UNO
Sarajevo, primi giorni di maggio 1943 – Lunedì Per l’ennesima volta, Reinhardt si svegliò di soprassalto, sgusciando via da quel sogno, dall’incubo di un campo d’inverno, di quella risacca di fumo e nebbia che si levava indolente sul terreno irregolare, dei condannati a morte adunati in una fila scomposta, dei bambini che gridavano. Fece scivolare i piedi a terra e si sedette sul bordo del letto, la schiena curva, la testa stretta fra le mani ad ascoltare i richiami alla preghiera che, come voci sole, echeggiavano dai minareti mentre il sole sorgeva lento sulla valle della Miljacˇka. Una coltre di stanchezza gli velava gli occhi, e lui, il cranio sferzato da una fitta di dolore e nello stomaco una turbolenza acida, guardava senza vederla la luce farsi strada nella stanza, mentre ancora si dibatteva per liberarsi dalla morsa di quel sogno. Sussultò quando le sue narici catturarono l’odore di fumo – una ferita bruciante si aprì subito nella sua memoria – e lo ributtarono fuori un istante dopo. Nient’altro che un ricordo, eppure un chiaro segnale che i suoi tormenti più intimi stavano ormai marciando decisi dentro la sua vita cosciente. Si domandò se stesse diventando pazzo. Accese una sigaretta con dita tremanti. Aspirò profondamente, girò la testa di lato, poi la abbandonò all’indietro mentre vuotava le guance panciute di fumo, con le palpebre serrate e il doposbornia che cominciava a farsi sentire. Una densa nube di fumo si levò in aria, disperdendosi sopra di lui. 15
Reinhardt la osservò per un secondo, poi lasciò ricadere la testa contro il pugno che avvolgeva la sigaretta come fosse una gabbia. Si passò delicatamente un polpastrello sulla tempia, soffermandosi su un livido sottopelle, là dove la notte prima, prima di perdere i sensi, il peso della sua pistola si era fatto sempre più schiacciante. Qualcuno bussò facendolo trasalire, strappandolo al magma dei suoi pensieri. Bussarono di nuovo, poi udì chiamare il suo nome, smorzato dalla porta. Aiutandosi con una mano sul comodino, si sollevò senza far rumore, ma il suo braccio era ancora pesante e intorpidito dalla notte precedente, e così finì per cedere, scivolare e urtare la pistola che andò a sbattere contro bottiglie e bicchieri facendo un gran fracasso. Reinhardt guardò con aria colpevole l’altro capo della stanza, piombando in un silenzio improvviso. Ecco giungere altri colpi, stavolta più impietosi. Lui spense la sigaretta, soffocando il mozzicone in un rantolo di cenere; si appoggiò alla parete per reggersi meglio, mentre il ginocchio sinistro faceva il suo solito scatto; infine, cominciò a muoversi lentamente lungo il bordo del letto. Posò entrambi i palmi ai lati della porta, inspirò, roteò il capo per sgranchirsi il collo sentendo una fitta saettargli nella testa come una biglia di metallo in una scodella, e si accarezzò il livido sulla tempia. Poi fece un altro bel respiro, prima di tirare il chiavistello e spalancare la porta. Un soldato stava piantato sulla soglia, il pugno alzato pronto a bussare di nuovo. Occhi vitrei lo scrutarono da sotto la visiera di un berretto militare tedesco, mentre spalle possenti erano fregiate da mostrine da sergente. Seguì un attimo di silenzio in cui Reinhardt realizzò di essere tutto fuorché un bello spettacolo, con i capelli scarmigliati, la camicia stropicciata fuori dai pantaloni, e ai piedi solo un paio di calzini. «Capitano Reinhardt?» Lui lo fissò riconoscendolo a stento, mentre il dolore 16
cominciava a pulsargli dietro gli occhi. «Sa fin troppo bene chi sono.» L’uomo fece battere i tacchi e salutò. «Sergente Claussen, signore. Ho l’ordine di riferirle di recarsi a rapporto dal maggiore Freilinger immediatamente.» Quel tale aveva l’aspetto di un macigno, basso e tozzo, con l’uniforme ben tesa a fasciargli il petto e l’addome. Reinhardt lo guardò. «Il maggiore Freilinger?» gracchiò. Poi tossì, deglutì e cercò di fare di meglio. «Freilinger? Che cosa vuole?» «C’è stato un omicidio, signore», rispose Claussen. «Un omicidio?» Reinhardt si passò una mano dietro il collo per massaggiarselo, poi girò la testa prima da un lato e poi dall’altro. Al sospetto di aver visto lo sguardo di Claussen posarsi sull’ematoma che con ogni probabilità faceva ormai capolino dalla sua tempia, drizzò fieramente la schiena. «E da quando la cosa riguarda noi? Se non sbaglio, la città può ancora contare su una forza di polizia.» «Il maggiore Freilinger mi ha dato ordine di riferirle che una delle vittime è un nostro uomo dei servizi segreti. Il tenente Hendel, un ufficiale dell’Abwehr.» «Stefan Hendel? Freilinger ha detto che era un membro dell’Abwehr?» Claussen annuì. «Molto bene. Mi dia solo dieci minuti.» «Sì, signore. Dieci minuti.» Claussen era un sottufficiale più che navigato, come dimostravano i quattro nastrini verdi da sergente maggiore cuciti sulla sua spalla, e un buon sottufficiale sapeva sempre come rivolgersi a un ufficiale di grado superiore con parole che suonassero rispettose ma imperative. Reinhardt arrossì ancora al pensiero del proprio aspetto, poi agguantò un asciugamano, l’astuccio da toeletta, e come una furia lasciò la stanza diretto al bagno in fondo al corridoio. Si chinò su uno dei lavandini, sentendo attorcigliarsi le 17
budella. Ebbe un conato di vomito, la testa cominciò a pulsargli mentre lui si contorceva dal dolore, ma come ogni volta nella sua gola non giunse nient’altro se non un retrogusto dolciastro di bile, quasi come uno strascico viscoso della sua vita professionale e privata. Alla fine, lo stomaco si placò, e lui, scosso dai tremori, rimase curvo sul lavandino mentre il terremoto nella sua testa scemava in un lieve dolore che andò a rannicchiarsi sulla sommità del cranio. Si mise le mani sul viso, strofinandosi gli occhi contro la base dei palmi. L’ennesima notte passata praticamente in bianco, e quel poco di sonno che era riuscito a raggranellare non lo aveva certo rinfrancato. L’ennesima notte trascorsa nelle celle sotto la prigione, occhi negli occhi con i prigionieri di guerra dentro stanze spoglie e illuminate da luci asettiche. L’ennesima notte spesa a ricostruire l’enigma che ognuno di quegli uomini rappresentava, a mettere insieme dati e informazioni riservate estorte nell’arco di una dozzina di interrogatori avvenuti nei giorni e nelle notti prima, che fosse lì o altrove. Norvegesi, francesi, inglesi, australiani, arabi… e adesso jugoslavi. Erano tutti partigiani, e tutti – dal primo all’ultimo – gli erano sfilati davanti sin dall’inizio delle ostilità. Le tubature sussultarono, poi rigurgitarono un getto d’acqua sulla ceramica sbreccata del lavandino. Lui ingoiò un paio di aspirine, accompagnandole con più acqua possibile, poi si sbarbò con cura, lo sguardo sfocato sul proprio riflesso allo specchio. Solo al momento di sciacquarsi il viso, si concesse di guardarsi. Ciò che vide non tradiva appieno tutto il suo malessere. Gli occhi infossati di un blu profondo, le guance scarne sopra la linea sottile delle labbra, i capelli castani rasati corti e ingrigiti sulle tempie. Una faccia come tante. Di quelle che, come piaceva sempre dire al suo vecchio istruttore di polizia, sarebbe subito caduta nel dimenticatoio in un gruppo di tre uomini. 18
S’inumidì i capelli arruffati per ravviarli con il pettine, poi si spruzzò un po’ di colonia sul viso e abbondante acqua sotto le ascelle. Era pronto. Gettò un’ultima occhiata allo specchio, asciugando il vapore con la mano per potersi scrutare impietosamente. «Meglio che niente», biascicò fra sé spegnendo la luce e rincamminandosi verso la sua stanza. Dopo aver sbattuto la porta in faccia a Claussen, lasciò cadere a terra i pantaloni, che subito gli circondarono le caviglie come una pozzanghera; poi si tolse la camicia e spedì mutande e calzini dritti nel mucchio sul pavimento. Fuori, il richiamo dei muezzin si affievoliva lungo la valle che, ai piedi dei propri pendii, cullava la città di Sarajevo. Solo allora, quasi a voler colmare il silenzio, le campane di Sant’Antonio che svettavano alle spalle della caserma cominciarono a rintoccare. Dall’esterno proveniva lo stridio dei tram che, svoltato l’angolo, sferragliavano dalla Vijecˇnica verso il Municipio. Reinhardt torse le spalle per infilarsi le bretelle, poi si sedette per calzare gli stivali, fermandosi per un solo istante a guardare la foto di colei che era stata sua moglie dentro la cornice d’argento che teneva sul comodino, sfiorando il vetro con un’unghia per toccarle una ciocca di capelli. Ripose delicatamente la foto in un cassetto e caricò l’orologio, nient’altro che un Phenix da quattro soldi, sebbene ogni santa volta gli riportasse alla mente l’altro che, per ragioni di sicurezza, aveva lasciato nelle mani di Meissner a Berlino. Un orologio da taschino massiccio e dall’aria antiquata, realizzato dalla Manifattura Williamson in Inghilterra; recava un’incisione sulla cassa d’argento e con essa il ricordo, più vivido che mai, di quando Reinhardt ci si imbatté. Le medaglie e il metallo risuonarono in un monotono tintinnio quando lui si strinse nella giacca e cominciò ad abbottonarla con movimenti decisi, senza distogliere lo sguardo dalla finestra, senza smettere di pensare alla giornata che lo 19
attendeva, ancora incerto su come l’avrebbe affrontata. Un passo alla volta, questo lo sapeva. Poi un altro, e un altro ancora. Testa bassa, spalle curve, lo sguardo che non va mai oltre un paio di metri davanti a sé, un lento avanzare finché non giunge la sera. Si allacciò un’altra cintura di pelle attorno alla vita, recuperò il cappello da un gancio appeso al muro e la pistola sul tavolo, lasciandola scivolare nella fondina con un sordo fruscio di ferro e cuoio. Un’occhiata al piccolo specchio posto dietro la porta lo aiutò a sistemarsi il cappello a dovere, poi Reinhardt si cacciò in tasca un pacchetto di Atikah e una manciata di fiammiferi, e finalmente uscì. «Andiamo», disse, chiudendo la porta alle sue spalle. Claussen drizzò la schiena, facendo correre ripetutamente lo sguardo dal viso di Reinhardt alla Croce di Ferro appuntata alla sinistra della sua giacca. Quegli occhi, alla vista di un capitano decorato dell’Abwehr dietro cui solo un attimo prima si era inabissato un uomo seminudo e mezzo sbronzo, lasciarono scorgere un certo smarrimento. Claussen lo precedette lungo le scale e attraverso il cortile centrale della caserma Bistrik, risalente alla prima occupazione austriaca della Bosnia agli sgoccioli del Diciannovesimo secolo. Raggiunsero una Kübelwagen dal tipico scafo allungato, dove un soldato li attendeva fumando una sigaretta. Questi si liberò in fretta del mozzicone e salutò Reinhardt, lo sguardo oltre la spalla sinistra del capitano. «Caporale Hueber a rapporto, capitano», disse alla svelta. Era un uomo alto e asciutto, con le guance martoriate dall’acne. «Hueber è il nostro esperto serbo-croato», precisò Claussen mentre gli spalancava la portiera. «Il maggiore Freilinger ha ordinato di portare con noi un traduttore, nel caso i nostri amici croati decidessero di scordarsi come si parla tedesco.» «A riposo, caporale», disse Reinhardt. «Lei conosce la lingua?» Lui stesso era riuscito a imparare qualcosa nell’arco della sua duplice permanenza in Jugoslavia. Non un granché, ma 20
più che abbastanza per afferrare il succo di una conversazione, ordinare da bere e decifrare i titoli di quelli che venivano spacciati come giornali. Sfilò una sigaretta dal pacchetto e se la portò alle labbra. «Sì, signore. La famiglia di mia madre era originaria di Zagabria.» «Salti su, allora», fece lui, sistemandosi sul sedile. Gli altri due montarono a bordo e Claussen ingranò la prima con una grattata, poi sterzò oltre le sentinelle rintanate nei loro gabbiotti a righe e fin sulla strada. Reinhardt piantò le spalle contro il bordo della portiera e posò un braccio lungo la barra centrale che correva dietro ai sedili anteriori, la mano sulla rastrelliera per le armi, adesso vuota. Ricordandosi della sigaretta ancora penzoloni dalla sua bocca, la accese, fece un tiro profondo e subito buttò fuori il fumo, poi, dopo un attimo di esitazione, ne offrì una anche a Claussen e Hueber. Il primo guidò sul Ponte Latino verso Kvaternik Street, vale a dire il vecchio lungofiume, poi si accodò ai tram che filavano in direzione della Vijecˇnica. Oltrepassarono il quartiere orientale di Bentbaša, con il suo dedalo caotico di vicoli acciottolati e sconnessi e le tradizionali case ottomane dalle pareti bianche e i tetti rossi, per poi addentrarsi nuovamente nella città, costeggiando la Bašcˇaršija e i caffè che ne costellavano l’ampio spiazzo pavimentato. Sebbene a quell’ora del mattino l’aria fosse frizzante e ancora velata dall’odore di carbone e fumo di legna, il cielo cristallino teneva in serbo la promessa di un’altra giornata di caldo torrido. Le candide mura dell’antica fortezza ottomana, appollaiata in cima alla collina di Vratnik a debita distanza da quell’accozzaglia di tetti e minareti, se ne stavano a contemplare la città con sguardo assente. «Che altro le ha detto Freilinger?» domandò Reinhardt, mentre Claussen accelerava giù per King Aleksander Street. Per volere dello Stato Indipendente di Croazia, vale a dire 21
gli ultimi padri padroni della città, la via aveva preso il nome del dittatore Ante Pavelic´, in sostanza la loro nazionalissima versione del Führer, sebbene tutti, potenti inclusi, continuassero a chiamarla come prima. Giunti a un incrocio, videro alcuni agenti ustascia – fascisti croati in uniforme nera con i fucili a tracolla sulla schiena – che strappavano manifesti del Partito Comunista comparsi presumibilmente durante la notte. Le mura che fiancheggiavano entrambi i lati della strada erano ricoperte di brandelli di carta bianca laddove prima campeggiavano dozzine e dozzine di quelle affissioni. Altri ustascia tenevano a tiro un capannello di uomini inginocchiati sull’asfalto con le mani sulla testa. A terra, due corpi esanimi. Claussen strizzò gli occhi, semiaccecato dal fumo di sigaretta che, salendo in lente spirali, gli offuscava la vista, poi rallentò la macchina su un tratto dissestato di strada. «Il maggiore ha riferito soltanto che gli omicidi si sono verificati presso un indirizzo a Ilidža.» «Ilidža?» fece Reinhardt. «Bella rogna dover guidare fin lì. E poi ho bisogno di mangiare qualcosa.» Lanciò una rapida occhiata alla strada, poi fece cenno a Claussen di accostare mentre lui scendeva al volo per comprare i tradizionali burek da un ambulante che spingeva un carretto a mano, vestito con un panciotto rosso e un paio di pantaloni neri di una taglia di troppo. L’uomo rimase a testa bassa, e il suo sguardo gli scivolò addosso ma si dileguò subito altrove, quasi che Reinhardt non esistesse, sebbene lui ormai ci avesse fatto il callo. La sfoglia era calda, soffice, dal sapore al tempo stesso dolce e salato, mentre lui ci affondava i denti guardando la città sfilare fuori dal finestrino. Ecco le rovine della sinagoga sefardita e le arcate gialle del mercato cittadino, le facciate stile Impero del quartiere Marijin Dvor e il vecchio Palazzo del governo che adesso accoglieva gli uffici dello Stato 22
Maggiore; ecco la fabbrica di tabacco, la sagoma bianca del Museo Nazionale e il lungo perimetro di muro che celava la caserma Kosevo Polje. Solo allora si lasciarono il cuore di Sarajevo alle spalle per dirigersi a ovest, mentre la valle della Miljacˇka gli si parava davanti affollando l’orizzonte. Qui abbondava tutto lo spazio che, fra i vicoli ritorti della città, sembrava puntualmente mancare. Frutteti e campi coltivati si dispiegavano ai margini della strada nella forma di geometrie allungate, mentre tutt’attorno la campagna ondeggiante era disseminata dei tetti a quattro falde tipici delle case tradizionali. Lungo il vecchio sentiero austriaco si avvicendavano carri trainati da cavalli e da asini, pecore, capre, artigiani, contadini, e poi donne che, in gruppetti di due o di tre e velate fino alle caviglie, distoglievano prontamente lo sguardo al passaggio dell’auto. Al capo opposto della strada sorgeva la stazione termale di Ilidža, accoccolata ai piedi della pancia boscosa del monte Igman a mo’ di contraltare meno dispersivo ma più lindo e arioso della città che gli giaceva alle spalle, stipata senza criterio sui pendii delle montagne che delimitavano l’estremità orientale della valle. Il tragitto era piuttosto lungo e, nonostante l’impegno degli ingegneri, il manto stradale non riusciva a far fronte al costante martellare del traffico militare. Claussen fu costretto a rallentare, frenare e sterzare bruscamente per evitare solchi e buche in continuazione, eppure Reinhardt trovò il tempo di pensare, di riprendersi dal torpore della sbronza, e pure di covare un principio di vergogna per se stesso. Senza accorgersene, si ritrovò a sfiorarsi con le dita il punto esatto della testa contro cui la pistola aveva premuto, mentre il senso di vuoto che ogni notte lottava per eludere tornava a inquinargli la mente. Si sforzò di contenerlo, ricacciarlo al suo posto, ma ormai era dura impedire alla depressione e all’angoscia che lo aggredivano al calare della sera di tendergli tranelli anche durante il giorno. Intercettando ancora una volta lo sguardo 23
di Claussen su di sé con la coda dell’occhio, serrò stretto il pugno destro, tenendolo immobile sulla gamba. Cercò di concentrarsi sulla vittima, Hendel. Era di stanza a Sarajevo da circa tre mesi. Prima di allora, aveva servito l’Abwehr a Belgrado. Lì si occupava di sicurezza interna, e precedentemente aveva operato nel reparto tecnico, lavorando su radio, macchine fotografiche e attrezzatura del genere. Se la memoria non lo ingannava, se la cavava abbastanza bene con la lingua. Aveva un debole per le donne e, finito il turno, non perdeva mai un minuto e si precipitava in città. Questo era all’incirca tutto quello che poteva affermare di sapere su di lui. Non potendo parlare apertamente con nessuno dei suoi due compagni di viaggio sulle eventuali missioni di Hendel in quel momento, si limitò ad abbandonare la testa all’indietro e chiudere gli occhi. Complice il ronzio dell’auto, dovette essersi appisolato perché fu Claussen a svegliarlo una volta arrivati a destinazione. Reinhardt si sentiva la bocca impastata, ma ciò non toglieva che i pochi minuti di sonno che era riuscito a rubare lo avessero rimesso al mondo. Claussen voltò a sinistra all’incrocio antistante l’hotel Igman, altro esempio di architettura neo-moresca retaggio del passaggio austriaco, e proseguì verso sud. Superarono i due alberghi gemelli, l’Austria e l’Ungheria, i quali sorgevano faccia a faccia ai lati opposti di un’ampia distesa di prato rotondeggiante da cui un vecchio giardiniere con indosso un fez bianco li inseguì con lo sguardo. Lungo il viale che conduceva all’hotel Austria, erano parcheggiate parecchie vetture di rappresentanza con tanto di bandierine sul cofano; erano tirate a lucido, grandi come transatlantici e scortate da soldati in motocicletta. Non appena svoltato l’angolo, Claussen imboccò un viale sterminato che risaliva fino alla sorgente del fiume Bosna ed era fiancheggiato su ambo i lati da filari di platani ed enormi ville lussuose inscritte dentro anelli di prato. Più avanti, sulla sinistra, c’erano alcune 24
auto ferme tra gli alberi o sul ciglio della strada. Un agente gli andò incontro mentre loro si avvicinavano. «Gli dica che siamo qui per incontrare il maggiore Freilinger», ordinò Reinhardt a Hueber. Il caporale si sporse in avanti sul sedile e riferì al poliziotto, che subito fece il saluto militare e gli indicò di proseguire. Claussen accostò dietro una Mercedes che portava una targa dell’esercito, oltre la quale sostavano un paio di Volkswagen della polizia locale e un’ambulanza con l’autista ancora seduto al suo posto. «Vado a cercare Freilinger», disse Reinhardt a Claussen. «Lei porti con sé Hueber e veda di capire chi comanda qui, o quale unità abbia risposto per prima. Si faccia dire tutto quello che sanno.» «Signore», assentì Claussen. «Caporale, con me.» Reinhardt varcò l’ingresso della cancellata in ferro battuto che cingeva la casa. In stile Impero, si sviluppava su due piani ed era stata dipinta in color crema. Su un lato, la porta spalancata del garage lasciava intravedere un’auto sportiva bianca. Qualcuno aveva addossato un sidecar con targa militare tedesca al muro sulla destra della porta d’ingresso, presidiato in quel frangente da un poliziotto vistosamente incerto se lasciar passare Reinhardt o no. Lui lo fissò dritto negli occhi e gli rifilò un cenno del capo mentre gli passava accanto rapidamente per entrare in casa, ignorandolo con indifferenza ma al tempo stesso sentendo la schiena irrigidirglisi di colpo, come per una botta improvvisa. Rimase immobile per un istante, immerso nella luce che disegnava la sagoma della sua ombra. Il corridoio, a confronto del cielo terso là fuori, gli pareva offuscato e così lasciò ai suoi occhi il tempo di adattarvisi, approfittandone anche per sfilarsi il cappello. In fondo, una scalinata si torceva conducendo al primo piano; tutte le porte che affacciavano su entrambi i lati del corridoio erano aperte, e le pareti erano tappezzate di foto incorniciate. Da un punto imprecisato sul 25
retro della casa, Reinhardt poté udire un tintinnio di porcellane accompagnato dai singhiozzi di una donna. Il legno dei gradini scricchiolò sotto il suo peso, mentre il vociare indistinto al piano di sopra si faceva sempre più nitido. Giunto quasi all’ultimo scalino, Reinhardt si concesse un profondo respiro, e fu allora che la sentì, una morsa che gli strangolò la gola proprio mentre il lezzo della putrefazione andava a trafiggergli le narici. Respirando lentamente, Reinhardt si mise il cappello sotto il braccio e guadagnò la cima della scalinata. Questa si apriva su un salotto sfarzosamente arredato, dove un divano e delle poltrone di pelle marrone scuro formavano un circolo sotto un lampadario di vetro blu satinato. Su un tavolino basso che stazionava sopra un tappeto dall’aria orientaleggiante, qualcuno aveva lasciato un paio di bicchieri e una bottiglia di brandy francese. Due porte davano accesso alla stanza, una a destra e l’altra a sinistra; sia sotto che in mezzo alle alte vetrate che corredavano le pareti antistanti, si susseguiva una fila di tavoli e mobiletti in legno scuro, mentre un orologio scandiva flebilmente il tempo da sopra la mensola di marmo del caminetto su cui imperava un enorme specchio dal bordo dorato e finemente lavorato. Accanto, c’era il ritratto di un uomo in uniforme nera, con la cornice listata a lutto nell’angolo in basso a destra. Dei tanti tappeti orientali che giacevano sparsi per il salone, alcuni erano sgualciti e macchiati dell’alcol uscito dalle bottiglie che si erano schiantate sul pavimento cadendo dall’armadietto dei liquori, a sua volta ribaltato su una distesa di frammenti di vetro. Anche una lampada era finita a terra, come pure gli attizzatoi gettati alla rinfusa nei pressi del camino. Una delle poltrone in pelle era storta, così da rompere la fila con le altre, e ovunque, persistente e inadeguato a un ambiente tanto lussuoso e ricercato, si annidava l’odore della morte. Hendel giaceva senza vita subito alla destra delle scale; se 26
ne stava adagiato contro il muro, con il busto in posizione parzialmente eretta. Schizzi di sangue e di un liquido più scuro si erano rappresi lungo la parete dietro la sua testa. Gli avevano sparato proprio sotto la radice del naso e, a giudicare dalle bruciature attorno alla ferita, l’arma era stata a diretto contatto con la pelle. D’impulso, la mano destra di Reinhardt si levò verso la tempia e il segno che la sua stessa pistola vi aveva impresso, gesto che lui riuscì a camuffare aggiustandosi meglio il cappello sotto l’altro braccio. Anche la parete accanto alla porta di sinistra era imbrattata di sangue, ed è lì che poté scorgere Freilinger, in piedi accanto a un omone goffamente infilato in un completo scuro della taglia sbagliata, entrambi con lo sguardo rivolto verso la stanza affianco, dove sembrava regnare una gran luce. Freilinger si voltò e intravide Reinhardt in corridoio. La testa del maggiore, una chioma di capelli argento, pareva quasi brillare in quella luce accecante. Non appena i loro occhi s’incontrarono, Reinhardt soffocò un sussulto scatenato da una traccia di fumo, che si dissolse tanto in fretta quanto si era insinuata nelle sue narici. Avanzò nel salotto, deglutendo a fatica e lanciando occhiate a destra e a sinistra, mentre il parquet strideva a ogni suo passo. Quando i suoi piedi calpestarono del vetro, lui abbassò lo sguardo su ciò che rimaneva di una bottiglia andata in pezzi, una mezzaluna con sopra un’etichetta Hennessey color nero e oro, che tanto ricordava il resto di un relitto finito alla deriva sul pavimento. Freilinger e l’altro tizio si scansarono dalla porta, guidando Reinhardt verso il camino incastonato fra le due alte finestre. Lui sbirciò furtivamente nella stanza sulla sinistra, intravedendo un enorme letto a baldacchino drappeggiato di seta e il pavimento di legno scuro. Poi, mettendosi sull’attenti, si rivolse ai due uomini. «Reinhardt a rapporto, maggiore.» «Le presento l’ispettore capo Putkovic´, della polizia di Sara27
jevo. Abbiamo un problema, Reinhardt», proseguì Freilinger, tagliando corto com’era sua abitudine. Fin dal principio il maggiore aveva preferito mantenersi a debita distanza da lui, nonostante l’amicizia in comune con Meissner sin dai tempi della Grande Guerra. «Duplice omicidio, in uno dei quali è coinvolto un ufficiale dell’esercito. O meglio, un ufficiale dei servizi segreti.» Parlava sottovoce, con il tono reso gutturale da un velo di raucedine retaggio di un attacco con i gas a opera degli inglesi durante la Prima guerra mondiale. Il solo fatto di parlare gli faceva vedere le stelle. «Questo comporta una serie di noie giurisdizionali, ma ritengo che l’ispettore e io siamo riusciti a strappare un accordo più che accettabile.» A dire il vero, l’ispettore in questione non pareva affatto dello stesso parere. Aveva una corporatura possente che, a quanto sembrava, era una prerogativa di molti, troppi uomini nei Balcani. Uno sposalizio fra ossa grandi e grasso in abbondanza. Il ventre gli ricadeva floscio sopra la cintura, e i suoi pugni, simili a prosciutti, esibivano nocche vistosamente ammaccate. Il viso, dai tratti porcini, ospitava occhi inespressivi che ricordavano la forma di un’incudine, mentre il suo odore era un misto di alcol e sudore. «Non c’è bisogno di coinvolgere i tedeschi. Possono occuparsene i miei uomini.» Parlava un tedesco dignitoso, sebbene pesantemente accentato, e nonostante si rivolgesse a Freilinger, è Reinhardt che trafisse con lo sguardo. «Siamo professionisti.» «Francamente, la faccenda non mi interessa, e sono stanco di doverlo ripetere», gracchiò il primo. La faccia di Putkovic´ si fece paonazza per la rabbia. «Esistono accordi e procedure che regolano questo genere di situazioni. Non mi importa chi sia la ragazza morta. Ma con lei c’è il cadavere di un ufficiale tedesco, e per come la vedo io le due cose sono palesemente collegate, per quanto a lei farebbe più comodo il contrario. Lavorerà al fianco del capitano Reinhardt, il quale, le ricordo, ha alle spalle quasi vent’anni di esperienza come detective nella 28
Kriminalpolizei. Squadra omicidi e crimine organizzato.» Fece una pausa per riprendere fiato, levando subito una mano per frenare l’ennesima protesta del croato. «Lei gli fornirà qualunque assistenza si renderà necessaria, ma qualora avesse ancora qualcosa da ridire, riferisca pure al suo comandante di vedersela col generale. In caso contrario, discorso chiuso.» Putkovic´ serrò la mascella. Poi, spingendo fieramente il mento in avanti, annuì e si diresse verso le scale; le sue suole si abbatterono rumorosamente sui gradini, mentre lui gridava qualcosa a chissà chi e usciva. Freilinger si lasciò andare a un sospiro, poi scosse la testa e appoggiò una mano alla mensola del camino. «Dio mio, che strazio.» Sollevò lo sguardo su Reinhardt. Era un uomo minuto, asciutto, con un paio di penetranti occhi azzurri e la pelle resa ruvida e rugosa da una vita passata sotto le armi. «Non l’ho certo invitata a una scampagnata nel bosco, Reinhardt.» «No, signore.» «Su che cosa stava lavorando?» «Terzo giro di interrogatori agli ufficiali partigiani catturati durante l’Operazione Weiss.» «Ancora?» «Questo è il mio modo di procedere, signore», rispose, sperando come ogni santa volta di non sembrare troppo sulla difensiva. Freilinger piantò lo sguardo sul tappeto. «Molto bene», disse. «Passi pure tutto alle autorità del campo.» «Il mio compito lì non è ancora finito, signore.» «Lo è da questo momento. Non le rimarrebbe un solo minuto da dedicarci, in ogni caso.» Ciò detto, alzò gli occhi e li fece saettare per la stanza. «Se la voglio su questo caso è perché, visto che Hendel era uno dei nostri, ci toccherà seguire l’indagine passo dopo passo. Ho già messo Weninger e Maier a spulciare tutti i fascicoli che lo riguardano, non si sa mai che salti fuori una traccia che possa collegarlo alla 29
ragazza uccisa.» Si interruppe per tirare fuori dalla tasca una scatolina di mentine francesi – l’unico toccasana al mondo per la sua gola, così andava blaterando – e cacciarsene una in bocca. Per quanto ne sapesse Reinhardt, quell’uomo non peccava di altri vizi. «L’altra vittima si chiama Marija Vukic´.» Reinhardt sgranò gli occhi. «Le dice niente?» «Marija Vukic´? Sì, in effetti. L’ho persino conosciuta, una volta.» «Un incrocio fra Leni Riefenstahl e Marika Roekk?» Reinhardt rispose con un’alzata di spalle, facendo segno di sì. «Regista. Giornalista. Con le mani in pasta dappertutto e tanto di corpo da diva del cinema?» Reinhardt annuì ancora, ricordando come fosse ieri il loro unico incontro e quanto lui ne fosse rimasto colpito. «I croati vorrebbero vedersela a tu per tu con chiunque l’abbia ridotta così. Non sono sicuro che gli importi granché di Hendel, ma se potranno sfruttare la sua morte per metterci i bastoni fra le ruote, stia pur certo che non si faranno scappare l’occasione. Hanno già stilato una lista di possibili sospetti, tutte facce già viste, e scommetto che non se ne staranno a lungo con le mani in mano prima di cominciare a spaccare ossa giù al quartier generale della polizia.» «Capisco la fretta dei croati di incastrare il killer, ma mi sta forse dicendo che siamo tutti contro tutti nella caccia al colpevole?» «Forse sì, forse no. Forse Hendel è stato fatto fuori accidentalmente, e il vero bersaglio era soltanto la Vukic´. Ma guardando il lato positivo, Putkovic´ ha acconsentito a fare esaminare il cadavere dal loro medico legale. Questo ci farà guadagnare un po’ di tempo. Per allora ne sapremo di più.» «Sì, signore.» Reinhardt annuì, colto da un improvviso moto di apprensione. L’incavo alla base della sua schiena si era fatto madido di sudore. «Signore, ma non dovrebbe essere la polizia militare a occuparsene?» 30
Freilinger lo scrutò, roteando il mento mentre giocherellava con la mentina nella bocca e se la passava da una guancia all’altra. «Mi accerterò che la polizia militare sia informata della sua conduzione dell’indagine, e che lei possa contare sul loro sostegno incondizionato. Ho motivo di credere che ne abbiano già fin sopra ai capelli con l’avvio dell’Operazione Schwarz. Si spremeranno come limoni e daranno fondo a tutte le loro risorse per stanare i partigiani da quelle montagne e spazzarli via una volta per tutte. E poi ripeto, non dimentichiamoci che Hendel era uno dei nostri. Sta a noi sbrigarcela.» Tacque per un istante, portandosi le dita alla gola e massaggiandola con il pollice e l’indice. «Non so ancora chi le metterà alle calcagna la polizia, ma cerchi di essere civile, e soprattutto veda di fare in fretta.» Quando deglutì, la mentina finì per cozzargli contro i denti. «Tutti hanno smesso di fingere che la parola “indipendente” abbia ancora il minimo senso, quando si parla di Stato Indipendente di Croazia. Soprattutto adesso, dopo che quasi tutti i loro soldati con un briciolo di sale in zucca hanno perso la vita a Stalingrado.» Se mai colse il disagio di Reinhardt dinanzi a quelle parole, non si premurò di darlo a vedere. «I rapporti sono già tesi come corde di violino. Vediamo cosa ci aspetta se commetteremo uno scivolone.» «Farò del mio meglio, signore.» Freilinger chinò il capo in cenno di assenso. «Un’ultima cosa, signore. Lei sa, vero, che io non seguo un’indagine da più di quattro anni?» Il maggiore lo guardò dritto in volto, e i suoi occhi azzurri pari a schegge di vetro si accesero di un improvviso bagliore, come una fiamma che avvampasse in profondità, mentre l’odore di fumo tornava a pungolare il naso di Reinhardt. «Non ho altro da aggiungere, capitano. Claussen, l’uomo che le ho assegnato, è un agente dell’Abwehr, e con lui non avrà bisogno di tenere segreti. In passato, ha anche prestato servizio in polizia. È un uomo pieno di risorse, e anche se 31
adesso non la vede così, sarà contento di ritrovarsi con una faccia amica nei paraggi. Quanto a me, attendo un suo resoconto a fine giornata.» «Non sarebbe meglio aspettare l’uomo di Putkovic´ prima di cominciare?» L’altro si spostò alla finestra che affacciava sul vialetto, dove erano in corso dialoghi concitati. «Credo che il pupillo di Putkovic´ stia ricevendo istruzioni proprio adesso.» Reinhardt guardò in basso verso il monolitico detective che sbraitava ad alta voce con una manciata di poliziotti, di cui uno in giacca e cravatta. Putkovic´ cadenzava ogni singolo concetto sbattendo enfaticamente il pugno contro il palmo della mano, tanto che persino da lassù Reinhardt poteva udirne i colpi sordi e carnosi. Attorno a quel tizio, si ergeva come un perimetro invisibile in cui gli altri non avevano la minima intenzione, né forse potevano permettersi, di sconfinare, e c’era poco da sorprendersi, considerata la ferocia animale che trasudava da ogni suo poro. Freilinger scosse fermamente la testa. «Apra pure le danze. Ci sentiamo.» Detto questo, si eclissò. Una volta solo, Reinhardt posò le mani sulla mensola del caminetto e inspirò a fondo. Lasciò cadere la testa nello spazio vuoto fra le braccia, avvertendo uno strappo formicolargli in corrispondenza della nuca. Il suo mal di testa c’era ancora, un tormento incessante che gli martellava la base del cranio. Diede un’occhiata al ritratto. Un padre? Uno zio? Ancora un’ultima, avida boccata d’aria, poi entrò in camera da letto.
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