PROLOGO
2010, venerdì santo.
Il mastino uscì da dietro la siepe e avanzò cauto verso il fiume. I rumori e le grida che lo avevano spaventato erano cessati ormai da un’ora, ma lui aveva aspettato. Era giovane, ma sapeva già tutto quello che c’era da sapere del suo mondo. L’acqua scorreva con un fruscio irregolare e la corrente formava gorghi e mulinelli, una superficie nera, lucente, mobile, che rifletteva la luna. Il fiume, laggiù, era largo, la riva ondulata e franosa. Il mastino alzò il muso e fiutò un odore che conosceva bene. Si fermò, scrutando nel buio. Tutt’intorno risuonava il concerto familiare degli insetti, e strida di uccelli invisibili contro il cielo nero. Lui mosse le orecchie, a cogliere suoni appena avvertibili. Poi, come se qualcosa l’avesse rassicurato, trotterellò avanti. Quando giunse alla spiaggia si arrestò di colpo. Si guardò intorno, di nuovo impaurito, i sensi tesi allo spasimo. Dalla gola gli uscì un uggiolio sommesso e il suo respiro non era più quello di prima. Rimase così per qualche minuto. Alla fine, come rassegnato, riprese ad avanzare e arrivò davanti al corpo dell’uomo. Era riverso a terra, immobile. Il mastino sapeva che non stava dormendo. Gli annusò le scarpe, poi gli girò intorno con passi lenti. Gli abiti dell’uomo avevano un odore forte, acuto, ma l’odore del sangue che l’animale aveva fiutato veniva dalla testa. Abbassò il muso sulla
piccola pozza già quasi secca, accanto al capo dell’uomo, e leccò. Per un attimo quel sapore lo rese furioso e il mastino guardò avido il corpo inerte, la carne indifesa e ancora tiepida, ma si calmò subito. Ricordi del padrone che lo aveva abbandonato lì un mese prima risalirono la sua memoria e gli rammentarono la legge: l’uomo è intoccabile. Fin da cucciolo, ogni morso di rabbia o terrore che aveva osato era stato punito con ferocia, e infine tutto era culminato in quell’ultima corsa in auto – il padrone che lo faceva scendere e ripartiva, l’odore della gomma che slittava sull’asfalto. E poi più niente. Buio e solitudine, come stanotte. Si accovacciò vicino al corpo, come per fargli la guardia. Ora la sagoma del cane e quella dell’uomo erano una sola ombra sullo sfondo dell’acqua che luccicava, indifferente, e correva via come se avesse un compito da svolgere e niente potesse impedirglielo. Poi il mastino rovesciò la testa, fissando la luna gelida e piena, e cominciò a cantare un canto antico, tramandato per vie misteriose dalla sua razza, annunciando al mondo la morte dell’uomo.
CAPITOLO DUE
La mansarda.
Settanta euro al giorno. Il satanico zio Willy. Epifanie femminili. Minhoi. Era felice! Lavori indecenti. Il vizio. La divina Avgustina. Il rasoio. Uomini e donne. La mansarda di Simon. Rol. Qualcosa di sexy.
Si ritrovò sul marciapiede sotto una pioggia implacabile, perché la fretta di allontanarsi dalla marmotta era tale che non aveva nemmeno pensato di prendere la moto. Si avviò a piedi verso la mansarda di Simon, l’ex compagno di liceo che lo ospitava quando aveva gente in casa. Era a dieci minuti da lì, appena al di là di corso Buenos Aires. Aveva scoperto due anni prima questo sito Internet che ti permetteva di affittare il tuo appartamento per periodi brevi (da un giorno a una settimana, in media). Per il suo monolocale prendeva settanta euro al giorno. Se l’avesse affittato tutto l’anno sarebbero stati venticinquemila euro puliti, ma lui a casa sua ci voleva anche stare. La gente che veniva era la più varia. Molti erano stranieri di passaggio a Milano per fiere, mostre, eventi, o solo per fare un giro in città e arrivare rapidamente alla conclusione che sarebbe stato meglio andare a Roma o a Venezia. Fino al 2010 in quella che oggi era la sua tana abitava lo zio Willy, il misterioso fratello di suo padre. All’epoca Valerio stava ancora col genitore in un grande appartamento nel quartiere di
Città Studi, seconda e definitiva dimora del vecchio da quando era salito a Milano dall’Abruzzo. Vivevano soli, perché sua madre se n’era andata con un altro uomo tanti anni prima. Fra loro andava tutto moderatamente bene, considerando il carattere spaventoso del capofamiglia che si poteva sintetizzare nel modo più semplice: prima vengo io e gli altri crepino. Poi, nel settembre del 2009, era successo qualcosa che Valerio si aspettava da tempo. Suo padre non era fresco come un fiore di campo, essendo ormai più vicino ai settanta che ai sessanta, ma le avventure non se le era mai fatte mancare. In casa ogni tanto si accendevano epifanie femminili stupefacenti: baldraccone palestrate e milanesissime, inseguite da scie di profumo che dovevano aver comprato tutte nello stesso negozio; ragazze dall’aria smarrita che cercavano di fare amicizia con lui, come quando si allunga un biscotto al cane dei vicini di tavolo, con la mano ritraibile per paura che morda; signore attempate che gli rivolgevano sguardi materni a cui lui rispondeva uscendo dalla stanza, e altre ancora. Ma sapeva che prima o poi una avrebbe piazzato la stoccata letale, e così era stato. La prescelta era una bellezza franco-vietnamita di nome Minhoi, incontrata in un bar. Minhoi aveva l’età precisa di Valerio, perché era nata nell’87 come lui: all’epoca, ventidue anni. Quarantadue meno del babbione! Insomma, a settembre Minhoi aveva messo per la prima volta il piedino in casa, e nemmeno Valerio poteva negare che fosse una ragazza attraente, anche se non gli pareva che questo giustificasse gli sdilinquimenti del vecchio, abominevoli a vedersi. A Natale la new entry era già incinta e si installava nel suo regno. Il padre sprizzava orgoglio per la virile impresa, anche se una sera, in un momento di confidenza alcolica, gli aveva confessato di avere qualche dubbio sulla paternità del nascituro e di aver preferito non indagare. Lui venne confi-
nato nella sua stanzetta, cosa che in realtà non gli dispiaceva. Ma era solo l’inizio: a mano a mano che la pancia si gonfiava, Minhoi cominciò a tessere una trama sottile di malizie orientali, piccoli sgarbi, capricci, lagnanze, richieste, insomma gli inflisse una specie di mobbing vietnamita, e l’atmosfera si fece opprimente. Così, quando a Pasqua del 2010 lo zio Willy morì in circostanze tragiche e il monolocale di via Castaldi si liberò, Valerio venne cacciato via dall’ammiraglia paterna e sbarcato lì. Era felice! Una casa tutta sua, anche se il padre si era ben guardato dall’intestargliela, era qualcosa che pochi suoi coetanei potevano vantare. Solitudine, libertà, nuovi orizzonti… Peccato che il vecchio avesse chiuso i cordoni della borsa, intento com’era a foraggiare Minhoi e il nuovo figlio a cui era già stato affibbiato il nome del nonno, Giovanni. La sua prima laurea si stava rivelando improduttiva per trovare un lavoro decente, proprio come prevedeva che sarebbe stata la seconda in arrivo adesso, ad aprile. Allora era passato ai lavori indecenti. Si era sorbito tutta la trafila mortificante dei call center. Aveva fatto il cameriere in un bar, ma rovesciava sempre le cose e alla fine l’avevano buttato fuori. Aveva intrecciato fili e perline a una bancarella del mercato che ogni dicembre tengono vicino al Duomo. Era alla fame. Stava considerando seriamente di entrare nello spaccio di stupefacenti o di darsi alle truffe ai danni delle vecchiette, quando aveva scoperto per caso il sito per affittare. Così aveva messo un tappo nella falla delle sue finanze. E più tardi, meno di un anno prima, si era aggiunto un lavoretto in ufficio dal padre, fonte di seccature più che di quattrini. Il vizio di entrare a curiosare fra le cose degli ospiti gli era venuto dopo qualche mese che affittava.
L’appartamento era stato prenotato da una modella, anche lei russa. A Milano le modelle fanno parte del panorama, e solo gli zotici che vengono da fuori riescono ancora a emozionarsi quando vedono passare queste ragazze dalla falcata svelta, con il book sottobraccio, la pianta della città in una mano e la bottiglietta d’acqua nell’altra, pallide, alte e paurosamente ossute, nasini minuscoli e visi perfetti issati in cima a corpi traslucidi, scarnificati e liquefatti in una magrezza spettrale, spesso con le gambe così scheletriche che le giunture delle ginocchia sporgono da far pena. Quella però aveva qualcosa di speciale. Era formosa e non troppo alta; Avgustina, si chiamava, e gli piaceva da morire. Era morbida e cattiva. Provarci? Figuriamoci: l’aveva già inquadrato e liquidato in due secondi, mentre si davano la mano davanti al portone. Così quella sera Valerio aveva aspettato che l’immancabile Suv venisse a prelevarla, bloccando il traffico sotto casa perché via Castaldi è strettissima e provocando un inizio di rissa. Quando la splendida Avgustina era salita a bordo, rinfrancata e rinfrescata, lui a sua volta era salito al terzo piano ed era entrato nell’appartamento. Tutto come oggi: gli odori, i profumi, la gioia nel palmo delle mani quando aveva accarezzato le calze, una maglietta sudata, le mutandine cambiate in fretta e abbandonate in un angolo del bagno. Per non farsi mancare nulla, aveva fatto quella sera ciò che in seguito non aveva più osato ripetere, anche se oggi ci era andato vicino. Si era premuto addosso le mutandine e aveva compiuto atti vergognosi, ripetendo «Avgustina, Avgustina» – dio, quella V al posto della U! Quella vibrazione in gola, quel solletico fra il labbro e i denti! Immaginava di sussurrare il suo nome leccandole le spalle, il collo, le cosce, e intanto aveva snudato l’arma e gliele aveva avvolte intorno, le mutandine. Così,
quando l’opera si era compiuta, si era accorto di averle bagnate. Si può essere più deficienti? aveva pensato, sgomento. Gli era toccato lavarle e asciugarle col phon, terrorizzato all’idea che la proprietaria tornasse prima del tempo. Dopo un’ora era uscito come un ladro dall’appartamento, giurando su tutti i numi dell’Olimpo che mai più avrebbe arrischiato una visita del genere. E invece ci era ricascato subito, già con il primo ospite dopo la divina Avgustina: uno spagnolo. Il fatto che fosse un uomo lo rassicurava, perché almeno non gli sarebbero venute tentazioni con la biancheria intima. Ma era stato così affascinante stringere fra le dita il rasoio che aveva lasciato sul lavabo, una vera lama all’antica come quelle dei film di Dario Argento, pesante e con un serpente inciso sul manico. E poi i sigari, le camicie stile country, la grossa borsa marrone che sembrava reduce da un viaggio in diligenza fra deserti irti di cactus e popolati da crotali e avvoltoi, e tutto quel sentore di maschio, di avventura, maniere ruvide e stretta di mano potente, la pelle cotta dal sole e solcata da rughe profonde come tagli… Così aveva scoperto che insinuarsi per pochi minuti nella vita di un uomo gli dava un brivido diverso ma non meno eccitante di quello che gli potevano regalare calze e reggiseni. Non il desiderio come per le donne, ma la fantasia di essere lui. Vedere il mondo attraverso i suoi occhi, evadere dall’angustia delle tue giornate e nuotare in un oceano sconosciuto. Il vizio era diventato stabile, imparziale e bisessuale. Uomini e donne: lo intrigavano tutti. Era la gioia segreta di entrare come un intruso in casa sua, ospite dei suoi ospiti ignari, e ritrovarla ogni volta diversa, abitata e violata da altre mani, altri corpi, oggetti, odori. Non c’era niente che assomigliasse alla sensazione che provava in quei momenti. All’intimità meticcia di vedere le sue cose mescolate alle
loro eppure ancora distinte, separate, come l’acqua fangosa di un fiume quando entra nel mare. La mansarda di Simon era vuota, avvolta nella solita nube di fumo e arresa a un disordine bestiale, a cui cercavano invano di porre rimedio le sporadiche incursioni di sua madre Mirna e quelle sistematiche di Chandra, la governante tuttofare. Come ogni volta, sembrava che dalla finestra che si apriva sul tetto fosse entrato un ciclone, che aveva risparmiato solo la parete a cui erano accostati il letto di Valerio e il tavolino dove teneva le sue poche cose. Il vetro opponeva alla pioggia un angolo meno sfuggente rispetto alle normali finestre verticali, e le gocce martellavano con entusiasmo. Si sedette sul letto e accese il portatile. Ormai erano le sette ma forse sarebbe riuscito a scrivere una paginetta della tesi. Dall’appartamento principale, un piano sotto, venivano i lamenti di Rol, il cane lupo di Mirna che doveva aveva un’età equivalente a centotrent’anni di un uomo. Prima o poi sarebbe morto, ma intanto serva e padrona lo circondavano di premure. Finito il liceo Valerio avrebbe voluto fare Filosofia, che nella sua immaginazione era una specie di amaca lunga quattro o cinque anni, su cui sdraiarsi a meditare sui grandi mali del mondo in attesa di capire cosa voleva davvero dalla vita. Invece aveva ceduto alle urla del padre e aveva preso una laurea triennale in Lingue, che prometteva uno sbocco professionale più concreto e si era rivelata un disastro. Non contento, adesso stava finendo Mediazione Culturale, altra laurea triennale feconda come il deserto dei Gobi. A Simon era andata appena un po’ meglio: sua madre lo aveva assunto come copywriter nella sua piccola agenzia pubblicitaria, mentre Valerio passava giusto due mezze giornate alla settimana in ufficio col padre, a fare un lavoro che non avrebbe saputo neanche descrivere – for-
se il contabile? In ogni caso qualcosa che non c’entrava niente con i suoi studi. Uno scoppio di ululati lo distrasse. Pareva che Mirna e Chandra stessero applicando qualche trattamento tormentoso al povero Rol, perché l’anziano quadrupede protestava mentre le due donne cercavano di confortarlo. Aprì il sito dove teneva pubblicato l’annuncio per la casa e controllò il calendario. Vediamo. Le due russe se ne vanno domattina, ma già dopodomani sera, lunedì, c’è una nuova ospite per una settimana… eccola qui: Viola Mastrangelo. Bello il nome, il cognome così così. Le chiese conferma dell’ora di arrivo usando la posta del sito e lei rispose subito. «Alle otto, se non è un problema.» Non avrebbe saputo dire perché, ma vide qualcosa di sexy in questa frase innocente. Ormai devo essere impazzito, pensò. Il sito richiedeva di mettere una foto nel proprio profilo, ma quella di Viola era imperscrutabile, il viso girato e in ombra. Non aveva nemmeno specificato l’età, che d’altronde non era un campo obbligatorio; solo la provenienza, Udine. A occhio, poteva avere una quarantina d’anni. «Fino alle tre di notte per me non è mai un problema», rispose, facendo il gradasso. Aspettò che lei rilanciasse, ma non lo fece. Allora, con la riluttanza di un uomo che maneggi un cadavere, fece per riprendere in mano la bibliografia della tesi quando la suoneria dello smartphone venne a salvarlo. Per un attimo sperò che il padre avesse cambiato idea sull’indomani, ma sul display non comparve «STRONZO». Comparve «DEMENTE». Aprì la comunicazione. «Cazzo fai ancora lì?» chiese Simon.