1. IN ITALIA
Sono nato alle 14 del 25 marzo 1986 a San Giovanni in Persiceto, un paese di ventottomila anime, venti chilometri a nord di Bologna. Per i dettagli sui primi cinque o sei anni è meglio chiedere ai miei genitori o a mio fratello Enrico. Oppure alla maestra delle elementari, che tra i vari pompieri, dottori, astronauti e avvocati si ritrovò anche il mio tema in classe che iniziava più o meno così: «Da grande voglio fare il giocatore di pallacanestro». Da quando ho memoria non ricordo di aver voluto fare altro nella vita. Se sei nato a metà degli anni Ottanta e sei cresciuto a venti chilometri dal centro di Bologna, la pallacanestro non può non avere anche solo sfiorato la tua vita. Almeno quanto il tortellino in brodo, perché il vero tortellino bolognese, sia chiaro, è solo e rigorosamente in brodo. Pur avendo amato dal primo istante il rimbalzo della palla e il fruscio della retina, il colpo di fulmine non arrivò grazie alle imprese virtussin/fortitudine, bensì attraverso le numerose vhs che popolavano gli scaffali della libreria di mio fratello Enrico. Come Fly with Me, Always Showtime e Larry Legend erano passaggi quotidiani obbligati. E sarebbero ancora lì se non avessi consumato i nastri sulle testine del vecchio lettore. 17
Pokerface
Prima di addentrarmi nella storia di come l’invenzione del professor Naismith abbia cambiato la mia esistenza, vorrei raccontarvi della mia famiglia senza la quale oggi non sarei qui a scrivere questo libro, a cominciare dai miei genitori. Loro sono il punto di riferimento della mia vita. Persone umili e riservate, mai sopra le righe. Mi sono sempre stati vicino. Messaggi diretti, poche parole ma sempre dritte al cuore. In qualche modo che non so spiegare, sapevano che prima o poi avrei vinto. Lo percepivo dalla forza e dall’intensità dei loro messaggi. «Non mollare mai», «fai sempre ciò che senti», perché alla fine ciò che conta è che «tu stia bene con te stesso.» La famiglia di mamma è il motivo per cui nasco e vivo a San Giovanni. Figlia di nonna Maria e nonno Antonio non ha mai abbandonato il suo paese. Antonio è il nonno dal cappello con la piuma che oggi è diventato uno dei tatuaggi che porto addosso. Era un nonno speciale, di quelli che ti accompagnano ovunque. Era conosciuto in tutto il paese, mi portava a scuola di pittura, indossava sempre abiti eleganti. Rimase vedovo abbastanza presto, credo fosse anche per questo che dedicò tempo e attenzioni ai suoi nipoti. Aveva senz’altro bisogno di amare, e noi eravamo lì a prenderci tutto. I piccoli ma significativi ricordi della mia infanzia sono spesso legati a lui, come il giorno in cui si presentò con cemento e cazzuola per fissare il ferro nuovo di zecca appena arrivato per Natale. Quel canestro oggi è ancora lì e ogni volta che lo osservo mi viene in mente il nonno col suo sorriso appena accennato sotto il suo cappello da alpino. 18
In Italia
È volato via una mattina, sul divano di casa. Era il 23 novembre 2004. «Vuoi un caffè?» gli chiese mia mamma. Non rispose mai. Al contrario di ciò che facevo io quando in giardino lo sentivo gridare: «Marco, vieni dentro, è tardi e fai troppo rumore con la palla!» «No, questa è casa mia», gli rispondevo seccato palleggiando. Il rimpianto più grande è che non abbia potuto vedere dove sono arrivato, ma mi piace pensare che lassù, un seggiolino privilegiato per gara 5 di finale NBA nel 2014 fosse destinato a lui. Papà lavora ancora in ospedale a San Giovanni in Persiceto: Dottor Daniele Belinelli, specializzato in chirurgia. Conserva resti di accento francese al quale non ho mai fatto caso. Non conserva invece più una «elle» del nostro cognome. Un giorno lo chiamò un funzionario comunale di Crevalcore: «Signor Bellinelli, c’è stato un errore, le dobbiamo togliere un “elle” qui». L’abbiamo persa nel cammino del nostro albero genealogico: un errore di trascrizione che ci ha trasformato da Bellinelli a Belinelli. Papà se ne andò dall’Italia giovanissimo. Il nonno Adriano si trasferì in Francia subito dopo la Seconda guerra mondiale per gestire alcuni garage di uno zio a Parigi. Restò lì per sempre. Così dagli anni Ottanta, trascorrevano mesi oltre le Alpi durante l’estate per poi scendere in inverno e trasferirsi a Crevalcore. Viaggio che effettuavano ogni anno rigorosamente in macchina: ParigiCrevalcore. Per i ragazzi del posto, mio padre e suo fratello erano «i francesi.» Papà è presto diventato il cervello della famiglia: ha stu19
Pokerface
diato all’università di Parigi e si è laureato in medicina. Durante l’estate, quando tornava in Italia per le vacanze conobbe mia madre, motivo per cui un giorno decise di non andarsene più. Suo fratello restò in Francia dove vive tuttora con la sua famiglia, quella dei Bellinellì con la «elle» conservata e con l’accento tonico sulla «i». Un anno la connection francese arrivò perfino all’orecchio di un assistente allenatore della nazionale transalpina agli europei cadetti. Un tale che fece un interrogatorio di quarto grado a mio fratello Enrico tentando in tutti i modi di capire se avrei potuto giocare per loro. «Ci manca una guardia tiratrice», gli diceva. Esilarante! Oggi, mentre dall’altra parte del mondo entro in campo, sorrido pensando a papà che passeggia nervoso al piano di sopra. So bene che non mi sta guardando, perché se lo facesse inonderebbe di lacrime il divano con sopra mia madre. Invece si limita a origliare qualcosa, a tratti fa finta di dormire. È meglio così per tutti, quella sua emozione incontrollabile per me è, e resterà, un premio della vita. Il giorno in cui nonno Adriano volò in cielo, invece, accaddero due cose strane. La prima è che mia mamma quel 4 luglio del 2013 cambiò la marca dell’acqua acquistata da sempre. In tavola quel giorno è comparsa quella con il nome di un santo, un santo che poi si fece vivo al mio telefono di casa. Mamma, Iole Maccaferri, ha sempre raccontato di avermi allattato ben più dei canonici nove mesi, altrimenti non si spiegherebbe come ho fatto a diventare l’unico dei tre fratelli con 196 centimetri. Anche se nell’albero genealogico della famiglia spicca «l’alta» presenza dei fratelli del nonno Adriano, due che negli anni 20
In Italia
Trenta viaggiavano sul metro e novantuno. Probabilmente il patrimonio genetico l’ho pescato da lì. Oggi lei è in pensione e anche se vive ancora nella nostra casa di San Giovanni in Persiceto fa la vita americana. Perché quando scendo in campo va a dormire alle 21 e si alza alle 2: ha la sveglia biologica, dice lei. Guarda la partita insieme a mio fratello, e dopo avermi mandato il solito messaggio, un telegrafico «bene così» in linea con la sua filosofia discreta, mi rende felice e si regala un altro paio d’ore di sonno. Una matta. Quando i San Antonio Spurs ci mandarono la lista degli oggetti (due) che potevamo aggiungere oltre all’anello di campioni che ci spettava di diritto, decisi di scegliere un ciondolo per lei con sopra scritto «Ti voglio bene». A mio padre e a mia madre devo il sogno della mia vita. Posso solo immaginare il trambusto di pensieri che scatenò coach Jasmin Repesa nelle loro teste quando al primo anno in Fortitudo disse loro che sì, ero bravo, ma che ero «così bravo che probabilmente era il caso che mi allenassi di più.» In sostanza, dovevo smettere di andare a scuola. I miei non mi dissero mai una parola di quella conversazione e fino all’ultimo rimasi all’oscuro di tutto. Due mesi dopo, consumata la loro riflessione in silenzio, mi convocarono: «Ti diplomi alle serali, così la mattina potrai allenarti. Va bene? È quello che vuoi?» Fu un momento incredibile, probabilmente la svolta di tutto. Ancora oggi dispenso sulle loro spalle simpatiche pacche e buffetti. «Quel giorno avete fatto la scelta più intelligente della vostra vita» dico loro provando a prenderli un po’ in giro. Ma ogni volta che ci penso mi incanta il loro coraggio e soprattutto mi commuove il fatto che già allora credessero così tanto in me. 21