Un giorno sarai un posto bellissimo

UNO

Palermo, 1983 Stasera la televisione Brionvega della cucina deve restare spenta, dice mamma, mentre mette in tavola gli spinaci al burro. Mi piacciono un sacco, e per tre motivi: perché dentro, anche se non si può né vedere né sentire sotto ai denti, c’è il ferro, perché sono il cibo preferito – appunto – di Braccio di Ferro e perché a volte, quando mi viene da starnutire, mi escono dal naso sani sani, proprio come quando li avevo messi in bocca. Una cosa che fa ridere tutti, anche se fa pure un po’ schifo, e impressione. Ogni volta chiedo a mamma di vedere la scatola, perché spero tanto che, invece di quelli surgelati, compri quelli nella latta, quelli che li puoi strizzare direttamente da lì e ingoiarli al volo mentre disegnano un arco verde dalla mano alla bocca. Secondo me è per questo che non mi sento affatto più forte dopo averli mangiati: non sono quelli giusti. La mamma mi ha detto che saranno di un’altra marca, certamente americana, che qui a Palermo non arriva, ma mi ha assicurato che anche mangiando questi diventerò più forte, che è quello che mi interessa: perché se sarò forte nessuno oserà sfottermi, anche se sarebbe comprensibile visto che da qualche giorno ho dietro agli occhiali un cerotto sull’occhio destro e pure mamma, a casa, ha preso a chiamarmi Polifemo. Che io non 11

so bene che voglia dire ma mi pare comunque abbastanza offensivo.

Avere un occhio solo è una scocciatura, soprattutto adesso che la nonna mi ha insegnato a leggere: perché con un occhio solo è più difficile. Nonna ha detto che se fossi arrivato a scuola già sapendo almeno un pochino farlo sarei diventato più facilmente il primo della classe e, anche se non ho ben capito cosa voglia dire «primo della classe», imparare mi è piaciuto tanto. Per tutta l’estate, il sabato, quando andavo a dormire da lei a Mondello, nonna mi ha insegnato con un libro comprato apposta, con i disegni e gli esercizi. E ora leggo tutto, ma proprio tutto. Ad alta voce. In chiesa, per esempio: quando distribuiscono il foglietto che tutti quanti tengono in mano finalmente posso usarlo anch’io, e leggo fortissimo, per far sentire a tutti quanto sono bravo. Leggo tutte le scritte che mi ritrovo davanti agli occhi, sempre, non riesco a resistere: se ci sono delle lettere vuol dire che devono essere lette, non si possono sprecare, e da quando ho cominciato a farlo il mondo mi sembra più chiaro. Innanzitutto ho scoperto che tutto ha un nome, poi che quella maglietta gialla che già mi piaceva solo perché era gialla ha stampato sopra il mio nome, come a dire non solo che è proprio mia, ma anche che io mi chiamo Arturo, come c’è scritto lì, perché quella maglietta la indosso solamente io. Ancora, ho scoperto che per strada, sui muri, ci sono scritti un sacco di nomi, che devono essere quelli di chi ha costruito i muri, visto che mamma mi ha spiegato che tutti i nomi che ci sono sui quadri a casa nostra, anche quelli antichi, sono i nomi dei pittori che li hanno pittati. Adesso, ogni volta che faccio un disegno, scrivo sempre il mio nome in basso a destra, come mi ha insegnato mamma, per far capire a tutti che non solo è mio, ma che l’ho fatto proprio io.

12

Questa cosa di imparare a leggere e di voler leggere tutto non è sempre un vantaggio: a volte non ci capisco più niente.

Perché ci sono delle cose che, anche se so benissimo che si chiamano in un modo, sopra hanno scritto un’altra cosa e allora mi confondo, ma non chiedo niente a nessuno e mi tengo i dubbi per non sembrare scemo. Ma qualcuno prima o poi mi dovrà spiegare perché sul volante della macchina di papà non c’è scritto volante, ma «lancia», e lo so benissimo che quello non è una lancia perché io una lancia ce l’ho, anche se di plastica, e col volante non c’entra niente.

Oppure il gabinetto, o bagno o wc, che già c’ha tanti nomi ed è difficile, ma perché sopra il gabinetto di casa mia c’è scritto «Scala»? È chiaro che quella tazza non è una scala. Se ci penso mi viene il mal di testa, tanto mi sforzo. Insomma, ho un occhio solo: è già abbastanza faticoso!

Anche i cartoni alla tv, con un occhio solo, perdono il bello, e allora non mi importa più tanto della televisione, che si chiama Brionvega: per me può restare spenta, specie dopo che mia madre mi ha spiegato che il sangue dell’Uomo Tigre non è sangue ma succo di pomodoro (che si chiama inspiegabilmente Cirio e non Ciro). Il che non è che mi convinca del tutto: come fa del succo di pomodoro a finire nel cartone? Non basterebbe disegnarlo e basta, ’sto sangue dell’Uomo Tigre? E comunque chi se ne importa: stasera a cena c’è nonna, venuta apposta da Mondello perché domani è un giorno importante: il mio primo giorno di scuola! Le raccomandazioni e gli avvertimenti si sprecano: ognuno dice la sua ma nonna dice la cosa più importante, mi spiega che quando la maestra farà l’appello e dirà il mio nome io dovrò rispondere: «Presente!» sennò penserà che non ci sono.

Facciamo le prove seduti attorno al tavolo: la nonna fa la maestra, e mia madre, mio padre e io facciamo gli alunni 13

che rispondono presente, ma quando arriva il mio turno mi vergogno e non dico niente e allora tutti ridono e dicono che sono un babbasone.

E forse – anche qui – hanno ragione loro: nonna mi ha insegnato a leggere per tutta l’estate, i miei non fanno che parlarmi di questo benedetto primo giorno di scuola praticamente da quando sono nato, io stesso me lo sono immaginato un sacco di volte, me lo sono pure sognato un sacco di volte, e ho passato mesi costringendo mia sorella Nina – dalla culla – e i miei animali di peluche a far finta di essere scolari mentre io facevo finta di essere il maestro: dovrei essere pronto, allenato, preparato! Ma un conto è dirle, le cose, un altro è farle: e adesso che papà mi tiene per mano davanti alla porta della classe e quella signora, che non è bionda e carina come mi ero immaginato io ma mora, vecchia e quindi cattiva di sicuro, mi invita a entrare dicendo a voce alta il mio nome.

«Buonocore! Gioia! Vieni qua!»

Sono terrorizzato; e non mollo la mano di mio padre, nemmeno me lo sogno. Una trentina di bambini sconosciuti, alieni, cattivissimi di sicuro, mi guardano seduti ai loro banchi, e di certo quei due che parlottano là in fondo mi stanno prendendo in giro perché ho gli occhiali e l’occhio tappato, e tutti gli altri, anche se stanno zitti, stanno pensando che sono un cretino, lo so, si vede da come mi guardano, mentre invece non so perché loro sono già tutti seduti ai loro banchi e io sto in piedi davanti alla porta con mio padre accanto: non è che siamo arrivati in ritardo il primo giorno di scuola?

«Buonocore! Gioia! Vieni qua!»

In ritardo! Questa cosa sicuramente non farà alzare la già precaria stima che c’è di me tra questi sconosciuti che mi 14

guardano, e comunque non ci penso proprio a lasciar andare via mio padre, si può sedere lì accanto a me, no? Poi quella signora mora e non bionda mi si inginocchia davanti, mi dice che si chiama MaestraLucia come se maestra facesse parte del nome, e strappa letteralmente la mia mano da quella di mio padre, cosa che mi fa venire un’infinita voglia di scoppiare a piangere: non so per quanto ancora riuscirò a trattenermi.

«Buonocore! Gioia! Vieni qua!»

Una volta tanto benedico i miei occhiali, che riescono a nascondere una lacrima strizzata fuori dagli angoli dell’occhio buono. MaestraLucia mi prende per mano e mi fa sedere al primo banco, accanto a un bambino così biondo che pare tedesco, con degli occhi così azzurri che potrebbero essere cattivi, si vede, ma che invece di sfottermi mi sorridono, riuscendo a farmi ingoiare dentro tutto quel pianto che stava venendo fuori. Mio padre lo perdo di vista, mi sa che è scappato. Mi siedo accanto a questo bambino biondo e dal niente e chissà per quale motivo mi sento mentre gli chiedo, con una certa mondanità anche, se l’ho già visto da qualche parte.

«Vai a mare a Mondello?»

No: gli spiace, ma lui al mare va a Santaflavia, e MaestraLucia la conosce da quando era piccolo perché MaestraLucia è amica di sua madre. Io MaestraLucia non la conosco, e penso che lui è fortunato a conoscerla da tanto; è un bel vantaggio, penso.

«Come ti chiami?»

«Lorenzo.»

La nostra conversazione viene bruscamente interrotta da MaestraLucia che, facendomi salire il cuore in gola, dice a voce alta il mio nome: «Arturo, vieni alla cattedra: devo dire una cosa ai tuoi compagni».

15

Ecco. Adesso è sicuro: tutti mi stanno guardando, tutti, anche quella biondina carina all’ultimo banco e quel ciccione gigante che pare di terza che sta due file dietro di me. E tutti sanno come mi chiamo: MaestraLucia ha ripetuto il mio cognome già tre volte da quando ho messo piede in aula, per tentare di scollarmi da mio padre, e ora ecco anche il nome, perché deve dire una cosa alla classe. Ma cosa cavolo dovrà dire a tutti su di me?

Eccomi accontentato: MaestraLucia mi afferra per un braccio e mi gira verso i miei nuovi compagni, ai quali, solennemente, tenendo le mani appoggiate sulle mie spalle, spiega che io ho dovuto mettere questo cerotto sull’occhio, dietro gli occhiali, perché ho una piccola malattia che passerà presto se terrò il cerotto e se nessuno mi prenderà in giro per questo. Sennò resterò cieco per tutta la vita. Grazie mille MaestraLucia: grazie a te sarò lo zimbello di tutta la classe fino alla laurea. Il ciccione due file dietro di me già sghignazza qualcosa con il ragazzino smilzo e lungo che gli siede accanto, ma Lorenzo si volta e gli fa a voce alta: «Che cavolo hai da ridere, cretino!»

Dopodiché si alza e gli svuota lo zaino per terra, generando immediatamente un parapiglia. Il mio primo giorno di scuola: non ho ancora aperto bocca e in classe è scoppiata una rissa a causa mia.

Molto bene.

16

DUE

Milano, 2013 Sono dentro una stanza che non conosco. La casa è simile a quelle che ho visto a Craco, un paesino della Basilicata dove Lei e io siamo stati in vacanza qualche anno fa, abbandonato negli anni Sessanta per paura di uno smottamento che non è mai arrivato. È stato lasciato all’improvviso, come se tutti i suoi abitanti, insieme, a un preciso segnale, avessero chiuso le loro attività e mollato le loro case, le pentole ancora sul fuoco, le radio accese, le scarpe per terra, i cappotti appesi sugli appendiabiti. Un paese morto, desolato, senza più anima, né amore, dove il sole tramonta colorando la valle del Basento di mille sfumature di viola e la vista non ha fine mentre il vuoto si tinge dell’arancione più arancione del mondo.

Così è la stanza dove mi trovo adesso: un luogo abbandonato che una volta deve essere stato vivo. Faccio una panoramica della camera, facendo perno sui piedi: tutto si muove morbidamente, come se avessi le rotelle sotto le scarpe. Vedo una finestra chiusa, della carta da parati lacera, che sembra essere stata strappata da qualcuno che rabbiosamente ha fatto sul muro gli squarci che aveva dentro, forse io: quando sono nero, a volte, ne faccio di cazzate così, da pazzo, da adolescente furioso di quasi quarant’anni. Subito 17

dopo un appendiabiti vuoto, che ingombra l’angolo sulla destra, un piccolo mobile frigobar marrone e poi un’altra finestra, anch’essa chiusa: quando, dopo un giro completo, torno da dove ero partito, come in un horror movie americano a basso budget, la prima delle due finestre è aperta e nella stanza c’è Lei, che mi guarda, tenera e bellissima come sempre. Porta un cappello nero dalla tesa larga e una maschera sugli occhi: i capelli biondi, lunghissimi, si staccano dal nero del cappello e della maschera per scenderle morbidamente sulle spalle. La guardo come l’ho sempre guardata, come se dieci anni di vita insieme non fossero bastati a farmi abituare alla sua bellezza, ai suoi occhi verdi che sanno parlare: adesso, dietro la maschera, mi sembrano tristi, dispiaciuti. Mi si avvicina, nella desolazione di questa stanza senz’anima, e mi bacia. Un bacio vero, che mi commuove.

Poi si allontana, come per guardarmi meglio, per mettermi a fuoco, e scoppia a ridere di una risata fragorosa.

«Ci sei cascato, di nuovo.»

Apro gli occhi con il suono del mio urlo nelle orecchie come prima cosa e, sempre come nei film, contestualmente al mio risveglio e al mio urlo, assumo la posizione seduta sul letto, o almeno ci provo. Nei fumi del sonno, però, mi dimentico che sono in un albergo a Milano a seicento chilometri dalla casa che fino a due mesi fa era il centro delle nostre vite, della mia di sicuro, almeno, e che sopra il letto matrimoniale, ovviamente composto da due materassi singoli, una sorta di lunga mensola fa da comodino, partendo da un lato e arrivando all’altro. Una struttura idiota, e inutile, che mi regala una craniata, data e presa con tutta la forza che gli addominali hanno messo in campo per mettermi seduto. È così che inizia questa giornata: con un incubo, un urlo, un dolore fortissimo alla testa e una conseguente bestemmia gri18

data a squarciagola di proposito, sperando che possa giungere alle orecchie del direttore di questo albergo di merda che tiene padri pii e cristi in croce appesi ovunque. Poi il solito peso in mezzo al petto, quello che mi dice ciao per primo la mattina quando mi sveglio. Lo stesso che ogni tanto, la sera, solo su un divano davanti a un qualsiasi televisore, scambio per una malattia mortale e incurabile, lenendo così il mio cuore sofferente con un po’ di sana e familiare ipocondria. Quel peso che a volte si trasforma in vero e proprio dolore e non mi fa pensare, o respirare o, quando è davvero forte, neanche piangere.

Lei mi odiava quando mi svegliavo così, incazzato senza motivo, e forse aveva ragione, ma il malumore è il sentimento che conosco meglio da sempre, fin da quando ero bambino, ed è la condizione che più mi rassicura e mi fa sentire a casa: fa schifo ma è così. E la mattina, appena sveglio, è sempre il momento peggiore della giornata. Anche senza farsi male alla testa, intendo. Mi impegno, ci provo: la sera, prima di dormire, quando magari sono di buonumore, o almeno trattabile, mi ripropongo di conservarlo, di stare attento, di essere contento anche solo del semplice fatto di svegliarmi. Ma c’è sempre un qualcos’altro, ancora prima di aprire gli occhi la mattina, che non mi lascia apprezzare queste cose. Lei invece si alzava sempre contenta, felice direi, almeno finché non incontrava il mio sguardo nero o triste o preoccupato o ansioso o lamentoso a rovinarle l’incipit della giornata, magari in bagno mentre ci lavavamo i denti, se aveva avuto la fortuna di non accorgersene a letto, dopo il bacio del buongiorno. Poi non ha retto più. Come biasimarla. Nessun bacio adesso, e nessun buongiorno.

Dal frigobar spento della stanza, prendo una bottiglia di Perrier, ovviamente calda, e la appoggio sulla fronte dolente, 19

con la pia illusione che qualche residuo di freschezza giovi al mio bernoccolo. Vado in bagno, apro l’acqua, prendo lo spazzolino e lo riempio di dentifricio, tutto senza guardare lo specchio; evitandolo accuratamente. Ci provo tutte le mattine, ma non ci riesco mai: tutte le volte mi ritrovo col braccio a mezz’aria a guardare la mia figura riflessa, le occhiaie profonde di un colore simile al viola a circondare i miei occhi, che hanno gli angoli esterni tirati sempre più in giù, favorendo quell’espressione che a Lei ricordava quella di un cane abbandonato. Ho le prime rughe intorno a quegli angoli e sugli zigomi, e una barba incolta che non nasconde la magrezza del mio viso che mostra qualche pelo bianco. Seguono le spalle, alle quali sono attaccate due braccia che non riconosco: magre e sottili, come quelle di un bambino di un metro e novanta. Poi il petto incavato e la bocca dello stomaco spalancata, a tenere aperto il costato nel quale si possono distintamente contare le costole. Come un automa, comincio a spazzolarmi i denti, senza smettere di osservarmi. Chi è quello lì? Cos’ha? Sembra malato. Sto per iniziare ad autocommiserarmi sul serio quando, dalla stanza, sento suonare il cellulare, rimasto sul comodino a mo’ di sveglia. Mi fiondo a rispondere con la bocca piena di schiuma e con il solito tuffo al cuore di tutte le volte: anche se Lei ha una suoneria dedicata, che non è quella che mi sta martellando i timpani adesso, c’è sempre la possibilità che chiami da qualche altro apparecchio, oppure che il mio cellulare all’improvviso si sia dimenticato di quel trillare che non sento da due mesi e che ogni tanto riascolto giusto per ricordarmi com’era il suono delle sue chiamate.

Invece è mia madre. Da qualche tempo ha preso a telefonarmi sei, sette volte al giorno, per farmi sempre la stessa domanda, la più difficile del mondo: come stai? Rispondo 20

dicendole che non sto bene, che ho avuto un incubo e che in più ho appena dato una craniata a una mensola per colpa di un direttore beota e fondamentalista, al quale dedico una seconda bestemmia. Adoro bestemmiare davanti a mia madre. So che le dà fastidio, so che pregherà per me anche per questa bestemmia e allora lo faccio apposta, forse perché le preghiere, se sono per me, sono ben accette. Ma non ha telefonato solo per chiedermi come va, vuole essere la prima a darmi una notizia, anzi vuole che la legga proprio io, da solo: «Amore, lascia stare la madonna e apri repubblica.it: è successo qualcosa che forse ti farà venire voglia di passare a trovarci e di farti un fine settimana a Palermo. Sono due anni che non ci vieni».

Palermo. Ho smesso di andarci pure per le feste comandate perché ogni volta mi veniva di tutto, l’ultima una febbre a quaranta e una specie di paresi della spalla destra. Ma Palermo non mi molla: sta sempre là, pronta a mordermi sul collo appena mi distraggo un attimo, e mi si rovescia addosso tutta insieme come un temporale estivo non appena, seguendo svogliatamente le indicazioni di mia madre, apro repubblica.it e un articolo mi salta subito agli occhi: «Muore in carcere il mafioso Salvo Riccobono. Riccobono, 65 anni, non ha retto al terzo infarto in dieci anni, dopo che il giudice aveva di recente rigettato un’istanza di scarcerazione presentata dai suoi legali per gravi motivi di salute. Muore portando con sé i segreti che non ha mai voluto svelare (segue all’interno)».

Mi giro, vedo un quadro di padre Pio appeso al muro, lo prendo e, senza pensare, lo scaglio sulla parete lacerata fra le due finestre.

21