Questi tempi fuori dal tempo

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Veronica Capitelli cammina per via Cicerone. È il sei febbraio, sono le dieci passate di sera. Giubbotto di pelle nera, gonna di lana gessata grigio chiaro, camicetta avana, collant velato, scarpe di capretto, si dirige con passo deciso verso piazza Cavour, da dove un autobus la condurrà a casa. Ha cenato dalla sua amica Barbara, dopo un pomeriggio per le vie di Prati a fare shopping. I tacchi battono l’asfalto, le auto passano rade. Ma, alle sue spalle, un rumore improvviso: una Fiat Punto la sorpassa, piega a sinistra e inchioda salendo con due ruote sul marciapiede; ne balza fuori un energumeno che le si avventa contro e la colpisce alla testa con una sbarra di plastica. Lei si accascia, il bruto la solleva da sotto le ascelle, la trascina dentro la macchina, rimette in moto e schizza via. Riprendendo conoscenza, Veronica si ritrova sopra un materasso sbattuto sul pavimento di una stanza spoglia; è legata mani e piedi. Un grosso pezzo di nastro adesivo le serra le labbra. È terrorizzata e colma di rabbia per la sua impotenza. Vede pareti color crema tinte di fresco, una lampadina accesa che pende dal soffitto, una porta chiusa, una finestra altrettanto chiusa sulla serranda abbassata. Trema di freddo, nonostante una piccola stufa a breve distanza dal materasso. Trascorre un tempo interminabile in cui la poverina tenta di liberarsi dai fili elettrici che le stringono i 9


polsi e le caviglie, ma i nodi non cedono. Scalcia a gambe unite, le braccia dietro la schiena; ha l’impulso di buttarsi sul pavimento per trascinarsi fino alla porta e battervi con le scarpe: se ne trattiene paventando, dietro quella porta, la rivelazione d’un pericolo immediato; il capo le duole per la randellata, dopo la quale ogni ricordo si ottenebra. Rigirandosi sul giaciglio avverte la presenza del cellulare nel giubbotto: tenta di farlo scivolare fuori, ma le viene in mente che la tasca interna è chiusa colla lampo. Ragazza concreta e intelligente, Veronica stenta a credere che la condizione in cui versa sia reale: i contorni di essa si ottundono, prendono l’ingovernabile consistenza di un sogno. Uno di quei sogni terebranti e ovattati in cui può capitare di tutto, tranne che di uscirne.

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Cena fra amici. Lei è Barbara. Ventisette anni. Bruna, capelli lisci a caschetto. Mal di testa da impazzire. Uno degli invitati, Manlio, gira sempre con una borsa zeppa di medicinali omeopatici. Le offre certi granuli rosso scuri da mettere sotto la lingua. Ma a Barbara la testa sta per scoppiare. Alfred, amico inglese che l’accompagna, le sta addosso con apprensione. Si prende posto a tavola, Marco si rincresce che Tiziano, il padrone di casa, abbia distribuito gli ospiti in modo che lui e quella ragazza coi capelli a caschetto si trovino distanti. Fra di loro seggono infatti Gabriele, Liù e Alfred; il cerchio si chiude con Tiziano, sua moglie Silvia e Manlio, l’omeopata dilettante. Barbara si sente sempre peggio. Silvia le consiglia di sdraiarsi sul letto, al buio, lei accetta, si alza e va nell’altra stanza scortata da Alfred. Per il tutto il resto della serata non riappare. Si conversa senza alzare la voce per non disturbare la ragazza che forse si è assopita, riferisce Alfred che ogni tanto va a controllare. Verso l’una gli ospiti si congedano; Barbara sta meglio, le è venuta fame. Silvia le prepara un piatto con gli avanzi della cena. Marco saluta, e quando è solo nella vecchia Panda celestina comincia a tremare di freddo e di nervosismo. Quella Barbara chi è, perché Tiziano non glien’ha mai parlato, anche Gabriele e Liù non la conoscevano, e poi quell’altro, l’inglese, così appiccicoso, sarà il fidanzato. Merda, si fidanzano tutte. 11


L’indomani Marco alza il telefono, e Tiziano gli dice che quell’Alfred, è solo un amico, forse innamorato, ma con poche speranze, parrebbe. Una settimana dopo, le stesse persone a casa di Manlio, ma senza l’inglese. Manlio è un single obeso che lavora per una società di assicurazioni, oltre che maniaco dell’omeopatia e abile cuoco. Stavolta Marco ha modo di chiacchierare con Barbara, vispa, coi suoi occhi neri un po’ infantili. È piena di buonumore, racconta le disavventure coi ragazzini autisti che segue come insegnante di sostegno. Gabriele e Liù come al solito danno spettacolo, rendendo pubblici i loro fatterelli coniugali; gli altri ridono e commentano. Marco non partecipa al chiacchiericcio e neppure fa molto caso alle prelibatezze preparate da Manlio. Potrebbe persino prendere congedo seduta stante dall’allegra brigata, dacché ha ottenuto ciò che soltanto gli premeva: il numero di cellulare di Barbara. Bisogna che passi qualche giorno adesso. Bisogna che passi il tempo, accidenti, che non passa mai. A casa di Manlio Marco ha avuto la netta sensazione di aver fatto colpo su Barbara. Crede proprio di non sbagliarsi: a trentacinque anni ha capito come funzionano queste cose. Lavora presso una casa editrice dalle parti dell’università; è uno coi piedi per terra, non avaro ma attento al denaro, con una casa di proprietà sulla Salita del Grillo e uno spiccato senso del decoro nel vestire. Sposato, separato da quasi due anni, senza figli. Dopo sua moglie non ha avuto relazioni impegnative, ma è tranquillo, ben sapendo che l’amore arriva sempre inaspettato. Deride bonariamente l’amico Manlio che da mesi si arrabatta con internet cercando, in uno di quei siti di incontri, così à la page, l’anima gemella. Adesso 12


però lascia gli indugi e fa quel numero di cellulare; è un pomeriggio buio di febbraio; la conversazione dura poco; lui usa un tono di voce saldo, di petto, istintivamente virile; lei è spigliata, spiritosa e sbrigativa: dice che le farebbe piacere rivedersi e magari andare a un cinema; tutto resta nel vago, in un misto di eccitazione e incuranza. Chiuso il telefono c’è bisogno d’aria. Quest’inizio di febbraio 2005 a Roma è piuttosto mite. A Marco piace passeggiare o, forse di più, girare in macchina. Gli càpita di muoversi nelle ore di punta, ma il traffico intenso, gli incolonnamenti non lo disturbano, anzi hanno perlopiù l’effetto di rilassarlo. Niente di meglio che ascoltare le partite per violino solo di Bach in un fiume cristallizzato di macchine, quand’è già buio, con la luce dei fari, l’intermittenza rossa degli stop, l’inflessibile liturgia dei semafori, dove tutto è immobile ma vivo, come un immenso meccanismo metallico che vibra, come il corpo enorme e ignoto d’una creatura preistorica che da sempre dimora sul fondo tetro e pesantissimo dell’oceano. «Che fretta avranno», si chiede Marco, arenato con centinaia di altre vetture in un ingorgo tra viale di Castro Pretorio e la stazione Termini.

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Oscar Mai e Isa Boccafosca. Di quest’ultima molti lettori avranno già cognizione, trattandosi d’una scrittrice di chiara fama. Quanto a Oscar Mai, benché venga non di rado citato nei rotocalchi scandalistici, se ne sa molto poco, assai meno comunque di quanto, senza merito alcuno, sappia chi qui ne riferisce. L’aspetto fisico di Isa Boccafosca – alta, piuttosto magra, capelli cortissimi d’un bel ramato brillante, seno ragguardevole, tratti decisi ma non privi di grazia, portamento distinto in abiti di gusto classico e dalle tonalità molto scure, mai orecchini o collane, un solo anello d’oro bianco – insieme con la di lei fortuna letteraria presso un ampio pubblico (unitamente al plauso di buona parte della critica), ne fanno un bersaglio del gossip: cosa di cui la scrittrice né si rammarica né si compiace, limitandosi perlopiù a ignorarla, contuttoché il suo editore ne valuti le positive ripercussioni sulle vendite. Ma i libri di Isa Boccafosca non hanno bisogno di alcun rumore mondano a rimpolpare il numero dei loro ammiratori. Mistero delle voghe letterarie, eventi che si costruiscono da soli, imprevedibilmente: dopo gli esordî contrastati e non troppo promettenti, adesso ciascun nuovo lavoro della Boccafosca ha un rapido e gratificante riscontro. Dell’ultimo, ad esempio, si è parlato in varie trasmissioni televisive, ma ha anche avuto l’onore di recensioni illustri 14


che lo hanno in diversa misura lodato: il primo romanzo di fantascienza «femminile» – si sottolinea – nel quale il genere viene insieme celebrato e parodiato, come già forse si potrebbe arguire dal titolo: Cento milioni di astronavi – storia fantascientifica realmente accaduta. Qualcuno paragona la Boccafosca, che pure si cimenta per la prima volta con questo tipo di narrazione, a Philip Dick, e suggerisce oblique ascendenze da Lovecraft, dal che l’autrice si schermisce, sentendosi più legata alla tradizione italiana, alle bizzarrie di un Landolfi o di un Buzzati. Come che sia, Cento milioni di astronavi ha secondo noi poco che fare sia con Dick sia con Buzzati, autori che non conobbero in vita (per tacere di Lovecraft), né lontanamente sperarono, il successo di cui gode la Boccafosca. Ciò fa prevedibilmente dubitare i critici più affettati o capziosi del reale valore artistico di costei. In un certo speciale modo, tuttavia, nessuno fra i suoi estimatori può considerarsi più fervido e appassionato di Oscar Mai, il quale subisce a sua volta l’ammirazione o l’invidia di molti, più raramente la commiserazione, per essere l’uomo – o il convivente, o il fidanzato o l’amante, a seconda dell’estro definitorio dei giornalisti – della nota scrittrice. I due stanno insieme da quasi un anno, benché negli ultimi tempi siano apparsi alcuni segni di crisi, dando almeno credito alle interpretazioni della stampa «rosa». Uno degli aspetti su cui si accaniscono i detrattori di quest’unione è la profonda, apparentemente incolmabile differenza culturale che sussiste fra la Boccafosca e Oscar Mai. Questi vanta infatti un diploma di tecnico industriale; quarantenne, ha cominciato a leggere grazie all’amore per la scrittrice, sebbene prenda in considerazione unicamente i libri di lei, che divora con avidità. Ben piantato, di statura inferiore alla Boccafosca, capelli 15


ricci e neri, occhi anche neri, carnagione olivastra, gambe un poco tozze e muscolose, addome lievemente pronunciato, Oscar Mai si veste in modo sportivo e spesso trascurato, sicché vedendolo insieme alla ricercata Boccafosca si stenta a credere che fra di loro sussista una relazione seria. Ma è piuttosto il mestiere di costui che suggerisce un’irreparabile incompatibilità tra i due. Da più di vent’anni il Mai si occupa di ogni genere di trasporto. Percorre la città a bordo di un furgone bianco ritirando e consegnando merci. Lavora in proprio; i suoi introiti sono incostanti e minacciati da un’agguerrita e non sempre corretta concorrenza, e d’altra parte egli non si mostra particolarmente oculato nell’amministrarli. A ogni modo, i guadagni del Mai sono irrisorî a petto delle risorse finanziarie della Boccafosca, già benestante di famiglia e arricchitasi coi proventi della professione, nonché proprietaria di un appartamento al terzo piano di un palazzetto di via Giulia, che divide con il trasportatore. Le spese di ménage sarebbero equamente distribuite se si trascurino cospicue eccezioni: ristoranti di lusso, svaghi, acquisti straordinarî. Su ciò puntano coloro che presagiscono l’inevitabile esaurimento di questo rapporto: un uomo, pur in una società radicalmente trasformata rispetto al passato, si sente investito del suo ruolo, il quale gli impedirebbe di dipendere dalla donna con cui vive e semmai anzi dovrebbe prendersi carico egli stesso del sostentamento di entrambi. In verità queste riflessioni sono assai poco presenti nei pensieri di Oscar Mai. La mente di un trasportatore tendiamo a figurarcela abbastanza semplice e tesa al concreto; può darsi che nella maggior parte dei casi il pregiudizio non si scosti dal vero, ma in quello del Mai la questione è diversa. Egli ha un animo sensibile e indifeso, sotto la scorza un po’ rude del carattere, che sovente lo spinge in situazioni ingar16


bugliate, soprattutto in àmbito sentimentale. Fin da molto giovane si impelagava in relazioni tormentose o senza sbocco, talché i suoi amici lo celiavano: «Oscar Mai, di nome e di fatto». Bisogna dire che lui s’adoprava con scrupolo per non smentire la nomea. Qualora una donna minacciasse di interessarsi a lui o di gradire le sue attenzioni, il Mai fuggiva o si disamorava di schianto, non senza duramente patirne. Quanto più invece coloro che egli inseguiva si mostravano indifferenti, tanto più il suo trasporto cresceva, acquisendo non di rado l’intensità di un’ossessione. Questo non significa che il nostro sia arrivato all’età di quarant’anni del tutto privo di esperienze amorose. Prima dell’attuale convivenza con la Boccafosca, ebbe almeno un paio di storie importanti, benché non durature. Poco più di tre anni fa conobbe una trentenne di singolare bellezza, bruna, dallo sguardo dolce e i modi della spietata maliarda. Catturò Oscar Mai nella sua rete e fu aggressivamente esplicita, dacché lui era catafratto contro ogni seduzione, ma in quella contingenza, pure con discreta rapidità, soccombette. La bruna fatale lo ammaliò e poi lo avvelenò con le sue arti erotiche: il Mai non scivolò in un trabocchetto ma in un abisso; i sensi a lungo sopiti esplosero e il piacere lo consumava mentre la vamp gongolava per l’insaziabilità del suo drudo. Ma il drudo, ecco il punto, non si capacitava d’essere tale, ossia uno dei tanti, e che il suo tempo sarebbe dovuto presto o tardi scadere: egli si innamorò dell’incandescente dispensatrice di sesso come se si trovasse alle prese con un cuore sincero e cedevole al sentimento; alimentò un’illusione tanto arbitraria quanto sconfinata, fece progetti dentro di sé, accarezzò l’idea di costruire con quella donna sans merci un futuro intimo e piccolo borghese. Non gli valsero le sue pur annebbiate facoltà razionali, non gli valsero soprattutto gli ammonimenti di 17


Nerazio Capitanò, il suo amico più stretto, il quale tentava di dissuadere Oscar dall’investire più del necessario in quella donna, dove il necessario equivaleva a zero. Nulla quegli poteva contro l’ostinazione, che è la seconda pelle di Oscar Mai, professionista dell’amore impossibile. Colla sua testa ricciuta e i suoi occhi neri, procedeva come un ariete, anzi correva – come certe volte alla guida del suo furgone – verso la rovina. Trattava sempre più la maliarda come una tenera fidanzata nel cui grembo deporre ciecamente la propria vita. I fatti dal canto loro si rivelarono ben più caparbî del Mai: la femme fatale gli si sottrasse da un giorno all’altro, onde applicarsi alla fascinazione di qualcun altro; l’innamorato che non si rassegnava seguitò a non rassegnarsi, ma senza più nulla fra le mani, eccetto lo smacco cocente. Qualche tempo dopo gli si offrì un’occasione di riscatto: la commessa di una camiceria, equilibrata, positiva, biondissima, dal sorriso sincero e docile s’invaghì di lui e lui, ancora avvilito per l’abbandono della fatalona, cedette ai suoi abbracci. Era per nascere finalmente un amore plausibile cui lasciarsi andare con pacato, fidente entusiasmo, ma quasi subito proruppe l’irriducibile spirito del Mai, il quale fece sì che il trasportatore si disponesse nei confronti della ragazza limpida e devota esattamente nel modo che sarebbe stato opportuno adottare affidandosi agli artigli della strega bruna: la trattava con durezza, insieme assurdamente cercando in lei uno spunto corrotto o perverso che potesse giustificare lo svolgersi di una passione maledetta e votata a una torturante dissoluzione. Anche in questo caso, nonostante le rampogne dell’amico Nerazio, Oscar non si rassegnò e corse verso la solita penosa deriva. Quella con Isa Boccafosca appare perciò la prima relazione durevole della sua vita. Ma seppure con significativo 18


ritardo già affiora quel non darsi pace o quel fiuto speciale che il Mai possiede per scovare la crepa in cui incunearsi e propiziare lo sfacelo. Adesso però ancora li vediamo, Oscar Mai e Isa Boccafosca, in una notte qualsiasi di febbraio, nudi e abbracciati sotto il piumino nella quiete della casa di via Giulia. Hanno fatto l’amore dopo aver assaporato a lume di candela linguine in salsa di noci, fagioli cannellini con la salvia e biscotti tuffati nel Porto. Prima di spogliarsi e cedere ai sensi avevano sostato sul divano; il computer sulle ginocchia, la Boccafosca vi faceva luccicare le unghie smaltate come dorsi di cetonie e illustrava al trasportatore i segreti della sua scrittura, quelli che «nessun intervistatore mi tirerebbe fuori».

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A dodici giorni dalla sua scomparsa, i genitori sono consumati dall’angoscia. La polizia indaga, ha interrogato amici e conoscenti della ragazza, ma nessun indizio, nessun appiglio emerge. La notizia rimbalza sui giornali, in televisione vengono diramati appelli. Si tende a escludere il rapimento a scopo di estorsione, sia perché la famiglia non è facoltosa, sia perché tuttora non pervengono richieste di riscatto. Tutto il resto passa in secondo piano, anzi svanisce in una pesante nebbia: gli stessi mezzi di informazione che si occupano del penoso fatto di cronaca affogano nei continui aggiornamenti su un nuovo fatto, che sembra aver cancellato ogni altro accadimento. Quante ragazze giovani come Veronica saranno perite nel crollo delle Torri? Quante atroci perdite torturano migliaia di americani? Corpi che piombano nel vuoto, colonne di fumo, facce nere di fuliggine e impazzite di terrore. Aeroplani conficcati nei grattacieli, prove generali di apocalisse; la storia del mondo occidentale muta direzione come in un testa-coda planetario, tale da annientare tutto il resto. È precisamente ciò che accade nel microcosmo di casa Capitelli, dove un televisore sempre acceso blatera i suoi implacabili ragguagli sullo sbriciolamento del World Trade Center. Chi li osservasse, gli occupanti di quella casa, non li distinguerebbe dai milioni e milioni di loro simili attaccati tutto il giorno alla tv. Quegli 20


animi angustiati per la sparizione di una fanciulla ignota alle folle oceaniche e sgomente non sarebbero più sconvolti dal bombardamento di notizie sulla catastrofe di New York che da un documentario sulle abitudini della iena ridens o del colore ferocemente azzurro del cielo in questo febbraio romano. Figlia di un dentista e di una funzionaria del Ministero del Tesoro, la fanciulla, ignota alle folle, ha un fratello più grande che studia con buon profitto all’università. Anche lei è iscritta all’università: primo anno di scienze politiche. La famiglia di Veronica è quella che si chiamerebbe una famiglia modello: per l’armonia che la governa, per l’affetto sincero che ne lega i componenti, per il rispetto spontaneo dei figli verso i genitori. Sia Veronica che suo fratello non hanno grilli per la testa e frequentano sane compagnie, perché così si sentono di fare. Avviene loro di svagarsi, di andare in discoteca, ma rifiutano per naturale inclinazione di condividere certe abitudini dei loro coetanei e su tutte l’uso di droghe. I loro genitori ne vanno fieri, senza per altro mostrarne vanto e comunque essendo immuni da quegli intrichi di ansia, apprensione, possessività, esercizio del ricatto morale che allignano in molte famiglie apparentemente tranquille ed equilibrate.

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