INTRODUZIONE
Spaghetti-Sound, 1964-1976
Un giorno del novembre 2012 me ne stavo seduto in un salotto signorile del centro di Roma ad aspettare che il padrone di casa si manifestasse con un caffè in mano. Era un salotto gigantesco, oltre che tanto, tanto elegante, e nell’attesa mi misi a spulciare le carte che occupavano lo scrittoio al centro della sala. Intestatario del salotto in questione era Ennio Morricone, e quelle carte non erano altro che spartiti risalenti a circa un quarantennio prima; per il sottoscritto una coincidenza perfetta, visto che il Maestro ero andato a trovarlo per un’intervista su quel periodo «psichedelico», che nel suo caso coincideva sostanzialmente con le colonne sonore composte per i film gialli degli anni Settanta. Ed ecco che davanti a me spuntavano fogli dai titoli inequivocabili: c’era la partitura di Cosa avete fatto a Solange? il morboso college movie a base di studentesse sventrate diretto da Massimo Dallamano nel 1971; ma anche quella di Veruschka poesia di una donna, acidissimo pseudodocumentario sulla modella tedesca musa di un demi-monde in cui si mescolavano artisti smaliziati, hippie capelluti e aristocratici viziosi. Magari il compositore quegli spartiti li aveva preparati apposta per me? In attesa che Morricone si rivelasse, a guardare quei fogli pensai che questo compositore ultrasettantenne dal pesante accento romano era in assoluto la più importante figura della musica italiana degli ultimi cinquant’anni, solo che lui non lo sapeva. O meglio: lo sapeva benissimo, ma per i motivi sbagliati. Mi venne in mente che forse la mia presenza
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in quel posto poteva anche servire a informare l’anziano Maestro che, premi Oscar a parte, c’era ancora tutto un mondo che guardava alla sua musica come un campionario di atmosfere, suoni, suggestioni in continua evoluzione – e no, non sto parlando di revivalisti sedotti dal Quentin Tarantino che in Kill Bill ci infila il tema di Da uomo a uomo. Giusto un paio di anni prima Morricone era stato insignito del Polar Music Prize, il riconoscimento impropriamente ribattezzato «il Nobel della musica» per il semplice fatto che ad assegnarlo è l’Accademia Reale di Svezia. Prima di lui, il premio era andato a personaggi come Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen e Steve Reich; ma anche Bob Dylan, Ray Charles, Dizzy Gillespie. Tra le motivazioni che avevano spinto gli accademici svedesi a conferire il premio a Morricone, c’era il fatto che il compositore aveva «creato un nuovo tipo di musica che per mezzo secolo ha dettato lo stile della musica da film, ma ha anche influenzato e ispirato un gran numero di musicisti nell’ambito del pop e del rock». Assieme a lui, l’altra premiata di quell’anno era Björk: fu un’accoppiata che trovai azzeccata, non tanto perché Björk fosse una fan di Morricone (almeno che io sappia), quanto perché i «musicisti pop e rock» che meglio interpretano il verbo morriconiano occupano spesso un ruolo insolito, eterodosso rispetto ai cliché di quella che in Italia chiamiamo «musica leggera». Sono cioè personaggi anomali, che a volte possono fregiarsi dell’ambiguo titolo di musicisti sperimentali, eccentrici che nel mondo del pop condividono posizioni d’avanguardia o semplicemente di difficile catalogazione e, insomma, Björk di sicuro eccentrica lo era. Quando finalmente Il Maestro entrò in salotto col caffè fumante su un vassoio, gli mostrai un cd che, visto il tema dell’incontro, mi ero prontamente premurato di portare da casa. Glielo porsi con fare cerimonioso e un pizzico incuriosito dall’eventuale reazione, lui ne studiò la copertina (un’istantanea di Florinda Bolkan nel film Una lucertola con la pelle di donna, regista Lucio Fulci, anno 1971), abbozzò una smorfia e poi mi fece:
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«Che roba è?» «Si intitola “Crime and Dissonance”», risposi con deferenza. «È una collezione di alcune delle sue colonne sonore più… [colpo di tosse] strane. Sa insomma, le colonne sonore per Dario Argento, i thriller all’italiana…» «Mai vista. Sapesse quanti dischi fanno uscire ogni anno a mio nome…» «Questo l’ha pubblicato un’etichetta americana che si chiama Ipecac», lo informai. «È stata fondata da un musicista di nome Mike Patton, un tipo molto importante nel mondo della musica rock contemporanea. I brani sono stati scelti da un altro musicista che si chiama Alan Bishop e che credo sia il maggior esperto della sua musica al mondo. Suonava anche lui in un gruppo rock, parecchio bizzarro ma anche molto influente, si chiamavano Sun City Girls.» Non mi aspettavo che Morricone conoscesse i Sun City Girls, e infatti il nome non gli disse nulla. Mi informò comunque che sapeva di avere un certo seguito tra i (ahem…) rocchettari: «Qualche tempo fa mi presentarono questo gruppo inglese, come si chiama… Dair… Daier… “Dire Straits”. Mi dissero che erano miei fan, ma non so bene che musica facciano». Non ho niente contro i Dire Straits ma, ecco, non è esattamente a loro che mi riferisco quando dico che nel rock internazionale i morriconiani sono solitamente degli eccentrici. La sua risposta mi ricordò comunque un’altra mia visita a un bel salotto altoborghese, stavolta ricavato in una villa all’interno del parco dell’Etna, in Sicilia. Quella volta ero andato a trovare Franco Battiato, e a un certo punto gli avevo citato un testo che aveva scritto su di lui Jim O’Rourke, chiedendogli se per caso conoscesse il lavoro del musicista e produttore padrino del post-rock, membro a tempo perso dei Sonic Youth, e collaboratore di un’eterogenea sfilza di mostri sacri che andava da John Fahey ai Faust.
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Mi rispose che sì, sapeva chi era, ma la musica di oggi la seguiva poco; al limite ecco, gli sembravano validi quei tizi lì, come si chiamavano… ah sì, i Black Eyed Peas. A parziale redenzione, va detto che di lì a qualche mese avrebbe comunque fatto un disco assieme a Antony, uno che tempo prima era stato scoperto e lanciato da David Tibet. E visto che a sua volta David Tibet era uno storico collaboratore di Steven Stapleton, e che Stapleton era l’uomo dietro la celeberrima/famigerata Nurse With Wound List – un elenco dei dischi più originali o stravaganti degli anni Sessanta e Settanta, in cui Battiato compariva assieme ad altri italiani come Claudio Rocchi e gli Area – in un suo modo contorto tutto tornava. Esattamente come Morricone, Franco Battiato è oggi un intoccabile senatore della musica italiana; sono più di trent’anni che i suoi dischi finiscono puntualmente in cima alle classifiche mainstream, e se è vero che – rispetto al maestro della musica da film – la sua fama è perlopiù confinata a sud delle Alpi, è altrettanto vero che all’estero esiste un non trascurabile culto che anche grazie a operazioni pionieristiche come quella di Steven Stapleton (la Nurse With Wound List risale al 1979) si concentra in modo particolare sui suoi materiali degli anni Settanta, quelli incisi durante gli anni che la stampa generalista chiama con qualche timore «il suo periodo sperimentale». Se Morricone e Battiato qualche volta si sono incontrati, l’avranno fatto in occasioni ufficiali, ricevimenti e cerimonie istituzionali. Sono personaggi diversissimi che vengono da retroterra tra loro molto distanti, ma in realtà i loro percorsi si sono incrociati a più riprese, se non altro a livello ideale. Ennio Morricone cominciò come compositore «serio», ma prima di diventare celebre con i lavori per il cinema fece in tempo a imprimere un marchio indelebile sulla nascita del pop italiano anni Sessanta, senza dire del suo coinvolgimento in quei circuiti avanguardisti che in piena smania antiaccademica finirono per
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flirtare col mondo della nuova musica giovane, della controcultura e dei capelloni che si radunavano in mal riscaldate cantine off off. Battiato da parte sua esordì come cantante disimpegnato per poi ritrovarsi catapultato al centro degli ambienti underground anni Settanta, e infine darsi agli studi con Stockhausen, tanto da rischiare veramente di fare la fine del «compositore colto». Entrambi sono insomma tra i fondatori di quella musica italiana altra le cui vicende corrono da sempre parallele ai (ma sarebbe meglio dire «al di sotto dei») tripudi della canzone all’italiana; all’iperbolico melodismo marchio di fabbrica della patria di Verdi e di O’ sole mio, sostituirono traiettorie inquiete che suggerivano un’idea di italianità enigmatica e per nulla agiografica, anche quando a essere evocati erano il sole e le belle melodie che pure restano tra i cardini da cui muove qualsiasi cartolina del Belpaese. E quasi di soppiatto, in maniera laterale e pure un pizzico fortuita, sia l’uno che l’altro battezzarono un modo tutto italiano di allargare i confini di quella creatura irrequieta che tuttora chiamiamo musica pop. È una storia per molti versi clandestina, scivolosa, che obbliga a un’innumerevole quantità di distinguo e precisazioni, nonché a un’esplorazione parecchio accidentata tra gli anfratti di contesti in apparenza lontanissimi come il rock underground, il jazz, la musica applicata, quella sperimentale. Ma è una storia che comunque c’è, è esistita, in qualche misura prosegue tuttora. Di questa «storia segreta della musica italiana», le pagine che seguono sono un primo, parzialissimo racconto. Dentro ci sono Morricone, Battiato, e diversi altri nomi che tra anni Sessanta e Settanta codificarono un genere la cui esistenza è in realtà tutta da verificare, ma che a suo tempo, in una piccola guida scritta per l’edizione italiana di «VICE», ribattezzai in maniera un tantino presuntuosa spaghetti-sound. Allora tentai di giustificare il non proprio elegantissimo epiteto ricorrendo all’assonanza con l’ipotetico equivalente tedesco, il favoleggiato krautrock: «un’allegoria
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musical-culinaria (in Germania c’hanno i crauti, qui la pasta: chiaro, no?) che indicherebbe musiche più o meno rock, più o meno sperimentali, più o meno strane/psichedeliche/d’avanguardia, nate e concepite tra anni Sessanta e Settanta fuori dalle consuete rotte angloamericane». Spiegavo anche che «da questo punto di vista, lo spaghetti-sound è un contenitore in cui dentro può finire di tutto: allo stesso modo in cui alla voce krautrock infiliamo tanto i baccanali degli Amon Düül II quanto le austere geometrie dei Kraftwerk, nello spaghetti-sound troveremmo sia bucolici bardi abituati a suonare i bonghi in mezzo alle margheritine di Villa Pamphili che seriosi scienziati elettronici mai usciti dal laboratorio che si sono autocostruiti in cantina». Ma puntualizzavo anche come «lo spaghetti-sound è un metagenere dai contorni molto più sfumati del suo presunto corrispettivo tedesco; dal punto di vista del puro linguaggio musicale, direi che a tenere assieme i nomi appartenenti all’opinabilissimo filone è una specie di “sentimento comune”, più che il ricorso a tecniche specifiche come possono essere l’utilizzo insistito dell’elettronica o la reinvenzione del tipico ritmo in 4/4 [il famoso motorik, N.d.A.]». Questi materiali tradivano quindi «un’atmosfera condivisa che – in maniera tipicamente italiana – mescola abissi mediterranei e indomite pulsioni melò, afa estiva e violenza gore, squarci di prorompente solarità e infinita, straziante malinconia». E poi c’era il dato temporale, o meglio ancora il «tipico clima degli anni di piombo, quando il passatempo preferito dei giovani italiani, più che il concerto del sabato sera, era l’esproprio proletario». Un felice riassunto del clima sonoro in cui annegava l’Italia dell’epoca lo restituisce un film inglese del 2012: si intitola Berberian Sound Studio, e il regista Peter Strickland lo concepì come dichiarato omaggio ai gialli di Dario Argento e Lucio Fulci o, meglio ancora, alle musiche che di quei film furono ingrediente chiave. Anzi, per Strickland le colonne sonore di film come Cosa avete fatto a Solange? travalicano il mero dato cinema-
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tografico per disegnare un panorama estendibile a quasi tutte le eresie musicali che l’Italia produsse in quegli anni. Lo studio di effetti sonori, protagonista implicito del film, è ricalcato sul modello dello Studio di Fonologia della Rai di Milano, ma secondo lo stesso Strickland a fornire l’ispirazione ultima del film furono anche «i lavori di Franco Battiato, degli Area, del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza e di etichette come la Cramps», oltre che naturalmente «le musiche scritte per il cinema da Ennio Morricone, Bruno Nicolai, Stelvio Cipriani» e l’elettronica colta di compositori come Luciano Berio e Bruno Maderna. In un’involontaria e del tutto apocrifa convalida dello spaghettisound da me vagheggiato, il regista mescolava anche lui ambiti e personaggi che in altri tempi avremmo tenuto rigidamente separati: compositori per il cinema e temerari collettivi rock, dotti teorici usciti dal conservatorio e sperimentatori fai-da-te, tranquilli signori di mezza età e hippie con le camicie a fiori, tutti uniti nel tratteggiare i contorni di un suono paranoico e palesemente allucinato, ma anche – per dirla con le parole dello stesso Strickland – «traboccante di desiderio e passione», il che potrebbe suonare paradossale. E infatti un paradosso lo è. Voglio dire, stereotipi e luoghi comuni a parte, l’Italia resta innanzitutto il Paese del sole, della melodia, del melodramma, delle arie a squarciagola che passano senza soluzione di continuità dai palchi dell’opera ai banconi del mercato, e se c’è qualcosa che veramente innerva lo spaghetti-sound in tutte le sue declinazioni e varianti è proprio questo conflitto non risolto tra premonizioni grevi e urgenze radiose, tra le ombre di un tempo devastato e offeso e la luce accecante del Mediterraneo. Ma che dico: più che delle eresie dello spaghetti-sound, è questa una caratteristica del pop italiano tout-court, persino il più fatuo, quello per capirci nato nei laboratori della canzonetta, espressione ufficiale della musicalità nazionale perlomeno dagli anni Trenta del Novecento, e stereotipo melodico da cui apparentemente chiunque sia nato e cresciuto in Italia non si libererà mai, almeno stando all’ultimo mezzo secolo di acrobazie pop.
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La «storia segreta» oggetto di questo libro, dovrebbe in teoria narrare le vicende di chi, alla più conservatrice melodia all’italiana, oppose reazioni che andavano dalla messa in discussione al rigetto bello e buono; per tornare al paragone tedesco: così come il krautrock fece piazza pulita delle frivolezze schlager, lo spaghetti-sound sarebbe un po’ l’antitesi e il nemico giurato della canzonetta, no? E invece non è esattamente così, o se non altro diciamo che il rapporto fu più complesso. Viene semmai da pensare che, al di là dei suoi ardori sperimentali, questo spaghetti-sound altro non fu che il doppio deforme di una musicalità che nella sua forma più pura (e anche retriva) non ha mai smesso di ammaliare gli italiani. Un po’ è per via di quel «sentimento mediterraneo» che alcuni ascriverebbero agli italiani per via nientemeno che genetica (l’abusatissima formula della «melodia nel sangue»), un po’ perché la tradizione locale che andava dalle arie operistiche alla canzone napoletana rappresentava un bagaglio difficile da eludere persino per i più arditi oppositori del regime melodico italiano. A ben guardare, gli svolazzi vocali di tizi come Franco Battiato o del primo Alan Sorrenti non sono poi così distanti da quelli che ogni anno affollavano i cartelloni del tempio della canzonetta per eccellenza, e cioè il Festival di Sanremo. E le lussureggianti partiture orchestrali firmate da un tipo come Morricone non avrebbero sfigurato come arrangiamenti di una canzonetta. Anche perché Morricone è uno di quelli che la canzonetta moderna l’ha praticamente inventata. Questo non significa che, a partire dagli anni Sessanta, non ci fu tutta una generazione che ai dogmi della canzonetta, semplicemente, si ribellò. La stessa definizione «musica leggera», nata per distinguere la canzonetta dalla «pesantezza» della musica colta, venne interpretata come sinonimo di disimpegno e immobilismo culturale, un binomio evidentemente inaccettabile in anni di militanza ed engagement a 360 gradi. Man mano che prendeva forma la cultura della contestazione,
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l’immaginario canzonettistico finì sotto processo da parte di una fetta all’inizio minoritaria, e poi sempre più cospicua di ascoltatori: il suo sentimentalismo esasperato, i suoi rigidi codici melò, i suoi arcaismi ottocenteschi, trasmettevano il ritratto idilliaco di un’Italia che di colpo appariva vecchia, consunta, disperatamente arroccata attorno a un immobilismo che era contemporaneamente formale, contenutistico e politico, e che poco rifletteva le ansie di un Paese sulla via di una rapida, inquieta, alle volte catastrofica modernizzazione. E poi c’era il rock, una musica che, per quanto importata da fuori, funzionava comunque da manifesto generazionale: «Il rock’n’roll era un modo di vivere», testimoniò a suo tempo il cantautore Ricky Gianco. «Se ti eri procurato un disco di quella musica rivoluzionaria, andavi in giro con quel disco per farlo vedere. Suonare la chitarra non era solo un modo per accompagnarti, ma era un modo di esistere». Entusiasmi adolescenziali a parte, il rapporto tra pubblico italiano e rock fu quasi sempre molto difficile. Perlomeno fino alla fine dei Sessanta, gli idoli dei teenager erano ancora cantanti confidenziali che ogni tanto si atteggiavano ad americani ma che poi tornavano sempre lì, a Sanremo, con le loro belle arie sugli innamorati tristi e sulle mamme che, cascasse il mondo, non ti abbandonano mai. L’Italia in fondo è uno dei pochi Paesi al mondo in cui quando arrivarono i Beatles non riuscirono nemmeno a fare il tutto esaurito. C’erano naturalmente dei problemi oggettivi alla diffusione del nuovo suono angloamericano in Italia; alcuni di questi erano, diciamo così, «tecnici»: il mercato della Penisola era piccolo e periferico, e l’industria discografica in cronico ritardo sui corrispettivi stranieri. Ma c’erano anche resistenze di stampo genericamente culturale, e che riguardavano il complicato rapporto con gli Stati Uniti d’America, specie da parte della sinistra sia rivoluzionaria che non. Di quella strana forma di attrazionerepulsione che gli italiani provarono per il gigante americano si discu-
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terà meglio nel primo capitolo di questo libro. Per il momento basti dire che la chitarra elettrica, strumento-feticcio del genere e divinità a cui si prostrarono infinite schiere di ascoltatori adoranti, in Italia poteva assumere lo stesso dubbio valore dell’icona del dollaro, odiatissimo simbolo dell’imperialismo amerikano. Persino i gruppi rivoluzionari che si formarono dopo il Sessantotto non furono estranei al sospetto che il rock fosse un mezzo particolarmente creativo studiato dalla CIA per condizionare gusti e comportamenti dei giovani. Questo misto di fraintendimenti, ignoranza, conservatorismo, timidezza e scarsa familiarità coi vocaboli della nuova musica giovane, produsse però anche effetti spiazzanti; ancora per buona parte dei Sessanta, il pop italiano più di rottura portò quasi sempre la firma di adulti, e perlopiù ai margini del circuito della musica leggera ufficiale: compositori d’avanguardia prestati alla canzonetta, artisti visivi infatuati del rock anglosassone, autori di musiche per film… L’iniziale spaghetti-sound per come si plasmò attorno alla metà degli anni Sessanta fu una faccenda underground «suo malgrado»: più che essere espressione di un substrato culturale coscientemente alternativo, si limitava a operare in maniera clandestina alla periferia dell’industria musicale propriamente detta. Chi invece cominciò a rispecchiarsi nel nuovo suono elettrico nato tra USA e Gran Bretagna, provò dapprima a emularlo in maniera non di rado goffa e qualche volta strampalata, ma anche chi, col passare degli anni, ne riuscì a interpretare i caratteri con spirito vieppiù originale, difficilmente arrivò al punto da recidere del tutto il legame con la tradizione, vuoi per calcolo commerciale, vuoi per affetto, vuoi come tattica di resistenza all’imperialismo yankee, vuoi per l’ormai risaputa «questione di DNA». Ne risultò un ibrido dalle sembianze bizzarre, un misto di elettricità nervosa e sentimentalismi rurali, tormenti nostalgici, guizzi folklorici, e orgogliose rivendicazioni identitarie. Questo mix incongruo, questa somma di
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contraddizioni in apparenza inconciliabili, resta il vero mistero su cui fonda lo spaghetti-sound. Il suo più maturo cugino tedesco, l’ormai mitizzato krautrock, fu un’esperienza talmente peculiare da riuscire nell’impresa di svincolarsi dal modello originario di radice angloamericana, ed esercitare un’influenza decisiva proprio sugli artisti inglesi e statunitensi che, ispirati dai vari Can, Faust, Tangerine Dream e Popol Vuh, prepararono il terreno per fenomeni come il post-punk, la musica elettronica extracolta, la techno e il post-rock. La fama degli artisti italiani all’estero è più limitata e sottile: tolto il caso Morricone – uno che già nei Sessanta ammaliò i gruppi della psichedelia californiana e che nei decenni successivi ispirò una quantità di formazioni provenienti dai retroterra più disparati: dub, hip hop, post-punk, eccetera – i vari Le Stelle, Battiato, Area, Claudio Rocchi, GINC, per molti anni si limitarono ad affascinare una sparuta élite attratta da tutto quanto suona strano e poco convenzionale. Solo in tempi più recenti, formazioni elettroniche come i Demdike Stare e film come il già citato Berberian Sound Studio hanno provveduto a ridestare l’interesse di critica e pubblico per materiali che nella stessa Italia restano curiosamente ai margini della storiografia «ufficiale», a meno che non si voglia prendere in considerazione l’imponente mole di testi dedicati al rock progressivo italiano – un fenomeno forse legato ma comunque tangenziale a quanto qui raccontato. A resuscitare in maniera organica il fantasma del krautrock, provvide già nel 1995 Julian Cope col suo Krautrocksampler, mitologico libro divenuto nel frattempo pezzo da collezione. Il musicista/sciamano/ archeologo inglese replicò dodici anni dopo con un secondo volume, intitolato guarda tu Japrocksampler, dedicato stavolta all’altra scuola nazionale che a suo parere più si emancipò dal modello angloamericano: quella giapponese. Forse non per caso, sia Germania che Giappone erano Paesi usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale e impegnati in quegli
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anni a ricostruirsi, più che un futuro, una credibilità nei confronti dei nuovi partner occidentali. A completare un’ipotetica Trilogia dell’Asse mancava dunque un solo volume: quello sull’Italia. Ignoro se Cope abbia intenzione di scriverne uno: di sicuro in passato si è occupato sia di Morricone, che di Battiato, che di altri oscuri eroi dell’italounderground. Nel frattempo però, visto che sull’argomento mi cimento da un po’, ci ho provato io. Dopotutto in Italia ci vivo. Certo, all’epoca dei fatti io nemmeno ero nato: nello scrivere questo libro, ho quindi seguito una prospettiva inevitabilmente ma anche orgogliosamente ex post, influenzata (forse deformata?) dal recupero che queste musiche hanno conosciuto perlopiù negli anni Duemila e quasi sempre prima all’estero che in Italia; è una strana traiettoria che dall’originale inciso quaranta o cinquant’anni fa arriva alla riscoperta di generazioni non solo cronologicamente ma anche geograficamente distanti, per poi solo alla fine rimbalzare nei luoghi di effettiva provenienza, secondo modalità spesso molto distanti da quelle preventivate dagli stessi autori. Il rischio in questi casi è quello di una lettura revisionista di vicende che, da noi, continuano a essere materia sensibile per molti di quelli che all’epoca c’erano davvero. Spero di averlo evitato. Un’altra scelta che potrebbe essere letta come revisionista, è quella di allargare Superonda – che, se non si fosse capito, è un libro tendenzialmente «rock-centrico» – a contesti come la musica colta, quella applicata, il jazz, il folk. Ma la realtà è che tali sconfinamenti erano già tutti nelle musiche qui narrate: mi sarebbe sembrato assurdo raccontare Franco Battiato senza spiegare come il minimalismo arrivò in Italia; affrontare gli Area senza tener conto di dieci anni di influssi cageani; prendere i dischi del Canzoniere del Lazio e far finta che jazz e folk fossero altrove; negare che quello che per me è il più grande disco di rock italiano del periodo, «The Feed-Back», lo firmò un gruppo di compositori di mezza età tra i quali tra l’altro c’era lo stesso Morricone.
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Infine: è quasi superfluo ricordare come il decennio che andò dalla metà dei Sessanta alla fine dei Settanta fu per l’Italia un periodo convulso, contraddittorio, certo drammatico, ma anche denso di slanci, aspirazioni e conquiste sia politiche che sociali. Nella memoria degli italiani, specie gli anni Settanta rimangono prima di tutto il cuore e assieme il culmine degli «anni di piombo», un periodo che ha spinto alcuni storici a coniare una definizione rimasta fortunata: quella di una «guerra civile a bassa intensità». Furono senz’altro gli anni del terrorismo, delle stragi di Stato, degli scontri di piazza, e dei cupi presagi che potevano andare dalla paranoia del golpe militare alla sindrome da giustizia proletaria. Ma furono anche gli anni della questione giovanile, del femminismo, della non troppo riuscita alleanza tra studenti e operai, e delle solari utopie della controcultura underground. Per quanto la televisione italiana fosse ancora in bianco e nero, fu un’era parecchio colorata, e sono principalmente questi colori a fare da sfondo alle vicende qui raccontate. Anche se sì, ogni tanto anche le tinte più gioiose vengono inquinate da un certo alone grigio-piombo. Detto questo: il cuore tematico di Superonda copre gli anni che vanno tra 1964 e 1976. Stabilire confini tanto netti per un argomento per sua natura così sfilacciato, può sembrare arbitrario. Ma una ragione per cui ho preso come riferimento queste date c’è; musicalmente parlando il 1964 è l’anno in cui esordiscono i primi gruppi del beat italiano e Morricone pubblica la colonna sonora di Per un pugno di dollari, mentre a Roma arrivano Alvin Curran e i fondatori di Musica Elettronica Viva e Franco Evangelisti getta le basi di quello che sarà il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Su un piano più genericamente culturale, il 1964 è anche l’anno dell’antologia Poesia degli ultimi americani che presentò al pubblico italiano i poeti della beat generation americana, dei primi eventi Fluxus a Milano e dell’avvento della pop art alla Biennale di Venezia, mentre in edicola escono i primi numeri di fumetti come
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Kriminal e Satanik (c’entrano anche loro, fidatevi). In più, da qualche mese era nato «Ciao Amici», il primo giornale dedicato esclusivamente al pubblico dei giovani, mentre giusto agli inizi del 1965 a Roma apre il Piper. Il 1976 è invece l’anno dell’ultimo Festival del Proletariato Giovanile al Parco Lambro di Milano, un evento talmente traumatico da sancire un prima e un dopo per quello che fino a quel momento era conosciuto semplicemente come «il Movimento». Dopodiché, nulla sarà più lo stesso: col 1977 arriveranno le contestazioni di autonomi e indiani metropolitani, fumetti come Ranxerox, e musiche come il punk e l’italodisco. Tutta materia per un altro, eventuale volume. Questo ovviamente non significa che fuori dai dodici anni che vanno dal 1964 al 1976 non ci sia nulla da raccontare. Soprattutto, è impossibile comprendere quello che accadde dal 1964 in poi senza tenere conto di quanto ci fu prima. Toccherà insomma cominciare da lì: da quando l’Italia era in pieno boom, e da tutto il mondo arrivavano a Roma per respirare gli ultimi, rancidi aneliti della sedicente Dolce vita.