UNO
C’è tutto il paese oggi su questa strada, in fila dietro quel carro funebre che trasporta segreti e silenzi sino al cimitero. Li guardo avanzare, lentamente, con occhi distaccati e sereni. È una bella giornata. Il sole si specchia nei vetri delle macchine, l’inverno è alle spalle ormai e il paese si rianima. L’aria ha un odore diverso, di terra bagnata e fiori, gli alberi tornano alla vita e tutto si colora di nuovo. I negozi del quartiere hanno deciso di tenere le serrande abbassate al momento della funzione religiosa, il sindaco non ha indetto il lutto cittadino, ma ha parlato a lungo in conferenza stampa. È una storia perfetta per i pomeriggi televisivi. I giornalisti, a decine, sono appostati agli angoli della strada, qualcuno ha cercato di superare il cordone di polizia per arrivare a intervistare le persone in prima fila, le telecamere seguono l’evento da vicino, si preparano servizi per le edizioni serali dei telegiornali. La preside è in testa alla delegazione scolastica col volto tirato e l’espressione seria di chi sa di essere un osservato speciale. Dietro di lei il professore di fran-
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cese, quello che mi ha fatto leggere Il piccolo principe e le poesie di Rimbaud, lo stesso a cui piaceva il mio modo di pronunciare la r, e quello di italiano che non mi è mai stato simpatico e che non mi ha mai dato più di sei nei temi e nelle interrogazioni. E ci sono tutti gli altri, naturalmente. Alcuni li conosco solo di vista, qualcuno invece sin da quando ero bambino: c’è la panettiera, per esempio, che è sempre stata gentile con me e che non ha mai detto a mia madre che prima di andare a scuola passavo da lei a comprare brioches e panini. Il bidello che mi ha difeso più di una volta, le ragazze della squadra di pallavolo e molta, moltissima altra gente. Tutti in fila, atterriti, con una fiaccola in mano. Se decidessi di spuntare fuori ora, dopo mesi di assenza, forse rimarrebbero tutti di pietra. O forse non fregherebbe niente a nessuno. Non credo che abbiano sentito davvero la mia mancanza. Ci sono anche i miei compagni di scuola e i loro genitori. C’è Giulio che si guarda intorno preoccupato, porta gli occhiali scuri, ha il volto teso e il tic nervoso al labbro superiore che gli prende quando ha paura. Tutti lo chiamano Ombra perché non si fa mai beccare, è scaltro e veloce. È il tirapiedi di Tony, quello che fa tutto il lavoro sporco. Oggi però non sembra tanto pericoloso, mi dà l’impressione di essere un bambino spaventato. Rimane accanto a sua madre, quasi aspettandosi una carezza. E lei non capisce, ov-
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viamente, forse pensa che suo figlio sia sconvolto per quello che è successo. Lo prende sottobraccio e appoggia il capo sulla sua spalla. È una donna minuta con bellissimi capelli rossi e occhi verdi. Un bel quadretto di famiglia. Vorrei andare da lei a urlarle che suo figlio non è un bravo ragazzo, è meschino, un codardo che spaccia per conto di Tony e che lei non sa niente del ragazzo che sta cercando di consolare. Ma non lo farò. Me ne starò qui nascosto a godermi tutta la scena e a raccontarvi ciò che è accaduto in questa piccola comunità di brave persone, vi dirò tutto quello che c’è dietro alle porte chiuse che nessuno dovrebbe mai aprire. Da qui posso vedere anche Anna, sembra davvero triste. Il suo sguardo è fisso su Marco. Le cose fra loro non vanno più molto bene e lei ha paura di rimanere sola. Se Marco la lascia, addio alle serate con il gruppo, alle discoteche da raggiungere macinando chilometri di strada, all’alcol, alla droga, alle feste private a cui possono andare solo quelli fichi e, soprattutto, addio al rispetto. Perché è questa la cosa che la fa sentire meglio: il senso d’invidia delle altre ragazze, le occhiate piene di ammirazione o di desiderio da parte dei ragazzi. Eppure Anna non era così quando l’ho conosciuta. È come se, improvvisamente, avesse perso l’ingenuità che la caratterizzava. La ragazzina magra e solitaria, quella un po’ imbranata che mi aiutava a fare i compiti, si è trasformata in una ragaz-
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za disillusa e fredda, impegnata ad apparire qualcosa che in realtà non è. Lei riusciva a vedere oltre il mio aspetto fisico, correggeva i miei errori con sorrisi affettuosi, scambiavamo battute stupide sulla professoressa di matematica e poi mia madre ci portava la merenda. Era l’unico momento in cui non mangiavo, per pudore forse, per paura di fare la cosa sbagliata, di sporcarmi come mi succede sempre, di fare la parte del cretino. Lei mangiava e poi accennava sorrisi imbarazzati, a volte mi parlava con la bocca piena e di nuovo ridevamo. Mi faceva sentire così normale. Ma eravamo tutti più piccoli, eravamo appena usciti dalle medie. Poi Anna ha cominciato a cambiare. La vedevo sempre meno e non sapevo mai cosa rispondere alle domande di mia mamma: «Come mai Anna non viene più? Avete litigato?» Quando mamma ha capito che Anna non sarebbe più venuta a trovarmi ha smesso di fare domande, mi ha detto: «Anna è cresciuta», e non è più tornata sull’argomento. Non ha più l’apparecchio ai denti ed è dimagrita ancora, crescendo diventa sempre più bella. Forse avrei dovuto dirglielo che mi piaceva tanto. Non sarebbe servito a nulla, probabilmente mi avrebbe guardato come facevano tutte le altre ragazze e poi avrebbe cambiato discorso. No, meglio che non le abbia detto niente e poi è sempre stata innamorata di Marco.
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Adesso la vedo camminare in mezzo agli altri e farsi piccola dentro il vestito che indossa. Mentre cammina si volta verso di me, come se avesse intuito che sono nascosto qui da qualche parte, io mi abbasso d’istinto per non farmi vedere. Poi la sua attenzione torna su Marco, allunga il passo e va oltre il mio sguardo. Tony, invece, è in coda al corteo. Scommetto che sono stati i suoi a obbligarlo a venire, sono brave persone, conducono una vita tranquilla. Lui però è una testa calda, forte con i deboli e debole con i forti. Si vanta spesso di avere uno zio parecchio potente, uno di quelli, dice, che gli farà fare carriera senza grossi sforzi. È lo stesso zio che ha risolto i casini dopo che me ne sono andato, lo stesso che ha dato molti soldi ai genitori di Manuel per ritirare la denuncia per aggressione. A Manuel tutti lo chiamano Bambi perché dicono che è frocio come il cerbiatto del film. Lui è l’altro sfigato della scuola anche se sono in molti a credere che i problemi, quello, se li va proprio a cercare. Ha una lingua che taglia, si presenta a scuola con vestiti che nessun ragazzo vorrebbe mai indossare, maglie enormi, come quelle che si vedono nei vecchi film degli anni Ottanta. Il suo essere diverso lo sbatte in faccia a tutti, senza paura, e fa incazzare parecchi ragazzi. Tutti lo chiamano frocio a parte qualche ragazza sua amica. Lui non fa proprio niente per risultare simpa-
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tico, si comporta da checca altezzosa. Deve sempre essere il primo della classe, legge molto ed è fra i migliori della scuola. Anche Anna è molto brava, con Bambi si contendono lo scettro di secchione. Questo è uno dei motivi per cui nessuno lo sopporta. Sembra che Bambi si sia innamorato di Marco qualche anno fa e ad Anna questa cosa non è mai andata giù. Ma anche Tony un po’ lo teme per quella sua linguaccia. Bambi le parole le usa come frecce: con quei suoi vocaboli strani che capisce solo lui ti spinge all’angolo, tanto che poi, per uscirne, a Tony e ai suoi compari non rimane altro che picchiarlo. È la stessa cosa che devono aver pensato il giorno del pugno. Non ci voleva proprio, dopo tutto quello che era successo con la mia scomparsa. C’erano stati i giornalisti a scuola, qualcuno aveva persino parlato di bullismo, erano iniziate le ricerche ma non mi avevano trovato. Non voglio tornare indietro, sto bene dove sono. Come ho già detto Bambi fa parte del gruppo degli sfigati, ma persino noi sfigati, quando possiamo, ce la prendiamo l’uno con l’altro. Bambi, per esempio, mi offendeva sempre con battute cattive sul mio aspetto fisico e io offendevo lui, dandogli, come fanno tutti, del frocio. È così che funziona, non ci sono vincitori in questo gioco. La maggior parte di noi è già contenta di arrivare a fine giornata senza aver ricevuto offese o botte.
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Le botte, poi, si possono anche sopportare. I lividi passano, nella maggior parte dei casi non lasciano neppure grossi segni. Sono le parole a entrarti dentro e non uscire più. Per un periodo io e Bambi abbiamo tentato di essere amici. Lui sta sempre con le ragazze, non con quelle importanti, solo con quelle che per farsi notare devono alzare la voce o vestire in un certo modo. Tutti vogliono essere importanti, tutti vogliono valere qualcosa. Io vorrei andare alle feste di Tony e degli altri, mi piacerebbe fumare sigarette con loro e farmi scarrozzare con la macchina. Deve essere bello far parte di qualcosa. Di un gruppo. Ho frequentato Bambi sino a quando qualcuno ha messo in giro la voce che andavamo a letto insieme. Pare che se sei frocio non puoi avere amici maschi. È stato lui a smettere di cercarmi, una volta mi ha chiamato «ciccione» nel corridoio e poi non mi ha più rivolto la parola. Non so se lo ha fatto per se stesso o per me. Dopo un paio di mesi che me ne sono andato Tony ha dato fuori di testa con Bambi, lo ha steso con un pugno e la preside lo ha espulso. Non sono bastate le scuse della famiglia per convincere i genitori di Bambi a ritirare la denuncia, è dovuto intervenire lo zio. Adesso Tony frequenta un istituto privato, si vede
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ancora con Ombra e Marco, anche se le cose, ultimamente, non vanno bene fra di loro. Ci sono stati dei casini nel gruppo, Marco è sul punto di crollare. Non è più il ragazzo brillante che primeggiava a scuola, quello divertente e amico di tutti. Eccolo lì, in mezzo alla folla. È dimagrito così tanto che gli altri hanno cominciato a chiamarlo Spillo. È lui il ragazzo più invidiato della scuola, quello con la mamma di famiglia ricca e il papà in carriera, quello con un sacco di soldi che viene invitato a tutte le feste, con cinquemila amici su Facebook e che sino a qualche mese fa pensava di farsi un profilo bis. Eccolo, in questo momento, mentre barcolla zoppicando con due grossi lividi sul volto e altri sul corpo, nascosti dai vestiti. Pallido e scheletrico. Sua madre lo osserva dalla coda del corteo. È una donna davvero molto bella, cammina accanto al marito senza mai sfiorarlo, attenta a non rivolgergli mai un sorriso o una parola. Non posso odiare solo Spillo. Il capo è sempre stato Tony. Però Spillo partecipava ai loro scherzi idioti e non ha mai preso le difese di nessuno. La verità è che non gliene fregava un cazzo degli altri, gli bastavano i suoi bei vestiti, le canne e le feste. Ora che ha perso tutto quello che aveva, ha capito cosa significa essere soli. Di cose, in paese, ne sono cambiate parecchie in questi mesi. Sono tutti qui i protagonisti di questa storia, tutti
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attenti a non far trapelare la verità, a difendere i propri interessi, a cercare di sembrare qualcosa che non sono. E forse adesso vi starete chiedendo chi sono io. Mi chiamo Giovanni, ho quasi diciassette anni, porto occhiali con lenti spesse e ho superato da poco i centoventi chili. Mi chiamano ciccione, maiale, lurido porco, malato, merendina, grassone, cicciobomba, panzone, trippone, barile, latrina, lardoso e in un milione di altri modi anche se il soprannome che usano più spesso è Palla di lardo, come il personaggio del film. Mi chiamavano così quando mi rincorrevano nello spogliatoio con gli asciugamani bagnati e poi, mentre qualcuno mi teneva stretto, gli altri mi colpivano a turno sotto il controllo attento e divertito del trio. Oppure quando mi costringevano, in presenza di qualche ragazza carina, giusto per fare quelli forti, a sollevare la maglietta per far vedere la pancia. So di non essere un tipo particolarmente sveglio e so anche che il mio aspetto non ispira simpatia. È tutta la vita che me lo dicono. Che sono uno lento, che non afferro le cose al volo, che non capisco quando è il momento di girare al largo. Quel giorno, il giorno che ho deciso di andarmene, non avevo capito che dovevo stare lontano. Che aprendo una porta la mia vita sarebbe cambiata per sempre.
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