La promessa dell’oceano

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UNO

Mahé strinse la mano al dentista senza dire una parola: non si sentiva più né la guancia né le labbra. Se non altro si era sbarazzata del dolore lancinante che l’aveva tenuta sveglia per parte della notte. Si affrettò in direzione della sua vecchia station wagon, parcheggiata non lontano dallo studio medico, e partì a tutta velocità. Nell’abitacolo aleggiava un vago sentore di pesce che però non la disturbava. Quell’odore aveva sempre impregnato le automobili della sua famiglia: la prima volta che, da bambina, aveva arricciato il naso, i suoi genitori erano scoppiati a ridere, spiegandole che la pesca dava loro da vivere. Lasciò place du Martray e le sue case a graticcio, uscì da Lamballe e proseguì in direzione di Val-André. La stagione di pesca alla capasanta, che andava da ottobre ad aprile, stava per iniziare. Quel periodo coincideva con la partenza degli ultimi turisti e ben presto la costa sarebbe di nuovo appartenuta ai bretoni. Il giorno prima, Mahé aveva trascorso la giornata con i marinai della sua piccola flotta, stabilendo il programma dei pescherecci. Possedeva una patente nautica, ma di solito restava a terra per seguire la parte amministrativa. Il passaggio di consegne tra lei e suo padre era avvenuto senza problemi, il suo ruolo era stato accettato perché nel corso degli anni si era fatta una certa esperienza in mare, e poi perché era la figlia di Erwan Landrieux. Quando quest’ultimo era stato colpito da un ictus, per i marinai era stato del tutto normale che


Mahé raccogliesse il testimone. Nessuno si era permesso di trattarla da figlia di, in quell’ambiente c’era più solidarietà che maschilismo. Tuttavia, non era un’ingenua: sapeva perfettamente che i marinai che lavoravano per lei non avevano i mezzi per comprarsi una barca e vivevano tutti del loro salario. Mahé era la proprietaria dei pescherecci, provvedeva alla loro manutenzione, pagava l’assicurazione, si occupava di tutta la parte amministrativa e applicava rigorosamente le normative in vigore. Una sicurezza per i marinai, che uscivano in mare con la mente sgombra di pensieri, preoccupandosi solo dei pesci. Certo, Erwan si era fatto una solida reputazione e sua figlia ne beneficiava. Suo padre aveva saputo diversificare l’attività al momento giusto, non limitandosi ai pescherecci per la pesca alla capasanta, ma investendo anche in due pescherecci oceanici. Quando non si poteva più pescare la capasanta nella baia, si usciva in alto mare a cercare sogliole, rombi, spigole, rane pescatrici o triglie. Prima che suo padre venisse debilitato dalla malattia, Mahé aveva trascorso intere stagioni sui pescherecci Landrieux. Era in grado di riparare una draga o una rete a strascico, di tenere il timone quando tirava vento, di valutare il peso del pescato solo guardandolo contorcersi sul ponte. Conservava di quel periodo una certa aria da maschiaccio ma, visto che adesso non accompagnava più i marinai, si sforzava di curare il proprio aspetto. Si era lasciata crescere i capelli scuri in un carré scalato con la frangia che la rendeva più femminile. Abbinandole ai jeans, di cui non poteva comunque fare a meno, aveva preso l’abitudine di indossare camicie bianche con giacche dal taglio impeccabile. D’inverno, i suoi stivali ora avevano il tacco, mentre un trucco discreto metteva in evidenza i suoi grandi occhi verde-blu, l’esatto colore della Manica nelle giornate di bel tempo. Tuttavia, se da una parte aveva smesso di dire


parolacce e di bere la birra direttamente dalla bottiglia, aveva mantenuto il suo caratteraccio. Prima di Saint-Alban, girò a destra verso Erquy. Era fiera di vivere in quel porto di pescatori, riuscendo a vendere al mercato ogni anno più di diecimila tonnellate di pesce e capesante. O, più correttamente, come si chiamavano ora, «mercati del pesce». C’erano stati così tanti cambiamenti negli ultimi anni! Le quote del pescato, gli orari, le associazioni… Già prima dell’ictus Erwan non ci si ritrovava più e non faceva che imprecare. Oggi non ci capiva nulla e lasciava fare a Mahé. Si era inacidito perché parlava e si muoveva a fatica, a soli settant’anni si sentiva un uomo finito. «Mettimi in un ospizio!» diceva a sua figlia, senza pensarlo davvero. Un ospizio per vecchi rimbambiti? Non se ne parlava nemmeno. In compenso, diventava sempre più scontroso e aggressivo. Mahé teneva duro, non poteva fare altrimenti. Sopportava la convivenza alzando gli occhi al cielo, ma gestendo tutto. Ovviamente, tra un padre brontolone e un’attività da mandare avanti, non aveva alcuna vita privata. Ma le andava bene così, non aveva mai superato la perdita del fidanzato. Un dramma al quale non voleva più pensare, ma che talvolta tornava a ossessionarla negli incubi. Immaginava l’oscurità del mare in tempesta, il freddo che doveva aver sentito Yvon quando era caduto in acqua, il suo terrore, le sue grida disperse dal vento. Il panico dei marinai rimasti a bordo. I salvagenti lanciati in fretta, i fanali accesi. Che cosa aveva fatto Yvon in tutto quel caos? Doveva aver lottato come un pazzo, soffocando sotto l’assalto delle onde. E poi la morte lenta per annegamento, il corpo che sprofondava negli abissi. Riandò con la mente al ritorno del peschereccio oceanico in porto. Avvertita via radio all’alba, era rimasta ad aspettare sulla banchina battendo i denti, avvolta nella cerata, senza riuscire a smettere


di piangere. Pioveva, il turbinio del vento glaciale faceva danzare le barche ormeggiate. Suo padre aveva infine attraccato, lanciando le cime. Il viso sconvolto dal senso di colpa e il dolore, aveva alzato lo sguardo su di lei. Alle sue spalle, i due marinai lavoravano in silenzio, le spalle curve. Erano stati raggiunti da un responsabile della Capitaneria, seguito da due poliziotti. Erwan aveva descritto l’incidente, causato da una sua brusca virata per risalire un’onda. Forse si era trattato di una manovra troppo affrettata e non aveva fatto in tempo ad avvertire l’equipaggio. Come la maggior parte dei pescatori, Yvon non si metteva mai in sicurezza, nemmeno con il brutto tempo. In mancanza del corpo, era stato dichiarato disperso. Il mare si era richiuso sopra di lui, e non era mai stato ritrovato. Le esequie si erano svolte senza bara, con la banda che suonava una melodia straziante davanti alla chiesa. Mahé pensava che sarebbe morta di dolore. Finché quella donna non l’aveva avvicinata, distruggendo in due parole i suoi ricordi più belli… Frenò bruscamente davanti alla casa di arenaria rosa. Addossata alla falesia, con il tetto di ardesia spiovente e gli abbaini, era il tipico edificio della costa. Per Erwan aveva rappresentato l’inizio del successo, quando, dopo averla comprata, aveva abbandonato la sua capanna da pescatore. Negli anni a venire avrebbe potuto cambiare di nuovo casa, ma non l’aveva fatto. Lì c’erano i ricordi di sua moglie e di un’epoca felice che non voleva dimenticare. L’impronta di Annick era ancora presente nei piatti in maiolica di Quimper raffiguranti le leggende bretoni, in qualche libro sugli scaffali, in una batteria di pentole in rame appese al muro della cucina che Mahé non lucidava mai, e in un copriletto ricamato a mano sempre sul letto di Erwan. Suo padre si aggrappava a quegli oggetti per ricordarsi di lei. La sua memoria stava peggiorando, per quanto non volesse ammetterlo.


Evitando l’ingresso principale, Mahé andò sul lato della casa che dava su un piccolo giardino. Il suo ufficio si trovava lì, raggiungibile da un ingresso indipendente. Sin dai tempi di Erwan, il posto sembrava una discarica e, quando aveva preso in mano le redini dell’attività, Mahé l’aveva trasformato senza metterci un briciolo di passione, poiché nel corso della lunga degenza di suo padre in ospedale, dopo l’ictus, i medici si erano detti pessimisti. A loro avviso, il recupero di Erwan procedeva a rilento e sia l’uso della parola che la funzione motoria non sarebbero più tornate come prima. Mahé non aveva esitato a prendere il suo posto, perché da ciò dipendeva la loro sopravvivenza. Una volta a casa, suo padre aveva approvato e da allora l’aveva lasciata tranquilla, non mettendo spesso piede nel suo vecchio ufficio. Andò a sedersi subito alla grande scrivania di legno scuro e per prima cosa ascoltò il bollettino meteo alla radio. Il dente non le faceva più male, però l’effetto dell’anestesia stava svanendo, provocandole dei formicolii alla guancia. Riconobbe che il dentista aveva fatto un buon lavoro, perciò si sarebbe presentata all’appuntamento successivo anziché disdirlo. Come la maggior parte delle persone, aveva paura dei dentisti e detestava sedersi sulla loro poltrona. «Sei tornata», constatò Erwan dalla soglia. Appoggiato al bastone, rientrava dalla sua passeggiata quotidiana, la visiera del berretto da marinaio calata sugli occhi. Avvolto nel suo solito giaccone, aveva l’aspetto quasi caricaturale del vecchio marinaio stanco. Solo che suo padre non giocava a interpretare la parte del bretone o dell’uomo di mare: lui lo era nell’anima, provenendo da quattro generazioni di pescatori, con in più l’orgoglio di essere stato il primo a sconfiggere la povertà. «Devo preparare il programma dei prossimi giorni», gli disse con un sorriso.


Cercava sempre di mostrarsi gentile, anche se il suo carattere impaziente la rendeva insofferente quando doveva ripetere più volte la stessa cosa. «Hai tolto le mie foto?» L’espressione scontenta, Erwan stava esaminando il muro alle spalle della figlia. «Erano ingiallite, papà. Però le ho conservate, sono qui, se le vuoi.» «Erano le mie barche…» brontolò lui. «I tarli hanno banchettato con i loro scafi ormai da tempo e ora ne abbiamo altre a cui dare spazio. Il fotografo sta preparando degli ingrandimenti del Jabadao, del Korrigan e del Tam bara. Saranno pronti per la prossima settimana. Vedrai, saranno splendidi!» Aveva iniziato con il fotografare i suoi equipaggi, i comandanti, i secondi e i marinai tutti insieme al porto di Erquy. Quello scatto troneggiava già in un angolo della scrivania. Gli scaffali a portata di mano erano carichi di raccoglitori in pelle accuratamente etichettati con i nomi dei marinai e dei pescherecci della sua flotta. Davanti a lei, il computer restava sempre acceso. Mahé non rinnegava il passato, ma aveva adottato metodi più moderni per gestire l’attività. Erwan la osservava lavorare combattuto tra fierezza ed esasperazione. Lo riempiva di orgoglio il fatto che sua figlia avesse raccolto il testimone, ma che riuscisse a fare meglio di lui lo disturbava. Quando, l’anno prima, Mahé aveva acquistato il Jabadao, aveva pensato che corresse troppi rischi. Avrebbe voluto dirle che stava per fare il passo più lungo della gamba, tuttavia una stagione di pesca eccezionale l’aveva costretto al silenzio. E quel peschereccio oceanico comprato d’occasione era una bella barca solida e in ottimo stato. Mahé l’aveva affidato a Jean-Marie, il loro miglior comandante: non c’era niente da obiettare.


«Ho fame», dichiarò. «Quando si mangia?» Se riteneva più o meno normale che sua figlia fosse diventata il capo dell’azienda, ciò non lo induceva a dispensarla dalle attività casalinghe. Mahé aveva cominciato a occuparsi della casa alla morte di Annick e lui non vedeva alcuna ragione perché la situazione cambiasse. «Tra mezz’ora», rispose lei. «Non ho ancora finito.» Erwan uscì brontolando con la sua andatura un po’ meccanica. Coordinare i movimenti gli risultava sempre difficile: spesso, al suo passaggio, faceva cadere degli oggetti o andava a sbattere nei mobili. Mahé sospirò, fissando la porta chiusa. A trent’anni non avrebbe dovuto vivere con suo padre, ma non riusciva a decidersi ad andarsene. Avrebbe tanto voluto avere un appartamento o, ancora meglio, una casa tutta sua, da arredare secondo i suoi gusti. Per viverci da sola, ricevere gli amici, cercare l’anima gemella. Ma era bloccata lì, nel posto in cui era nata e cresciuta, e dove aveva perduto sua madre proprio alla vigilia del suo tredicesimo compleanno. Certo, Erwan le diceva che era libera di fare quello che voleva: «Se hai voglia di invitare degli amici, non farti problemi, non mi sentirai nemmeno». Lui? Non ci sarebbe mai riuscito! E lei non si vedeva proprio a relegarlo nella sua camera in casa sua. Pertanto, andava a cena con gli amici al ristorante o nelle crêperie in rue du Port. Inserì gli ultimi dati, poi si stiracchiò con un lungo sospiro. Diversamente da sua madre, lei non era una brava cuoca, e spesso si accontentava di scongelare del pesce e di cuocerlo in padella o al forno. Però sapeva fare le crêpe di grano saraceno, aggiungendoci tutto quello che le capitava sotto mano. Erwan mugugnava, rimpiangendo il talento di Annick, ma le mangiava sempre con appetito. Chiuse il file e si alzò. Dopo pranzo aveva appuntamento con la sua amica Armelle per un giro sulla sua barca a vela.


Giusto qualche ora approfittando di una delle ultime belle giornate per respirare l’aria al largo. Uscire in mare le mancava, aveva voglia di divertirsi. Non appena la stagione della capasanta fosse iniziata, sarebbe stata sommersa di lavoro e non avrebbe più potuto giocare a fare la skipper. Decise di preparare un pasto veloce: lei e suo padre si sarebbero accontentati di un’omelette al prosciutto e formaggio. Jean-Marie aveva completato la meticolosa ispezione del Jabadao e si concesse una sigaretta sul molo. Si era innamorato di quella barca dal giorno in cui Mahé l’aveva comprata, proprio come era innamorato di lei. Ma mentre poteva proclamare il suo attaccamento al Jabadao, alla giovane donna non aveva detto nulla. E non solo perché lei era il suo capo. In realtà, aveva ceduto al suo fascino parecchi anni prima, quando Erwan l’aveva assunta come mozzo. A quell’epoca, purtroppo, lei aveva occhi solo per Yvon, con il quale si era in seguito fidanzata. Jean-Marie aveva dovuto reprimere i propri sentimenti e assistere, impotente, ai preparativi delle nozze. Evitava di uscire per mare con il giovane, del quale era geloso, ma la notte della tragedia, sfortunatamente, si trovavano a bordo dello stesso peschereccio. Dopo aver perso l’equilibrio a causa della manovra di Erwan, lui stesso aveva rischiato di finire in acqua. Aggrappato a una cima, aveva visto Yvon cadere. Nelle ore successive, nonostante la tempesta, erano rimasti sul posto a navigare in tondo, scrutando invano l’oscutià, pronti a lanciare i salvagenti, urlando fino allo sfinimento il nome di Yvon, mentre venivano sballottati da onde enormi. Si erano rassegnati solo quando avevano rischiato di scuffiare. Jean-Marie non avrebbe mai dimenticato, per il resto della sua vita, l’appello via radio inviato da Erwan con voce tremante. Per la prima volta si era sentito male, vomitando bile che i marosi cancellavano all’istante. Si sen-


tiva in colpa per essere stato geloso di Yvon e disperato per non essere stato in grado di salvarlo. Mentre rientravano in porto, non avevano fatto altro che pensare a Yvon. Poi Erwan aveva iniziato a ripetere, con la stessa voce rotta: «Mio Dio, mia figlia!», mentre Jean-Marie e l’altro marinaio restavano in silenzio, distrutti. Schiacciò il mozzicone, e fece qualche passo. Il clima era ancora estivo, ma a inizio ottobre non c’era più molta gente ed Erquy era tornato a essere un semplice porto di pescatori. Jean-Marie si fermò, voltandosi per osservare il Jabadao da lontano. Quando Mahé glielo aveva affidato, aveva provato una gratitudine immensa. A bordo di quel peschereccio oceanico poteva pescare la spigola o il pollack a cinquanta metri di profondità. Chiedeva sempre di portare con sé il giovane Christophe, un ragazzo abile nell’individuare il pesce e già un buon marinaio per i suoi vent’anni. Anche lui amava quella barca e se ne prendeva cura, dedicandosi a ridipingerla quando rimanevano attraccati per un po’. Gli capitava persino di gesticolare sul ponte, cantando a squarciagola per dimostrare che sapeva ballare il jabadao, una sorta di giga bretone. La voglia di un caffè spinse Jean-Marie verso i bistrot. Incrociò due ragazze che camminavano sottobraccio, con indosso dei pantaloncini che mettevano in evidenza le gambe abbronzate. Sicuramente turiste dell’ultima ora, che gli sorrisero al passaggio. Sapeva di piacere alle donne, con le sue spalle atletiche, i lineamenti marcati e gli occhi scuri, ma ne approfittava poco. Nel suo cuore c’era posto solo per Mahé. Dopo l’annegamento di Yvon, aveva aspettato a lungo che il dolore si alleviasse. Un anno era trascorso, poi un altro ancora, durante i quali aveva superato gli esami per ottenere il brevetto di capitano di peschereccio. Chiedeva spesso notizie della figlia a Erwan, che lo guardava con un’espressione feroce e non faceva niente per


incoraggiarlo. Ogni primo giorno del mese, Jean-Marie prendeva la decisione d’invitare finalmente Mahé a uscire con lui a bere qualcosa o a cena, ma la fine del mese arrivava senza che avesse trovato il coraggio di farlo. Non voleva passare per quello che intendeva rimorchiare la figlia del capo e, in ogni caso, non appena si trovava da solo con lei restava paralizzato dalla timidezza. Le stagioni di pesca si erano susseguite, poi Mahé era diventata la proprietaria dell’attività, cosa che non aveva cambiato niente. Tanto più che lei lo apprezzava, lo trattava come un amico, gli dava volentieri delle responsabilità. La conosceva ormai da dieci anni e non aveva fatto un passo avanti. Si diceva che altri avrebbero avuto meno scrupoli, che un giorno lei si sarebbe innamorata di un uomo più intraprendente, ma non c’era niente da fare. Finché Mahé non gli avesse dato un segno, lui non si sarebbe fatto avanti. Si sedette a un tavolino esterno, ordinò un caffè e si accese un’altra sigaretta. In quel periodo usciva con una ragazza meravigliosa a cui non aveva promesso niente, niente più di quello che aveva promesso alle donne che l’avevano preceduta. Poteva continuare così? Aveva voglia di farsi una famiglia, doveva dimenticare Mahé. Oppure decidersi a parlarle, ma sapeva di essere intrappolato in una strada senza uscita, di avere a che fare con un fantasma. I gabbiani stridevano come loro abitudine sopra le acque del porto. Jean-Marie seguì le loro evoluzioni con uno sguardo distratto. Uscire in mare restava il rimedio migliore: al timone del Jabadao pensava solo a pescare. Adorava il suo lavoro e non lo avrebbe cambiato per niente al mondo. «L’otturazione di un molare è come inserire un cuneo in un ceppo. Più lei mastica, più il cuneo sprofonda fino ad aprire il dente.»


Affascinata, Mahé osservava lo schermo con l’immagine della sua mascella. «Una capsula mi sembra la soluzione più adatta», concluse il dottor Alan Kerguélen. «E la più costosa, vero?» Con un sorriso indulgente, il dentista si voltò verso di lei. «Alla sua età, signorina Landrieux, ne vale la pena. Non ha altri problemi, i suoi denti sono perfetti. E se si fosse fatta curare questa carie per tempo…» «Avevo una fifa matta.» «Di cosa? Non siamo più nel Medioevo, non lavoro con le tenaglie!» Spostò il vassoio degli strumenti perché la donna potesse alzarsi. «Quante sedute ci vorranno per questa capsula?» «Qualcuna.» Lo seguì alla scrivania, dalla parte opposta dello studio, e prese posto davanti a lui. «Pensavo che la volta scorsa fosse l’ultima», sospirò Mahé. «Ci siamo limitati a trapanare il dente, devitalizzarlo e fare una medicazione. Adesso il dente è morto e non può rigenerarsi da solo. Ora ha bisogno di un… coperchio.» Il medico tamburellava sulla scrivania con la punta delle dita, impaziente che la donna prendesse una decisione. Rassegnata, Mahé tirò fuori l’agenda dalla borsa. «D’accordo, fissiamo un appuntamento. Però devo avvisarla che sono molto impegnata!» «Anch’io», ribatté lui con palese irritazione. «Giovedì pomeriggio alle tre?» Mahé si limitò ad annuire, prendendo nota. Lui le propose altre due date, a qualche giorno di distanza, poi si alzò per accompagnarla. Trovandolo meno simpatico della prima volta, Mahé si sentiva a disagio. Dovette sembrargli


un po’ scossa perché, aprendole la porta, il medico le chiese: «Vuole che le faccia un preventivo? Così, se preferisce, potrà rateizzare i pagamenti». «Grazie, ma non sarà necessario. Mi dica grosso modo una cifra.» «Grosso modo?» ripeté lui, incredulo. Scoppiò a ridere, scuotendo la testa. «Per giovedì le preparerò un preventivo dettagliato.» La seguì con lo sguardo mentre Mahé si allontanava sotto una pioggerellina sottile che faceva luccicare i marciapiedi. Richiudendo la porta, abbozzò un sorriso stanco. Cinque anni prima, quando si era stabilito a Lamballe, aveva immaginato di ripartire completamente da zero e di condurre un’esistenza tranquilla, invece la clientela cominciava a sommergerlo. I vuoi vecchi pazienti di SaintBrieuc erano stati felici di ritornare da lui nonostante la sua lunga assenza, e il passaparola aveva funzionato fin troppo bene. Se non altro, era occupato per tutta la giornata e non pensava quasi mai alla sua vita precedente. Quando la sera rientrava a casa, non potendosi dire felice, si sentiva comunque sollevato. Il rumore degli strumenti sui vassoi metallici gli fece capire che la sua assistente stava riordinando lo studio. La giornata era finita, poteva andarsene. Indossò il giubbotto di pelle e andò a salutare Christine. La trattava sempre con molta cortesia e complicità, contento di averla ritrovata quando si era trasferito a Lamballe. Nubile, aveva beneficiato di alcune piccole eredità che le avrebbero permesso di non lavorare, ma la donna gli si era affezionata nel corso degli anni in cui aveva lavorato per lui a Saint-Brieuc. Dopo aver saputo che avrebbe riaperto uno studio in zona, Christine era andata a trovarlo prima che assumesse qualcun altro. «Buona serata, Christine! Chiuda lei…»


La sua decappottabile era parcheggiata a poca distanza, il contrassegno dell’ordine dei medici ben visibile sul cruscotto. Si lasciò alle spalle Lamballe imboccando le stradine in direzione della foresta di Saint-Aubin. La casa che aveva trovato era già in vendita da parecchio tempo quando si era imbattuto nell’annuncio. La sua struttura architettonica la faceva assomigliare a una malouinière*. Era stata sicuramente costruita nel Diciottesimo secolo da un ricco armatore che amava villeggiare in campagna. Il tetto spiovente erano punteggiato di abbaini e alti comignoli, mentre sulla facciata bianca risaltavano delle strisce in granito. Austera eppure maestosa, le sue finestre strette si affacciavano da un lato su un giardino trascurato, dall’altro su un bosco. Alan se n’era innamorato nel momento in cui l’aveva vista, non esitando a investirci tutto il denaro che gli restava dal suo disastroso divorzio. Aveva dovuto indebitarsi per aprire lo studio, ma non gli importava, voleva ripartire con il piede giusto. Arrivando si rese conto che le giornate si stavano accorciando e che ben presto, rientrando a casa, sarebbe stato buio. Il suo primo pensiero, come ogni sera, fu quello di andare a controllare Patouresse, la sua cavalla saura. Il nome bretone poteva essere tradotto come «pastorella», ma dopo aver scoperto che la puledra aveva paura delle pecore, si era accontentato di chiamarla Pat. Per la prima volta in vita sua poteva tenere un cavallo vicino a casa e ne approfittava per regalarsi meravigliose passeggiate nel bosco lì attorno. Scendeva con Pat verso Saint-Esprit-desBois oppure s’inoltrava nella foresta de la Hunaudaye di cui stava esplorando tutti i sentieri. L’equitazione era stato

* Edifici tipici della zona di Saint-Malo, costruiti fra il XVII e il XVIII secolo come seconda abitazione per facoltosi armatori. [N.d.T.]


il suo sport preferito per molti anni, ma si era stufato dei circoli privati e la sua unica aspirazione era andare a cavallo per conto suo. Quella solitudine era stata una scelta deliberata, dopo molte delusioni. Aveva appena compiuto quarant’anni e non voleva più permettere a nessuno di mettergli una catena ai piedi. «Allora, bella mia?» Appoggiato allo sportello del box, osservò compiaciuto la cavalla. Elegante con le sue tre balzane bianche e il mantello dorato, aveva l’intelligenza dei purosangue. Di temperamento nervoso, nel corso dei mesi aveva imparato a fidarsi di lui, e gli si avvicinò per farsi accarezzare il muso. Frugando nella tasca dei jeans, Alan scovò uno zuccherino e glielo diede. «Stasera è troppo tardi, ma domani andiamo a fare un giro, promesso!» Si era messo d’accordo con un contadino dei dintorni, che veniva a darle da mangiare e a farla uscire nel recinto quando il tempo lo permetteva. Per farle compagnia, Alan aveva comprato una capra, che seguiva Pat come se fosse la sua ombra. «Buonanotte, ragazze!» le salutò, chiudendo la parte alta del box per la notte. Già prima che lui acquistasse la casa, un edificio annesso ospitava due box e una piccola selleria, e quelle strutture lo avevano fatto decidere. L’agente immobiliare gli aveva onestamente fatto notare che la proprietà era parecchio isolata, ma era ciò che Alan desiderava e l’affare era stato concluso. Nell’ingresso sentì l’odore di cera che tradiva il passaggio della domestica. Alan sospettava che utilizzasse più prodotti del necessario per lasciare traccia del suo lavoro, ma la cosa aveva poca importanza, era felice di trovare la


casa pulita. Si diresse in cucina, una stanza immensa dove trascorreva la maggior parte del tempo. In passato, uno dei proprietari doveva aver abbattuto dei muri per avere a disposizione quell’enorme spazio conviviale di cui Alan approfittava a piene mani. Sulla parete in fondo erano in bella mostra gli indispensabili elettrodomestici con, al centro, un’imponente stufa a sei fuochi. Dalla parte opposta trionfava un camino in pietra ai cui lati erano state sistemate due comode poltrone di pelle. Al centro, un fratino acquistato a un’asta con delle sedie in stile bretone dagli schienali intagliati. Nelle pareti più lunghe si aprivano le finestre, mentre sulle mensole erano disposti piatti, libri e cd. L’insieme era insolito, ma l’atmosfera era accogliente. Alan accendeva il fuoco, leggeva, ascoltava l’opera, si scaldava i piatti preparati dalla domestica e assaporava vini millesimati. Non disponeva più delle risorse per avere una cantina e ormai beveva ciò che comprava. Dopo essersi versato un bicchiere, lanciò un’occhiata alla posta lasciata sul tavolo. Qualche pubblicità, la bolletta dell’elettricità e un estratto conto bancario lo disinteressarono presto. Tutto ciò che riguardava la sua attività professionale arrivava allo studio, a Lamballe, lì non riceveva quasi nulla. Accese subito il fuoco, mise nel lettore il cd della Tosca, e si sistemò comodamente in poltrona. Assorbito dalle fiamme nel camino e dalla musica, lasciò vagare la mente. Non pensava quasi mai a Louise, la sua prima moglie, perché il dolore per superare la sua perdita era stato terribile: si guardava bene dal riaprire la ferita. Investita sul marciapiede da un pirata della strada che non era mai stato individuato, era morta sul colpo. Al momento dell’incidente, Alan non era molto distante da lei, stava uscendo da un negozio, ma non aveva potuto fare niente. L’orrore si era accompagnato a un insopportabile desiderio di vendetta.


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