Stronzate che capitano quando non muori giovane

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INTRODUZIONE

Chiudo gli occhi, penso al futuro e vedo mia figlia abbrancare, passo dopo passo, attraverso un panorama devastato; ansimante, disidratata, coperta di piaghe cancerose mentre cerca disperatamente di sopravvivere altri cinque minuti in un mondo spogliato di ogni forma di sostentamento dall’avidità e dall’idiozia della generazione che l’ha stuprato prima che la sua ne avesse la possibilità… Io sono morto da tempo, ma anche dall’oltretomba mi sento in colpa per averla trascinata nell’inferno vivente della distopia post-Monsanto, Boko-Haramizzata, Naomi Kleiniana che sta per arrivare. È questa, al giorno d’oggi, la particolare sensazione che si prova a sfornare una bambina quando non si è più giovani: assieme alla gioia della nostra incipiente mortalità, c’è la festosa consapevolezza che, oltre a noi, anche il pianeta stesso è già al settantacinque per cento morto prima che arrivi il pargolo. Ma forse sono solo ottimista. Non posso parlare per gli altri genitori over-cinquanta ma, per quanto

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mi riguarda, ho la netta sensazione di vivere i miei ultimi anni pre-tumore, la mia era avanti-ictus, quelli da godere fino all’ultimo momento, quando il mio cuore smetterà di battere e inizierà a dubitare di me. Butta un neonato nel mix e ti trovi tra le mani un meraviglioso disastro annunciato. (Forse dovrei aggiungere che stavo praticamente sul letto di morte quando la bimba è stata concepita; alla fine di una corsa di vent’anni tra epatite-C e siringhe, portata al suo inaspettato termine da uno studio clinico all’ospedale Cedars-Sinai. Sono passato dall’essere un malato terminale ultra-cinquantenne con una fidanzata in gravidanza, all’ingoiare un cocktail di farmaci sperimentali così tossici che era assolutamente verboten anche solo toccare una donna incinta. Un passo falso e il bambino sarebbe nato con le corna e le pinne. Aggiungi profuse sudate notturne ed è qui la festa.) Mettere al mondo un secondo figlio da over-cinquanta potrebbe anche incarnare una certa forma demente di volontà di vivere, come si potrebbe pensare che farlo in una situazione di mortalità incipiente e implosione globale sia un atto di tale colossale narcisismo che meriterei di essere castrato dal vivo su Discovery Channel. Ma la cosa più inquietante è che tutta questa storia non mi ha portato altro che una specie di – come si dice? – felicità. Certo, mi vergogno di essere ancora

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vivo, e non aver voglia di buttarmi dall’ultimo piano di un grattacielo ogni giorno è ancora una sensazione nuova. Eppure… la nevrosi è il regalo che i miei genitori mi hanno lasciato in eredità, assieme ai nei sul mento, un notevole monociglio e una propensione alla dermatite. E se mi rimane un qualche obiettivo, da danneggiato Vecchio-Papà, è di non passare quei geni-deprimenti ai miei piccoli. «Sacrificio» è un termine abbastanza pittoresco al giorno d’oggi – se non addirittura da Vecchio Testamento. Ma, a meno che tu non voglia diventare un padre desaparecido, ora hai dei veri impegni a lungo termine. E, a meno che tu non sia un merdapapà, non puoi fare altro che mettere le necessità della piccola Sally o del piccolo Seymour davanti alle tue. Per me, anche dopo aver smesso con le siringhe, la vita pre-Padre non è stata molto di più di un ciclo infinito di Lavora-Scopa-Dormi. Autodistruzione mascherata da creatività. Ora non più, Vecchio. I pezzi che state per leggere (o non leggere, o parcheggiare su una mensola mentre aprite un libro più ispirazionale) sono presentati qui nella loro stesura originale: ognuno di essi è un’istantanea di una fermata particolare sulla nuova autostrada del Vecchio Papà. E sono tutti logori e stracciati tanto quanto il rottame di gioia che li ha scritti. Ecco un piccolo consiglio: se sei stanco di pensare solo a te stesso, fai un figlio. Nei giorni buoni,

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il senso di colpa e la paura battono l’egocentrismo; in quelli brutti, puoi sempre goderteli tutti assieme mentre canti tutte le hit di Frozen. Quindi su, fai pure. Fai finta che questo mondo sia ancora tuo, Vecchio. Nessun essere umano al di sotto dei tre anni ti crederà mai. Che poi, se non sto soffrendo di un attacco di demenza senile precoce, è proprio come è giusto che sia.

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1. RONZIO

Aspettare la nascita di una bambina è come stare seduto a Nagasaki, ascoltando il ronzio degli aerei sopra la testa, mentre ti chiedi esattamente quando sganceranno la bomba di felicità che ti distruggerà la vita. Nel senso buono. E la nostra esploderà da un momento all’altro. Chiaro: non è la prima volta che sento questo ronzio, che vengo spappolato dal terrore e dalla gioia di una nuova vita che ti viene consegnata dai cieli. Solo che questa volta è diverso. Per tante ragioni. Non ultima, c’è tutta la storia della mia tossicodipendenza la prima volta che mi sono affacciato alla paternità, un trentacinquenne pieno di sensi di colpa. E ora ne ho cinquantotto e, be’… cinquantotto, e sempre pieno di sensi di colpa, stavolta legati al fatto che so che, indipendentemente da quanto possano andar bene le cose, inevitabilmente avrò – Gesù, non riesco nemmeno a dirlo senza farmi prendere dai crampi – avrò settant’anni quando lei ne avrà dodici. (La consapevolezza, alla mia età, che settanta è più vicino di quaranta,

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quando, in realtà, mi sento come se ne avessi trenta, è tutt’un altro discorso. Nel senso, chi di noi si immagina come il vecchio bavoso al parco giochi? Come si fa l’aeroplano su una sedia a rotelle?) Non so perché sono così fissato. Ma non riesco a smettere. Ho una paura irrazionale che appena E, la Madre Trentenne, smetterà di cambiare i Pampers di nostra figlia, dovrà iniziare a cambiare i miei. Due set di pannoloni! Gesù. Ve l’avevo detto, è irrazionale. Per ora sono svelto di gamba e scevro di Pampers. Ma comunque, alcuni uomini vivono di sogni, e altri di timori: io sono un timoroso. Mentre discutevo del nostro felice incidente, ho detto a E, la Futura Madre Trentenne, che la notte in cui abbiamo concepito il nostro prossimamente ululante semi-Ebreo ho avuto un’allucinazione uditiva, come un rumorino, un brusio che proveniva dalla sua vagina. Anzi, era più un lieve ronzio motorizzato: il ronzio del mio sperma che avanzava scoppiettando su una carrozzina elettrica per disabili davanti al resto del gregge, scontrandosi in frontale con l’uovo della mia Amata – non tanto perché era il più forte, o il più meritevole, ma perché era miope e non aveva visto il coso davanti a sé. Il Mio Piccolo Mister Magoo, che trotterellante e borbottante si è trovato a creare il miracolo della vita. E quindi, ora, amici e amiche, sto seduto ad Austin – storia lunga, di cui parlerò dopo – aspettando con la donna dei miei sogni, mentre lei si lamenta

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del fatto che è passata dall’essere una snella silfide di 50 chili a un idrovolante di 70. Le dico che è ancora bellissima, ovviamente, ma… È stata un’atleta tutta la vita, e ora per lei anche solo chinarsi a raccogliere un calzino è una Finale dei Mondiali. Un tempo pensavo che l’amore era una storia di, alla base, problemi che amano altri problemi – quando il nostro dolore va d’accordo con quello dell’altra metà. Ora invece ho cambiato idea, e credo che, oltre a tante altre cose, si tratti di un discorso del tipo «accetta le mie nevrosi che io accetto le tue». In ogni caso, la vita a volte è davvero affascinante. La storia di Austin, poi, è tutta un’altra saga. Saga che, tanto vale, potrei anche tirar fuori ora: questa è una rubrica, non è letteratura, quindi non mi devo preoccupare di far filare il discorso in maniera liscia. Invece posso semplicemente dirvi, in maniera diretta e invadente, che ho l’epatite C da decenni, dai tempi del mio profondo flirt con il mixing delle siringhe, nei bei vecchi tempi della fattanza. (Come dicevo prima, nel mio primo giro sul pullman della paternità mi stavo sparando roba messicana in vena nel bagno degli uomini dell’ospedale Cedars Sinai di Los Angeles, sclerando quando l’infermiera batteva contro la porta per dirmi che il bambino stava per nascere, e mi sono dovuto mettere il camice, io, che non portavo maniche corte da anni, per via delle vene spaccate e tutto il resto. Ma chiudiamola qui.)

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Fast forward a oggi. Dopo anni passati a provare ogni singola terapia alternativa nota all’uomo – dalle purghe al caffè ai gargarismi all’olio di sesamo, dalla flebo di vitamina C alla terapia all’ozono, da pascoli interi di grano saraceno a un viaggio nella Repubblica Dominicana per un trattamento illegale alle cellule staminali, fino a un consumo quotidiano di vitamine e integratori alle erbe sufficienti a soffocare un mostro marino, finalmente non stavo poi così male – se si escludono una spossatezza costante, sudori selvaggi, attacchi d’ira assassini (il fegato, nella medicina cinese, è l’organo della rabbia), e un cervello perennemente appannato. Comunque, sulla carta, stavo morendo. La mia carica virale, come diceva il mio epatologo ottantenne basettone ed ex-surfista, «sembra uscita da una storia di Ray Bradbury. Si aggira sui fanta-miliardi.» Senza essere troppo tecnici, il mio fegato portava alla mente l’immagine di un vecchio stronzo di cane secco infilato nel mio stomaco, a un pelo dalla cirrosi. E mentre continuavo a far finta di niente, ad andare in palestra, a fare Chi Gong, e mantenere uno stile di vita vegetariano, continuava a peggiorare. Essere una versione ebrea di un Jack LaLanne vegano non sembrava aiutarmi molto. Insomma, per farla breve, sono poi finito in un test farmacologico per una Grande Compagnia Farmaceutica – passando al Lato Oscuro, dopo anni di

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lotta con i Ribelli della Medicina Alternativa – e, pensa un po’, dopo una settimana di consumo di un cocktail di enzimi proteinasi e antivirali, il mio carico è sceso da un quarto di fantamiliardo a ventitré – sì, ventitré! – e dopo un’altra settimana, per la delizia del mio cuoricino, era diventato impercettibile. Ovvio, c’erano degli effetti collaterali, di cui non posso lamentarmi: respiro corto, strani peli incarniti che fanno sembrare il mio petto e le mie gambe un campo di battaglia, una perenne, devastante confusione che ha trasformato ogni giorno in un’avventura da LSD… ecc., ecc. (Per dirla tutta: anche se il test di due settimane è finito e sono ancora, per miracolo, libero dalla gogna dell’epatite, devo comunque fare un salto mensile all’ospedale per verificare che il virus non sia tornato, rimandandomi nell’ombra della valle dell’epa.) Ma l’effetto collaterale principale, quello che ha portato la Futura Madre ad Austin, è che quel cocktail era talmente tossico, talmente mutageno che stare praticamente nella stessa contea – ok, intendo dire «lo stesso letto» – era pericoloso, molto pericoloso, abbastanza pericoloso da causare potenziali mutazioni mostruose a qualsiasi infante che avesse avuto la sfortuna di trovarsi in un utero a me contiguo. Quindi: addio sesso e addio intimità. Era come se il mio sperma lo producesse la Monsanto, fatale per le generazioni future. Di che livello di tossicità stiamo parlando, chie-

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dete? Be’, solo toccarmi un dito dopo che quel dito aveva toccato le pillole o – per Dio! – anche solo toccare il mio sudore – tutto questo, anche solo un po’ di questo, poteva bastare per far venire fuori il pargolo – secondo gli amministratori del test – viola, e con le ruote. Quindi, per i mesi del test, lei è andata a stare con i suoi ad Austin, mentre io, a scapololandia mutante, sono rimasto a Los Angeles.

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