Più di quel che avanza

UNO

Dovrei chiedere a Giulio di appendere un quadro alla parete. In tanti anni passati in questa casa non avevo mai notato la nudità impietosa di quel muro bianco. Solo la prospettiva del tempo che dovrò trascorrere fissando quel vuoto mi ha reso consapevole.

Sono immobilizzata in questo letto. Il vortice della mia vita arrestato bruscamente da quella Mercedes sul lungotevere, a due passi da casa. Una frazione di secondo per fermare lo sguardo annegato nel panico dell’autista. E poi il lungo volo, lo stupore più che il dolore. Neanche un brandello di pensiero per Camilla che sarebbe uscita da scuola di lì a dieci minuti. Più niente.

Ma il mio corpo doveva sapere che non sarei morta: nessun film a scorrere davanti agli occhi nel ripresentarmi i fotogrammi della mia vita. Quarantatré anni pieni, finiti appena una settimana fa.

Che dico? Un mese e mezzo fa, una settimana prima dell’incidente. Ho perso molti giorni, espulsi dalla mia vita con il coma indotto. Da ieri sono di nuovo nella mia casa, attrezzata per accogliermi: via il letto matrimoniale per un marchingegno da ospedale, il treppiede della flebo accanto al comodino.

Non posso ancora parlare né muovermi. Sottili tubi di plastica regolano il flusso di quanto entra ed esce dal mio 9

corpo. Niente parole, niente movimenti, nessun bisogno primario al quale attendere. Non sembrerebbe, eppure è vita. Che passa attraverso gli occhi, i suoni, gli odori. E il pensiero.

Il sole entra dalla finestra alla destra del letto, mi colpisce il viso. Attiva i vasi sanguigni con un lieve pizzicore. Non posso grattarmi. Incredibile quanto possa mancare un gesto così banale. Ma non ho ancora energie sufficienti a sollevare la pesante ingessatura. Che troverebbe soltanto le bende.

Fuori dev’essere primavera. Metà maggio, se non ho perso il conto. Giulio porterà Camilla al roseto come tutti gli anni. Un’esplosione di colori e di profumi violenta, che quasi respinge. Una bellezza sguaiata. Quanto a me, preferisco la grazia sommessa di un vaso di margherite in terrazza.

Un filo di profumo sordo, invece della pungente fragranza delle rose che mescolano in uno spazio troppo angusto sentori di spezie, di legni, di frutti.

Stefano lo sa bene. In questi tre anni non mi ha mai regalato una rosa. Piuttosto gerbere o girasoli. Giulio, invece, ne riporta un fascio per ogni anniversario. Non gliene faccio una colpa: ero troppo giovane quando mi innamorai di lui, troppo insicura per confessargli i miei odi. Ecco: uno dei vantaggi del trovarsi un amante a quarant’anni è che sei capace di dirgli queste cose. Senza temere di ferirlo o allontanarlo da te.

In ogni caso, in questa stanza non ci sono fiori. È stato reso tutto così asettico da farmi quasi rimpiangere l’ospedale. Forse perché non ho ricordi della rianimazione, di quel luogo sospeso tra vita e morte, del quale solo ho letto sui libri, come tutti. Alcune esperienze sono ormai parte della mia vita, ma non ne conservo memoria. Depositate nella mia mente solo le immagini dei pochi giorni nella stanza 10

a due letti, pulita ma non fredda. Le cianfrusaglie sul comodino accanto alla mia compagna di degenza, una ragazza reduce da una brutta caduta in motorino. Un libro, un diario scolastico gonfio di fotografie e disegni, un cellulare perennemente trillante dal quale pendeva un campanellino, un peluche. Tocchi di colore e di vita.

Ma Giulio ha deciso di riportarmi a casa. Accollandosi la spesa di un’assistenza infermieristica quasi ventiquattr’ore su ventiquattro. Rivoluzionando l’appartamento. Costringendo Camilla a vedere ogni giorno il mio corpo immobile e intubato. Un atto d’amore? Forse. Crudele come solo può diventare in una coppia che convive da quasi vent’anni. Io non ho avuto voce in capitolo, e non so cosa avrei voluto.

Mi mancava la mia casa. Le scale di pietra del palazzo antico, gli spazi ristretti ma ben tagliati, il terrazzino fiorito.

Il mio letto, il mio bagno, la cucina dove prepararmi un caffè. Ma tutto questo è ancora molto lontano. Mi hanno trasportato a braccia due sorridenti infermieri rumeni. E mi hanno depositato in questa stanza svuotata per fare spazio alle mie ferite e alle mie cure. Giulio dorme sul divano letto dello studio, il nostro talamo nuziale giace in cantina in attesa di tempi migliori. Tempi nei quali tornare a dividere il metro e sessanta di un materasso, attenti a non sfiorarsi. O a fare l’amore quasi per forza, quando Camilla dorme a casa delle sue amichette, e se non ora quando.

Adesso ho un vantaggio. Sono privata del mio corpo, non ne dispongo. Né lui si fa sentire con atroci dolori, come ho temuto. Le decine di farmaci che mi vengono iniettate nelle vene e nei muscoli mi rendono ospite di una massa inerte, sorda.

E anche i pensieri iniziano appena a riprendere vivacità, a concatenarsi. Fino a ieri erano frammenti, cocci di un bic11

chiere fracassato a terra, senza connessione. Persino i sogni mi avevano lasciato a un sonno più simile all’oblio. Stanotte, invece, alcuni volti sono comparsi, parole sussurrate, gesti sommessi. Con delicatezza sono rientrati nella mia mente, hanno ritrovato la strada del mio cervello. Ancora privi di un senso vero o presunto, poco più che larve. Ma ho capito che sono tornati.

I desideri. Quelli davvero non li ho più. Come se avessi sprecato tutta la mia energia a desiderare di restare in vita. E niente più mi sembra importante, o anche solamente degno di essere desiderato. Ma quanto sia lontana quest’assenza dalla soddisfazione, lo può capire solamente chi l’ha provata. Credevo che l’appagamento fosse l’unica via per mettere a tacere un desiderio. Ne esiste un’altra, e io la sto sperimentando.

Sento passi fuori dalla porta. Camilla deve essere tornata da scuola. Le è stata imposta una porta chiusa: non posso affaticarmi. I suoi otto anni scalpitano in corridoio, dibattendosi tra la voglia di salutarmi e l’ordine perentorio del padre di non farsi vedere prima delle cinque del pomeriggio.

Povero Giulio. Pensa davvero che io riposi? Sono giorni che non faccio altro: dormire dormire dormire. Calmanti, antidolorifici, sonniferi. Tutto per farmi dormire. Non ne ho più voglia. Sono sveglia adesso, se potessi chiamerei qui la mia bambina anche solo per guardarla. Non sa stare ferma: si muove continuamente, si dondola da un piede all’altro, gioca con i capelli, si mordicchia le unghie. Un’irrequietezza quasi insopportabile, che esaspera le maestre e, spesso, anche noi. È il tratto che me la rende più vicina. Come tutte le madri, mi è successo di chiedermi se davvero quella creatura distinta da me e incomprensibile portasse in sé l’impronta 12

genetica di quella che sono. E a volte mi sono risposta con sconcerto che nulla di quello che vedevo sapeva parlarmi di me.

Eppure quella sua irrequietezza, che per ora trova sfogo nei gesti, ha segnato tutta la mia vita fino a oggi. Strade prese e abbandonate, affetti e amori infuocati e ridotti in cenere, città e case diverse, viaggi in luoghi lontanissimi e appena dietro l’angolo. Una fame che mi ha consumato da quando ne ho memoria. Ho però avuto l’accortezza di fermare alcune stelle fisse, per non perdermi del tutto. Un marito, una figlia. Non argini: mai ho ridotto la mia esistenza alla dimensione familiare, molte mie passioni hanno continuato a vivere fuori. Solo punti di riferimento, porti ai quali tornare.

Temo e spero che Camilla sia come me, che non si accontenti, che non si fermi mai. E che non debba fermarsi, come invece è accaduto a me. Anche per questo tratto che ci avvicina, è così strano non provare desideri, non aver voglia di alzarmi da questo letto, di mangiare un piatto di spaghetti, di abbracciare mia figlia o fare l’amore. Né di avere un orizzonte più ampio di questi quattro muri, dello scorcio della finestra, della porta chiusa.

Lo specchio! Ecco cosa rende la parete così nuda. Giulio ha portato via lo specchio. Non era grande, appena sufficiente a incorniciare il volto e le spalle. Mi rendo conto adesso di non conoscere più la mia immagine. Vedo a malapena qualcosa del mio corpo, gessi, bende, buchi. Qualche lembo di pelle livida. Ma il viso, quello non so più come sia.

Mi avranno tagliato i capelli? Immagino di sì, ho bende sul cranio e sullo zigomo. Non ho mai portato i capelli corti, sentirli sfiorare le spalle era come una piccola sicurezza. Forse non mi riconoscerei.

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Non so se essere irritata o grata a Giulio per aver staccato lo specchio. Deve aver pensato che lo spettacolo, per me, sarebbe stato scioccante. Ma allora perché imporlo a Camilla?

Buffo come l’idea di essere sfigurata, orribile, mi spaventi così poco. Per tutta la vita ho lottato giorno per giorno per mantenere un aspetto piacevole, per continuare a suscitare desiderio negli uomini e invidia nelle donne. Ho imparato il taglio dei vestiti che valorizzavano al meglio le mie forme, bandito quelli che le mortificavano. Utilizzato ad arte un trucco lieve ma sufficiente a mascherare gli scherzi del tempo. Cancellato i capelli bianchi con un castano naturale, tanto simile al mio da rendere indistinguibile la tintura dalla natura.

Adesso prendo in considerazione l’idea di essere diventata un mostro. E non m’importa. La prospettiva dalla quale guardavo la mia vita ha cambiato punto di fuga. Adesso è come se io osservassi da dietro. E riconoscessi, oltre gli ornamenti e il colore, quella struttura che davvero regge la mia persona. Sono lucida, posso pensare. Non posso fare molto altro, in realtà. È come se fossi scesa al nocciolo duro e liscio dell’esistenza, a quel nucleo che ci distingue da un sasso. E non mi serve nient’altro. Se non sembrasse ironico, direi che sono felice.

Stefano è affacciato alla balaustra. Osserva il Tevere scorrere in mulinelli attorno all’isola Tiberina. Da dietro, la sua schiena nervosa guizza nella polo leggera. I capelli ricci, castani più che grigi nonostante i cinquant’anni passati, ondeggiano nella brezza della sera. La trepidazione di questo incontro è pelle increspata sulle braccia scoperte, caldo allo stomaco, tremito alle gambe. Ma il mio viso è fermo: lo so, lo sento. Come so cosa sta per succedere. L’attrazione tra 14

noi evidente da subito. L’appuntamento a suggellare quello che già sappiamo. Prima di mezzanotte avremo fatto l’amore. Dove, e soprattutto come, non mi è ancora chiaro, ma è un dettaglio. Non a casa sua, né mia: mariti, mogli, figli.

Probabilmente nel suo studio dove da qualche mese porto Camilla a farsi visitare. Anche quando non ha nulla, se non un accenno di raffreddore.

Ma adesso sto pensando ad altro. Penso a come reagirà la mia pelle contro la sua, all’emozione che sapranno regalarmi le sue labbra, allo sfinimento che accompagnerà il mio distendermi, stanotte, al fianco di Giulio.

Stefano non mi sente arrivare, o fa finta. Gli sfioro una spalla. I suoi occhi verdi, intensi, mi frugano tra i vestiti senza troppo pudore. Ha un bel sorriso, aperto. Sorrido anche io: non ci siamo ancora scambiati una parola. E prima di farlo mi bacia. Senza preamboli. Ma teneramente. Come non mi capitava di essere baciata dall’adolescenza. Con labbra che dapprima si sfiorano appena, poi si schiudono a rivelare le profondità della bocca, la morbidezza della lingua.

Si svuota lo stomaco e la mente. Capisco in una frazione di secondo che quella che sta per cominciare non è l’ennesima avventura. Non il gioco di seduzione che si esaurisce nello spazio di una sera. Provo a scappare. Come una bestia, sento, istintiva, la paura della trappola. Ma la dolcezza e la decisione di Stefano mi inchiodano. E dopo tre anni questa relazione è quanto di più simile all’amore io possa ricordare.

La serata finisce là dove avevo immaginato. A far l’amore tra bilance da neonati e poster dei puffi. Con un leggero senso di sacrilegio: come, mi chiedo, potrò ancora portare Camilla qui, farla distendere su questo lettino?

Torno a casa inebriata, le guance rosse, il corpo acceso e ancora affamato, le labbra gonfie, gli occhi lucidi. Giulio 15

sta già dormendo. O almeno ha spento la luce. Vado un momento a guardare Camilla che dorme: anche così non può fare a meno di rigirarsi, di scalciare. Poi in cucina: non abbiamo cenato, alla fine. E ho una fame colossale, insaziabile. Mi taglio una fetta di pane, poi un’altra. Ho ancora i sandali con i tacchi ai piedi. Rovisto in frigo, tiro fuori del formaggio, poi finisco anche la marmellata. Mangio finché la nausea non mi assale. Solo allora vado in bagno. Prima di lavarmi annuso la pelle delle braccia alla ricerca delle tracce di quell’altra pelle. Infine mi infilo tra le lenzuola fresche.

Giulio si rigira nel letto. Per la prima volta dopo tante avventure sento di averlo tradito. Immagino che anche lui abbia le sue storie, o le abbia avute. Non ho mai indagato, preferisco far finta di niente. Come fossero stampelle di un matrimonio invecchiato. Ma adesso è diverso. Adesso quello che sento rischia di mettere in discussione tutto. Conosco la mia irruenza, e la temo.

Prendo sonno solo all’alba, con il corpo ancora palpitante.

Ora invece il mio corpo è immobile. Non un muscolo freme. Devo essermi assopita.

Il primo appuntamento con Stefano, la prima volta che abbiamo fatto l’amore, è tra i ricordi che tengo più cari per la sua magia, il suo profumo, la sua intensità. Ma pensarci adesso, dal fondo di questo letto, immersa nell’odore di disinfettante, è come sterilizzarlo da ogni emozione.

Non vedo Stefano da due mesi, non lo sento dal giorno dell’incidente. Non sono però certa che mi manchi. E in fondo non mi è mai mancato. Mi ha concesso così poco del suo tempo da farmi assuefare alla sua assenza. Il suo non esserci è normalità, l’esserci incanto. Così è stato per quasi 16

tre anni, da quel giugno sull’isola Tiberina. Né io gli ho mai chiesto di più. I miei sentimenti avevano già messo tanto a rischio la mia vita da non voler correre altri pericoli.

Ma non è tutto qui. È che il nostro rapporto ha una tessitura diversa da qualunque altro io abbia provato. Non l’affetto coniugale condito di consuetudine e mutuo sostegno, non la semplice attrazione fatta di incontri rapidi e brutali. Ma un amore che si è nutrito della sua impossibilità.

Di quanto, poco, è riuscito a erodere delle nostre rispettive vite. Di incontri strappati al calendario con mesi di anticipo e subito ingoiati dai giorni uguali che ci aspettavano fuori dai nostri alberghi, dal suo studio. Di lettere lette e distrutte per non lasciare tracce, di telefonate furtive e brevi.

E proprio per questo mi era prezioso. Per la sua precarietà, per l’impossibilità di darlo per scontato. Per la tenacia con la quale ci costringeva a gesti assurdi pur di vederci un’ora, un minuto. Per la forza che bruciava quegli istanti, che rendeva la qualità del tempo così diversa: sempre troppo breve. Sempre mi restava quella fame addosso, la stessa provata la prima notte. La necessità di riempire idealmente e realmente quel vuoto che si apriva quando ci separavamo, quel baratro nel quale ogni tanto gettavamo una manciata di sassi sperando di colmarlo, prima o poi.

Sappiamo benissimo entrambi che è una storia senza futuro. E, anche, senza presente. Fatta di brevi intermittenze della vita alle quali, tuttavia, non siamo più capaci di rinunciare. Complicata da un sentimento profondo, che mette in crisi quanto abbiamo costruito negli anni in cui le nostre esistenze procedevano su binari che non si incrociavano.

Ma l’analogia, il comune sentire, finisce qui. Stefano più volte mi ha chiesto perché non lasciassi Giulio, per quale ragione continuassi a dividere con lui la casa e il letto. In17

concepibile pensare di potermi dividere, impossibile che io compissi gesti simili con un uomo che non amavo più. Mai, però, ha proposto di fare lo stesso. Né io glielo ho chiesto.

E non per paura, o per ipocrisia. Ho imparato ad amare un uomo che non mi vuole accanto. Ho imparato a non volerlo accanto io. A confrontare le calde immagini di un risveglio insieme con quelle atroci di una convivenza forzata.

Dove si finisce per avere bisogno l’uno dell’altra.

Stefano ha bisogno di sua moglie Chiara. Senza di lei non saprebbe fare una lavatrice, accompagnare i figli a scuola, cucinare un pasto, tirare su il letto. Di me non ha bisogno, perciò mi sceglie.

Ma come tutto questo mi sembra impalpabile adesso, lontano. E, tutto sommato, privo di interesse. Avrà saputo del mio incidente? Certo mi avrà chiamato. Chissà che ne è del mio telefono, se Giulio ha risposto alle chiamate insistenti del pediatra di Camilla, cosa si sono detti. Da mio marito non riuscirò a capire nulla. Galleggia nella sua bolla di indifferenza al mondo, concentrato sul suo lavoro, sui suoi interessi. Freddo a tutto salvo, forse, a Camilla. Solo lei sa smuoverlo dalla sua immobilità, accendergli una luce divertita negli occhi o farlo bruciare di rabbia.

In ogni caso i due uomini della mia vita sono lontani da questo letto. E non di una distanza che si possa percorrere.

Di anni luce, di ere geologiche. Appartengono a un altro mondo, un mondo verticale e dinamico, assorbito da impegni e scadenze, da incontri e litigi. Un mondo dal quale mi sono presa una vacanza. Una pausa forzata e però forse desiderata. Anche se lunga, temo.

Questo tempo serve a me per riappropriarmi di me stessa. Per imparare a convivere con questa nuova me, segnata, ferita, fragile. Questa me che non parla, che non si muove, 18

che ha perso pudore verso il suo corpo, manipolato e rivoltato da schiere di infermieri. Quanto è lontano l’uso del corpo nella seduzione! Adesso di questa pelle non so che farmene, non voglio interessarmene. È la buccia del nocciolo, lo protegge ancora, ma non serve a molto di più.

Dovrà finire. Anche questo tempo dovrà finire. Il mio lavoro vuole occhi attenti, mani precise. Mi chiedo chi, dei miei colleghi allo studio, avrà portato a termine il restauro del Mattia Preti al quale stavo lavorando. Era una tela in buone condizioni. Una volta rimosse le tracce dei restauri ottocenteschi aveva ritrovato la vividezza dei colori, l’imponenza delle forme. Un vecchio con vesti di foggia araba che tiene la mano possente sulla spalla di un giovinetto. Il volto di tre quarti del primo dai lineamenti marcati, la vaghezza del profilo del secondo. Contemporaneamente al restauro stavo conducendo ricerche in biblioteca per chiarire l’iconografia, stabilire il soggetto dell’opera.

Come sempre quando capitava una tela importante ritrovavo entusiasmo nel rimuovere tutto quanto offuscasse la forza originale della pittura. Cura nel colmare le piccole lacune con lo stucco, nel livellare le stuccature con carta vetrata finissima, poi con il bisturi. Fino a ricomporre una superficie perfettamente liscia e uniforme, pronta ad accogliere i ritocchi, a ridare completezza all’immagine.

Questi infermieri e questi medici hanno salvato un’opera martoriata, destinata a perdersi per sempre. Con ostinazione hanno colmato le ferite, curato le fratture, ricomposto qualcosa che sembrasse di nuovo umano. E su questa superficie ricostituita lavorano senza posa per ritrovare la bellezza originaria, la forza dei tratti. Forse una battaglia senza speranza. Qualunque cosa verrà fuori dal loro lavoro sarà perdutamente diversa da quella che ero. E chissà che non 19

valga lo stesso per le tele sulle quali mi ostino. Che il risultato finale non sia che un’illusione, l’ombra vaga di quanto l’artista aveva pensato e realizzato nello spazio magico del quadro.

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