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C’è qualcuno che ricordi il rumore esatto che la Gilera 125 sapeva sputare fuori dalla sua marmitta? Dimenticavo, sto parlando del modello, cosiddetto, «Arcore». Del 125 o anche del 150, che poi fa lo stesso, erano pressoché identici, due gocce d’acqua, anzi, di benzina rincarata negli anni della penuria energetica, nel deserto comunque festante dell’Austerity. Doveva essere il 1972, quando le moto del mio ricordo giunsero al trono delle vetrine dei concessionari, destinate ai ragazzi già maggiorenni, in jeans scampanati e giubbotto rivestito di finta pelliccia bianca, la schiuma dell’orsetto, sulla camicia di denim le lettere stampigliate che facevano il verso ai numeri di matricola dei penitenziari americani, roba da «Bottega di Fulgenzi», alla moda, indumenti di tendenza giovanile che perfino lo scrittore nostro protagonista, Pasolini, indossava. Tornando all’Arcore, c’era modo di distinguere le singole cilindrate facendo caso soprattutto al blu e al rosso, i colori da campionario dei rispettivi serbatoi. La Gilera Arcore, va aggiunto, era una moto rigorosamente 4 tempi, sonoramente, onestamente, pacificamente lenta, prevedibile nella sua corsa regolare, immobile eppure scoppiettante, ricca di una voce fra l’arcaico e il moderno d’autentica garantita motocicletta italiana, un suono piccolo-borghese, se così possiamo dire, portato con fierezza fin dentro gli anni 7
della «contestazione generale», come recitavano molti film di costume di quei giorni, pronti a sfoderare un poker di facce d’attori composto da Gassman, Manfredi, Tognazzi e Sordi. Scortato fin lì da quei ragazzi che non amavano i sussulti, figli di un tempo ancora in bianco e nero, le prime prove generali del colore, dai. Deve essere stato a bordo della Gilera Arcore di un amico pomeridiano, conosciuto cioè forse al bar-pizzeria «Rugantino» o piuttosto al bar «Luana». O magari nella sezione del Partito comunista italiano intitolata a «Palmiro Togliatti», volto oggi disperso nel tunnel del vento dei trascorsi quadrimestri insieme alla memoria della militanza, che, pensandoci bene, giunsi al cinema «Jolly» per vedere il Decameron, il primo atto di un viaggio poetico che Pasolini chiamerà «trilogia della vita». Ripenso ancora l’istante esatto in cui la signora in bigodini nascosti dal foulard seduta alla cassa ci porse il biglietto, sicuri d’assistere da lì a poco a un capolavoro dello «scandalo», certi che Pasolini non ci avrebbe deluso nel nostro bisogno di vedere l’asticella del vecchio «comune senso del pudore», solitamente piantonato da un brigadiere panzone come uno zio sosia del cugino Umberto P., e dunque del Sergente Garcia, fissata, lanciata, scagliata sempre più in alto, come un giavellotto, come un candelotto. Certo, come no, ma la Gilera Arcore che c’entra in tutto questo? Ora che ci penso, pronunciare o leggere il nome di quella località, perfino stampata sul telaio di una moto, era allora sinonimo del già citato rumore «scoppiettante», era un segno di una modernità operaia, se è vero che una «Arcore» appare anche in film di quegli anni, nuova fiammante, forse proprio in Romanzo popolare di Mario Monicelli, con Ugo Tognazzi e Ornella Muti poco più che operaia bambina, 8
c’era così quasi da immaginare esattamente le tute blu che vengono fuori dalle officine dopo aver messo a posto l’ultima delle viti che assicuravano l’esistenza, appunto, dell’Arcore, la moto con cui alcuni di noi sarebbero presto andati al cinema. A vedere magari un film di Pasolini. Arcore, proprio Arcore… Berlusconi allora c’era già, panama, brillantina e sguardo da uomo di mondo, anzi «cacauova», così almeno l’avrebbero definito nella mia città d’allora, Palermo. Berlusconi stava prendendo forse la rincorsa, ma noi non lo sapevamo ancora. In compenso, mentre la Gilera Arcore faceva sentire tutta se stessa, i prodigi della propria carburazione, al mondo esisteva, e assai più di Berlusconi, Pier Paolo Pasolini, un intellettuale che di mestiere era anche poeta. A dirla tutta, volendo essere più precisi, bisogna aggiungere che il nostro protagonista sapeva inventare davvero molte storie, scriveva cioè romanzi, faceva perfino articoli per i giornali e nel frattempo realizzava film in grado sia di commuovere sia di far pensare, oltre ovviamente a produrre scandalo. Amava insomma fare molte cose, Pasolini, e tutte con molto coraggio, con «disperata vitalità». Da poeta, da intellettuale, da persona che sogna un mondo migliore, più emozionante, più giusto, più libero, più bello, più adatto perfino a far l’amore. Bisogna poi aggiungere, soprattutto per coloro che di lui tutto ignorano, o nel migliore dei casi si sono appassionati soltanto al mistero sulla sua tragica morte, che Pasolini era molto bravo a spiegare le cose, meglio di un professore universitario, un uomo gentile che veniva dal Nord dell’Italia, una persona in grado di raccontare per ore e ancora ore ai ragazzi, perfino a quelli «fascisti», dove stava andando il mondo, verso quale punto di non ritorno. Ora, volendo illustrare in quale momento della storia 9
ha inizio il nostro racconto, occorre aggiungere che sempre lui, Pasolini, era nato a Bologna nel 1922, e quindi per privilegio anagrafico ha assistito agli anni della dittatura fascista, alla seconda guerra mondiale, alla Resistenza al nazi-fascismo, salvo poi, nel dopoguerra, ormai trentenne, da marxista, scegliere di mettersi lì a raccontare ciò che sarebbe accaduto alla nostra società. Tutto questo avveniva nell’esatto istante in cui il mondo abbandonava le pentole d’alluminio per quelle di acciaio «inox», anzi, i tegami di metallo per i recipienti di plastica colorata o smaltata con decorazioni simili a geroglifici. E qui siamo già negli anni Sessanta, quando i giovani presero a diventare famosi, anzi, direttamente a esistere insieme ai loro gruppi musicali. I «complessi», si diceva allora – Beatles, Rolling Stones, Byrds, Beach Boys oppure, parlando dell’Italia, Rokes, Dik Dik, Equipe 84 – e, s’intende, alla voglia di avere un mondo finalmente a colori, se non altro graficamente parlando, lo stesso mondo che esplode nel cartone dove lo stile vittoriano si fa pop britannico, Yellow Submarine. Ma non vorrei semplificare e soprattutto correre troppo. Allora facciamo così, immaginiamo di ritrovare Pier Paolo Pasolini, metti, proprio negli anni Settanta, nei giorni della Gilera Arcore, cioè quando lui era già un personaggio famoso, riconosciuto, uno che faceva opinione, uno che veniva fotografato anche da «Vogue» nel suo salotto di casa come un modello elegante. Sì, partiamo da quei giorni per poi andare avanti e indietro con il nostro racconto. Voi adesso mi direte: ma cosa è successo di così straordinario negli anni Settanta? Semplice, negli anni Settanta, per pochi istanti ancora, la moda contava ancora qualcosa, nel senso che aveva a che fare con il progresso, con la storia, con la rivoluzione. Allora era bello perfino vestirsi di stracci, 10
come seppe dimostrare un imprenditore, un certo Fiorucci, che riuscì a realizzare addirittura degli smoking di jeans, in attesa di sbizzarrirsi perfino con un frac sempre di denim, e poi, sempre allora, i ragazzi stavano per strada, e non c’era nessuno, ma proprio quasi nessuno, che marcisse o si masturbasse davanti alla televisione. Perfino la severa fabbrica tedesca Volkswagen sentì il bisogno di rivestire di jeans il suo Maggiolino. Solo molti anni dopo, in assenza di testimoni attendibili, qualcuno avrebbe detto invece che l’ombelico di una signora, Raffaella Carrà, bene in vista durante un balletto, aveva reso possibile la liberazione da certi costumi castigati; bugie, tutte menzogne che servono a un racconto semplificato della storia, dello scandalo. Quel limite, se così vogliamo dire, fu abbattuto semmai dalle battaglie di molti ragazzi, gli stessi che scappavano via di casa o smettevano di prendere sul serio i molti professori che ancora puzzavano d’orbace e di sacrestia. Tornando invece alla televisione, è bene sapere che Pasolini l’avrebbe voluta abolire. Voi adesso mi direte: era solo uno scherzo il suo? Come fa un poeta a dire una cosa del genere, con quali mezzi? Può dirlo proprio perché è un poeta, un uomo libero, cioè disinteressato al potere. Dipende infatti da quanto si è coraggiosi, da quanto si crede di dover mettere in discussione tutto, perfino se stessi, lo stesso ruolo d’artista. Mica come sarebbe accaduto molti anni dopo, quando proprio il biografo di Pasolini, il critico letterario Enzo Siciliano, sceglierà di fare il presidente della Rai, e perfino con un certo orgoglio che giunge dal sentirsi parte di un sistema di lottizzazione politica. Ma torniamo a raccontare nei dettagli Pasolini, che tipo era, di più, che mondo era il suo, quando c’era PPP. Personalmente, è bene cominciare dalle mie impressioni: a me resta il dubbio di averlo visto di persona sulla spiaggia di 11
Terracina, la città che tra i suoi personaggi celebri annovera perfino un imperatore romano, Galba. Terracina, luogo di villeggiatura, fra l’altro, dello statista pugliese democristiano Aldo Moro, l’uomo dalla frezza che finirà rapito e ucciso dagli squallidi terroristi senza fantasia delle Brigate rosse. Credo di averlo visto, parlo sempre di Pasolini, nel 1966, altri tempi. Resta il dubbio, nonostante ormai sopravviva soltanto l’immagine di un uomo con gli occhiali scuri tra i bagnanti, Pier Paolo Pasolini. Davanti a un sole irresistibile, e poi la musica sotto la tettoia del bar, il corso affollato di persone, abitato dall’estate, il Tempio di Giove Anxur lassù in alto, e quel faraglione terrestre, simile a un corno di rinoceronte, lo stesso che campeggia in ogni foto della cittadina, ben stagliato davanti al paesaggio che dà inizio alla Flacca, la stessa strada dell’epopea di Fra’ Diavolo, una storia che vive tra Mimmo Modugno e Laurel & Hardy, cioè Stanlio e Ollio. I titoli dei rotocalchi strillano intanto di una cicatrice sul braccio dell’agente 007, il manifesto di Uccellacci e uccellini nelle bacheche del cinema, una pubblicità «Pejo», la sensazione d’essere immersi in un sicuro dopoguerra, le vacanze ormai infinite. Questo c’è, nel mio racconto iniziale che lo riguarda. S’intitola proprio Terracina, ma l’ho scoperto molto tempo dopo, anche un racconto di Pasolini: «Alle spalle, addossata al monte, con gli stessi colori del monte, grigia e pietrosa, si ammassava Terracina». Pressappoco la mia sensazione, solo un tono d’azzurro in meno. Raccontare in poche pagine il paesaggio italiano muovendo dalla vicenda culturale e umana di Pier Paolo Pasolini. Dalla sua tragica e atroce morte… Forse non l’ho ancora detto, e ci sarà tempo per approfondire i fatti e le circostanze, ma Pasolini ha avuto una 12
morte violenta, ucciso a bastonate, nel novembre del 1975. Ma dicevamo che attraverso di lui c’è modo di fare ritorno a una possibile memoria dello stesso paesaggio italiano. Attraverso uno sguardo «civile», utilizzando il canotto, con annesso salvagente, della nostra memoria. In breve, grazie a lui, è possibile raccontare una storia, molte storie. Il nostro racconto vuol proporre quindi insieme, sullo stesso foglio: descrizioni, riflessioni, commenti, luoghi, volti, testimonianze, dubbi, denunce, flashback, sogni, tentativi di fuga, descrizioni di immagini, descrizioni di oggetti, cose destinate a cancellarsi, memoria non necessariamente condivisa. Perfino qualche rimpianto che corrisponde adesso e sempre al nome e al viso ormai sfigurato di Pier Paolo Pasolini. Digressioni necessarie. Roma come laboratorio umano, Roma come romanzo, Roma come luogo di una memoria perduta. Dalle sue trattorie dove era meraviglioso annegare in un piatto di rigatoni con pajata ai suoi volti famosi, trapassati nel frattempo. Quando era d’obbligo che un Mario Carotenuto o perfino un Bombolo si facessero fotografare abbracciati al bujaccaro, cioè all’oste, al termine del pranzo, e la foto finiva presto attaccata accanto agli scatti precedenti: Claudio Villa, Silvana Pampanini, Andreotti, Giorgio De Chirico… C’è stato un momento nel quale sembrava che questo lavoro intellettuale potesse essere svolto con fatica, ma anche portando a casa perfino qualche risultato, sembrava addirittura che il Paese aspettasse d’essere messo in salvo: dall’indifferenza, dalla miseria, dalle offese del potere e della mafia, anzi, come diceva Pasolini, del «Palazzo», e perfino dalla tentazione del fascismo e del qualunquismo, preziosi di famiglia della società italiana. Fra i pochi intellettuali italiani a essere riusciti a realizzare un consapevole racconto «civile» c’è stato appunto Pier 13
Paolo Pasolini. Poeta, scrittore, polemista, regista che ha saputo mettere al mondo un irripetibile paesaggio cinematografico – Le ceneri di Gramsci, Ragazzi di vita, Accattone, Il Vangelo secondo Matteo, Il Decameron, Salò, e perfino certi articoli di giornale, gli Scritti corsari e le Lettere luterane, dove provò a spiegare la mutazione antropologica, il «genocidio culturale» cui stava andando incontro la società italiana – Pasolini, scomparso da quasi quarant’anni, pressappoco una vita intera – mostra ancora oggi la realtà della sua assenza. Che è poi la prova di un vuoto di pensiero. Ecco, proviamo a spiegare quando e dove è morto. Erano infatti i primi giorni di novembre del 1975, quando all’Idroscalo di Ostia venne ucciso. Da un ragazzo di borgata di diciassette anni, Pino Pelosi, così almeno si disse. O almeno così afferma il processo di primo grado. In verità, come siano andate realmente le cose resta uno dei tanti, inestricabili misteri italiani. Omicidio «in concorso con ignoti», concede proprio la sentenza di primo grado del tribunale. Anche le successive versioni, dove Pelosi in parte ritratta sostenendo la propria innocenza, lasciano comunque ampi spazi bianchi occupati da numerosi dubbi: tre persone dall’accento meridionale, intanto che picchiavano a morte lo scrittore, gli avrebbero gridato «arruso», «sporco comunista», «fetuso», «pezzo di merda». Poco e niente, folklore (con la K) isolano, siciliano. A molti infatti sembrò, quello di Pasolini, un delitto politico. Con malavitosi, bande della criminalità romana, gente della cosiddetta Banda della Magliana, che poi erano soprattutto testaccini, servizi segreti, mafiosi e fascisti in libera associazione per delinquere. Con la complicità del «Palazzo». Un «favore» ai potenti. Dov’eravamo, cosa eravamo il 2 novembre di allora? I ricordi sono ancora tersi: personalmente tornavo a casa da un 14
viaggio in Europa, avevo appena lasciato Parigi, il quartiere di Denfert-Rochereau con il suo grande leone di bronzo nel pieno di una piazza come fosse un centrotavola, l’ultima tappa. Con un’auto, una Morris Traveller senza più freni, riuscii comunque a raggiungere Genova, e fu in un’area di servizio dell’autostrada che il mio compagno di viaggio, che era poi un cugino di dieci anni più grande, Filippo, professore di filologia classica, all’alba, dopo essere stato al vicino autogrill, mi raggiunse portando con sé il giornale dei comunisti italiani di allora, «l’Unità», che titolava: Assassinato Pier Paolo Pasolini. In prima pagina c’erano le parole di un altro scrittore altrettanto bravo, Paolo Volponi: «Dobbiamo accettarne sino in fondo lo scandalo, più che con pietà con civile coscienza, perché non venga rimossa e poi affidata alla leggenda più che alla storia. L’immagine più bella di Pasolini è quella dell’umile Italia, del popolo innocente e percosso, affamato di storia». Quindici anni dopo, cioè nel 1990, con Volponi saremmo diventati amici, grazie a Laura Betti che volle presentarmelo perché a lui era piaciuto il mio romanzo d’esordio. Quante passeggiate insieme fra il Pantheon e Palazzo Madama a parlare del Pci, di Adriano Olivetti, di Mario Schifano, citato perfino nel suo romanzo Le mosche del capitale. O a dire male di certi giornalisti di sinistra con i loro, parole di Volponi, «culturalismi». Era già il 3 novembre 1975. L’indomani Pasolini avrebbe dovuto trovarsi a Palermo per una partita di calcio della Nazionale attori e cantanti, e poi ospite di Marco Pannella e Gianfranco Spadaccia al congresso del Partito radicale a Firenze. Radicali a parte, va raccontato infatti che Pasolini amava molto giocare a pallone fin da ragazzino, pare fosse l’unica cosa che lo rendesse contento, che gli facesse 15
esplodere un gigantesco sorriso. Anche se, come racconta qualcuno, era nient’affatto straordinario come calciatore. Ciononostante, sui campetti, chiedeva sempre che gli passassero la palla. Racconta Franco Citti: «Una sola volta l’ho visto incazzato davvero. È stato quando andammo all’Olimpico a vedere Roma-Bologna e la sua squadra perse 4 a 1». A Genova, quel giorno, in un teatro di via XX Settembre andava in scena un musical, Alleluja brava gente, con Renato Rascel e Gigi Proietti, quest’ultimo poco più che un giovanotto. Al telegiornale del primo canale, visto sul traghetto che mi riportava a casa, le immagini giungevano a intermittenza, ripenso però, sia pure in quel singhiozzo visivo bianco e nero, alle interviste. «Pier Paolo era puro», così dice il grande vecchio Eduardo De Filippo, e intanto muove minacciosamente le sopracciglia contro ogni possibile insinuazione, severo, come farebbe un papa, un santone, una grande madre adottiva la cui parola non potrà essere messa in dubbio. Nonostante lo scandalo dell’esplicita omosessualità della vittima, una «diversità» dichiarata, resa pubblica, anche in senso politico, esistenziale, desiderante, problematico, perfino con dolore. Ecco, l’ho detto: Pasolini amava gli uomini, oggi diremmo che era «gay» o forse, prendendo per buone le parole di Pelosi, useremmo il termine «frocio», «ricchione». Anche di questo dovremo parlare diffusamente. Sempre di quel giorno è l’apparizione, forse la prima volta in assoluto, di un nudo femminile in televisione: una ragazza polinesiana che va sott’acqua, una pescatrice di perle. Forse, il funzionario di controllo di via Teulada dovette averla scambiata per un pesciolino degli abissi, altrimenti dubito che lei sarebbe riuscita a fluttuare dentro la televisio16
ne tardo-democristiana del 1975. Poche settimane prima, sul «Corriere della Sera», Pasolini ne aveva chiesto «l’abolizione». Insieme alla scuola media dell’obbligo, Pasolini chiedeva letteralmente la sospensione temporanea della televisione. L’ho già detto che un suo allievo, compagno di strada e biografo, Enzo Siciliano, anni dopo, diventerà invece presidente della Rai, la televisione di Stato italiana. Un dato incredibile che parla dei paradossi della storia e delle scelte individuali. In quei giorni, Silvio Berlusconi, l’uomo che con la televisione farà poi molta fortuna in Italia fino a diventare presidente del Consiglio, non era ancora un argomento di pubblico interesse, aveva però iniziato a prendere la rincorsa, come ho già detto. La settimana dopo i fatti dell’Idroscalo, «L’Espresso» mise in copertina una bella foto dell’uomo sereno e sudato, la mise in primissimo piano, e il titolo era Il mio inferno. Il giorno della morte di Pier Paolo Pasolini, sia detto senza enfasi, molti hanno intuito l’inizio di uno spartiacque nella storia del Paese, quasi come l’assassinio del presidente Kennedy all’angolo fra Houston Street ed Elm Street, a Dallas, per gli americani. O comunque un segnale che preludeva a un golpe imminente. Peccato, anni fa, non avere acquistato al mercato dell’usato di Porta Portese a Roma un mucchietto di istantanee dove Pasolini appare durante le riprese di Salò, il suo ultimo film: il maglione alla moda di quei giorni, una fantasia di losanghe blu, rosse, arancio e grigio, quasi una composizione alla Piero Dorazio, gli occhiali scuri, e tutt’intorno facce, gesti e giacconi di renna di scazzate maestranze del cinema, foto a colori, segnate ormai da una dominante gialla. Un rammarico che vive accanto alla visione di un film visto sempre nei primi anni Settanta, Flesh Gordon, andata e ritorno dal pianeta Porno, dove nel doppiaggio italiano, il 17
gran sacerdote al servizio dell’imperatore Mongo, evidentemente omosessuale, durante una cerimonia solenne invocava «Pier Paolo, maestro di tutti noi froci». Flesh come carne, e l’astronave a forma di pene, meglio, di enorme glande. Perdonate se qui spesso e volentieri parlo di me, lo faccio affinché questo racconto possa avere il pregio della chiarezza, del vissuto, non è infatti la prima volta che Pasolini diventa protagonista di un mio libro, è già successo nel 1992, con Oggi è un secolo, un romanzo dove lo immaginavo mentre fa ritorno alla realtà dopo sedici anni d’assenza, quasi una rilettura del suo Uccellacci e uccellini, il racconto di un mondo che cambia pelle e storia e intanto le bandiere della rivolta sono rimaste chissà dove, e chissà perfino se le ingiustizie sono finite con l’arrivo dei jukebox, davvero chissà? In definitiva, queste mie pagine potrebbero essere considerate allo stesso modo di un racconto molto libero. Così da comprendere, se ciò è infine possibile, il peso specifico intellettuale di Pier Paolo Pasolini, meglio, la scia di nostalgia rilasciata dalla sua improvvisa assenza.
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