benché fatto in buona fede. Però egoisticamente era un’occasione da non lasciarsi sfuggire. Sul finire della serata, arrivò il mio momento. Mostrai un video di pochi minuti in cui racconto quello che accade ogni giorno in palestra. L’hanno realizzato alcuni ragazzi che si allenano con me e sono molto abili col computer. È un cd che ormai ho imparato a portarmi appresso in giro per l’Italia e l’Europa, sintetizza la nostra opera e i nostri dieci anni di cammino. Ci siamo adeguati al mondo: tante immagini e poche parole, più slogan e meno dichiarazioni. Mentre scorreva il filmato pensavo ad Antonio, o meglio a suo padre che me lo affidava e mi dava una responsabilità enorme, a cosa potevo fare io di più per favorire il suo talento, visto che capivamo tutti, io e a scuola, che continuare a suonare su una pianola non bastava, bisognava indirizzare e disciplinare il talento, ci voleva la tecnica oltre all’estro. Fu così che al termine del video mi venne l’idea. «Cari amici», dissi alla platea che mi ascoltava. «Siamo onorati di ciò che avete fatto per noi, sinceramente. Ma invece di un contributo economico, noi allo Star Judo Club vorremmo un pianoforte.» Mi guardarono come se fossi impazzito. Un maestro di judo che chiede un pianoforte per la sua palestra, cose dell’altro mondo. Così raccontai di Antonio, della sua faccia pulita, di quelle mani che accarezzavano i piccoli tasti bianchi e neri, della lettera del padre, talmente orgoglioso del figlio da arrivare a scrivermi da un carcere della Sardegna. Accettarono. E furono di parola. Il 13 giugno, a Sant’Antonio, arrivò a Scampia uno splendido pianoforte. Fu uno dei regali più belli e riusciti di tutta la mia vita. Antonio era felicissimo. Gli chiesi se avesse preferito portare a casa 26
il nuovo strumento musicale oppure suonarlo in palestra, lui lo lasciò da noi e da quel giorno, tutti i giorni, le note limpide del pianoforte allietano le quattro mura sgarruppate della palestra. Con una novità. Lo strumento fu infatti anche un modo per mettere a fuoco le nostre responsabilità, adesso non c’erano più alibi, bisognava trovare un maestro di musica. E lo trovammo proprio grazie alla scuola di Antonio, la «Alpi-Levi». Lì, ad insegnare educazione musicale c’era Gaetano Santucci, trasferito da un convitto di Milano a Scampia poche settimane prima. Anche questo con il maestro Santucci è stato un incontro improbabile, di quelli paradossali come solo qui a Scampia possono capitare. Santucci è una persona mite, un buono, e qui già dalle scuole medie il rispetto te lo devi guadagnare, se sei troppo buono ti mangiano i ragazzi, nella loro ingenua perfidia non ti perdonano nulla, se poi hai un difetto fisico, e Santucci ha una leggera zoppia, infieriscono senza pietà. L’importante è mostrarsi forti, l’animo sensibile non è una qualità, questa è la cultura storpia che impera da queste parti. Quando il professore si avvicinava alla classe lo accoglieva lo sfottò puntuale: «Arriva Gaetano ’o stuorto!» Un modo di fare, nella testa di quei ragazzi, anche ironico, ma mi rendo conto che per chi vive nei quartieri borghesi di tante città può atterrire il fatto che ragazzini di 11-12 anni trattino così un professore. È il risultato della degenerazione sociale che il sistema ha prodotto negli ultimi anni. In passato l’impatto culturale della delinquenza era marginale, vuol dire che a scuola, per esempio, erano eccezioni i ragazzini che potevano dirsi pericolosi. Oggi il bullismo è in via di espansione perché si sono persi i valori, non si riconoscono più le autorità, se non quelle violente. È un problema sociale che da noi si amplifica. 27