Viaggio al termine del cuore

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1 LUÍSA E PEDRO

Avevo nove anni quando lo vidi per la prima volta. Potrei dire che avevo sempre sognato un fratello, ma in realtà non mi era mai venuto in mente che i miei genitori volessero ripetere lo stesso errore. Li sentivo spesso urlare, nelle loro infinite discussioni notturne, che ero stata il più grande errore della loro vita. Che li avevo costretti a mettersi insieme e a rinunciare a tutto ciò che di bello avevano prima di me. Mi ero sempre considerata come un sinonimo delle cose brutte che gli erano successe. Perciò, non avevo mai osato sognare un mio doppione, convinta com’ero che avessero imparato abbastanza da quell’errore per non volerlo ripetere. Ma, evidentemente, mi sbagliavo. Mio padre e mia madre, che nella matematica della vita non sono mai stati bravi, pensarono che riprodurre la stessa ricetta li avrebbe salvati, li avrebbe redenti da tutti i passi falsi che avevano fatto verso l’abisso. Un figlio li aveva rovinati, un altro li avrebbe salvati. Perfino io, che di equazioni e probabilità non ne capivo nulla, sapevo che non sarebbe stata quella la soluzione. Ma loro ritennero di sì. Perciò, quando mi sporsi all’interno della culla trasparente nel reparto maternità e vidi per la prima volta quell’esserino rugoso e brutto, con i pugni serrati e lo sguardo nel nulla, l’unica cosa che gli chiesi con il pensiero fu: “Spero che tu


non sia uno di quelli che piangono. Papà non sopporta il pianto e mamma s’innervosisce quando sente un rumore più forte. È ormai da tempo che io ho imparato a non piangere, se vuoi, te lo insegno”. Per tutta risposta, quello sguardo sperduto e liquido si girò verso di me, come per osservarmi con sorprendente attenzione. E fu in quel preciso momento che mi convinsi che potevamo comunicare in silenzio. L’avere poi visto un programma sui gemelli, in cui una coppia di fratelli biondi e perfettamente identici provava i dolori, le gioie e i pericoli l’uno dell’altro, contribuì a darmi certezze praticamente assolute. La dimostrazione quasi scientifica che mi offriva ciò che vedevo in televisione mi convinse del tutto, ma quello sguardo smarrito che si fissò sulla mia immagine come se avesse trovato un centro e compreso ciò che gli avevo detto nel pensiero, era stata la conferma di cui avevo bisogno per non mettere mai più in discussione il nostro potere telepatico. Gli sfiorai con un dito timoroso la peluria che copriva la sua testolina e lui rabbrividì. Ero potente, io. Potente e immensa. Fu così che mi sentii quando lo vidi per la prima volta. Prima che la mia autocensura mi sussurrasse che le cose non stavano affatto in questo modo. Ero potente. Ero riuscita a farmi sentire da mio fratello senza dire una parola e lo avevo fatto rabbrividire semplicemente sfiorandolo. «Allora, è carino, no?» La voce di mia madre suonava stranamente tenera, mentre ci fissava. E io, trovando strano quel tono sdolcinato, ammutolii. «Sei sorda?! La mamma sta parlando con te!» La voce di mio padre, sempre la stessa, mi strappava dal torpore che sentivo e mi copriva di gelo e di paura. «Lasciala stare. Tante emozioni tutte insieme… Vieni qua, tesoro.» Ma le emozioni non c’entravano affatto. Era solo che non


riconoscevo il tono di mia madre. Mi avvicinai al letto regolabile e, sempre obbediente, mi affiancai a lei. Fu allora che mia madre si congedò, senza che potessi immaginare che era un congedo. Pensai che fosse un ciao, un finalmente, che bello vederti, invece no. Stava solo congedandosi da me. «Sai che ti vogliamo tanto bene, vero?» No, non lo sapevo che mi volevano bene, e men che meno tanto. Mi strinse a sé e mi avvolse in uno strano quanto imbarazzante abbraccio. Potei annusarla per la prima volta dopo tanto tempo e riuscii a riconoscere l’odore della sua pelle sudata, il tepore del suo petto, il respiro caldo sui miei capelli. Sembrava stringermi come se volesse recuperare qualcosa che aveva perduto, e io mi calmai, facendo finta di non essere io lì, tra le braccia forti e fragili di quella donna. Rimasi inerte, con il corpo che non sapeva come reagire, la testa che voleva svuotarsi e falliva miseramente. Mi ritrovai a fingere che non appartenevo a nessuno e a nessun luogo. Che ero solo io a possedere la chiave dei miei giorni. Mi sentivo completamente sola e serena, avvolta in quell’abbraccio. Come se niente potesse toccarmi eccetto il corpo di mia madre. Fu una sensazione bella e, come tutte le sensazioni belle, durò appena il tempo necessario perché potessi sfiorarla lievemente. «Ora basta! Che ti è preso? Non vedi che alla piccola non piacciono le tue smancerie?» Riuscii a sentire l’alito di birra arrivarmi addosso dall’altro lato della camera. “Stai zitto, non mi costringere a uscire, chiudi quella bocca, stupido che non sei altro, imbecille. Stai zitto, lasciami stare, lasciami stare!” Il mio pensiero volava, ribellandosi contro la voce di quell’uomo che rovinava sempre tutto, mentre mi lasciavo andare dentro quella campana di pace, come un naufrago disperato che si afferra a un fragile pezzo di legno per sopravvivere.


«Mi ascolti? Lasciala andare, deve tornare a casa, sarà ridotta un porcile, con te che stai qui. E non hai detto che bisognava andare in farmacia?!» E fu allora che lo sentii piangere per la prima volta. Un pianto deciso e cristallino, di chi sa esattamente cosa vuole, come se urlasse la sua indignazione per le parole di mio padre. Fu un bene, perché lo fece tacere. Fu un male, perché mia madre mi liberò dal suo abbraccio e, con un’espressione impaurita, si diresse alla culla, lasciandomi lì, senza sapere cosa sentire o cosa dire. Lasciandomi. Una mano contro la mia nuca mi strappò da quello stato di trance e, mentre vedevo mia madre prendere in braccio il bimbo, avvicinandolo alla sua mammella ora curiosamente gigantesca, mi sentii spingere fuori dalla camera, come un’intrusa. «Dai, andiamo. Dove stai guardando? Via, che tua madre ha bisogno di riposare! C’è molto da fare in casa! Ti accompagno alla fermata e poi torno qui da loro, intesi?» Non riuscii a rispondere. La sensazione che alla fin fine non fosse cambiato nulla tornò come un cazzotto al centro esatto del cuore e parve avere il potere di fermarlo per un istante. “È tutto uguale, piccolo. Non è cambiato niente. Non hai avuto il potere magico di modificare la mia vita, lo sai?!» gli urlavo senza voce, sicura com’ero che mi avrebbe udito e capito. Sicura com’ero che avrebbe sentito tutta la ribellione che mi buttava i piedi in avanti, in una sorta di marcia verso ciò che conoscevo. La mano pesante di mio padre sulla mia spalla, che mi spingeva. Il suono delle sue suole consumate sul linoleum. Il suono irritante delle mie suole di gomma, che stridevano impietosamente. Erano i suoni che mi riportavano indietro. Indietro verso l’unica cosa che conoscevo. Ed ebbi la stupida certezza che quel bimbo non mi avrebbe portato niente di nuovo né di bello. Era solo un naufrago in più aggrappato al


mio piccolo pezzo di legno. Era solo un naufrago in più che avrebbe messo in discussione l’equilibrio che avevo faticosamente conquistato. La tavola che a stento sopportava il mio peso ora avrebbe dovuto reggere il peso di un’altra persona. Com’era possibile? Ma non potevo abbandonarmi ad alcun pensiero, perché dovevo passare in farmacia, rientrare a casa, riordinare tutto, preparare la cena per mio padre, sistemargli le pantofole davanti alla porta, occuparmi degli ultimi preparativi per accogliere il neonato, come mi aveva chiesto mia madre, finire i compiti di portoghese, tra cui un tema su cosa avevo fatto nel fine settimana, quindi, inventare una visita a un museo, o a un parco e passare in bella copia la mia vita famigliare, riempiendo il foglio di una perfezione inventata, in contrasto con la famiglia idilliaca che i miei compagni di classe sembravano possedere davvero nei loro temi. Dovevo poi fare il bagno e aspettare che lui rientrasse e trovasse tutto nel presunto ordine da lui stabilito. Sperare che nulla modificasse il suo umore. E quell’attesa era il momento peggiore della giornata. Il dubbio che precedeva il caos o la pace. Era possibile che arrivasse a casa e non ci fosse nulla che lo infastidiva, o avrebbe potuto andare in collera scoprendo che mi ero dimenticata una finestra socchiusa. Era un’incognita costante. Quella sera, udii la chiave, sentii il rumore che faceva togliendosi le scarpe, contai fino a cinque e indovinai che si stava infilando ai piedi le pantofole, poi si diresse in cucina e aprì il frigorifero. Contai fino a tre e arrivò il suono del tappo della birra che veniva aperta. Contai fino a dieci e udii lo sportello del microonde sbattuto bruscamente. Chiesi, in una sorta di preghiera interiore, che non riscaldasse troppo gli spaghetti, perché, l’ultima volta che era successo, aveva avuto una crisi di nervi. Una crisi che ci aveva messo un’ora infinita a placarsi. Un’ora in cui avevo dovuto sentirlo urlare


e minacciare e prendere a calci quasi tutti i mobili. Un’altra ora così non la volevo, perlomeno non adesso, perché avevo bisogno di sdraiarmi e pensare a tutto quello che era successo quel giorno. Avevo bisogno, con un’urgenza assurda, di organizzarmi internamente, preparandomi all’arrivo di un nuovo abitante in quella casa. Se il ritmo dei rumori fosse proseguito come di solito, ora avrebbe dovuto cenare finendo la bottiglia di birra, per poi aprirne un’altra e crollare sul divano. A quel punto sarei stata in salvo. Non succedeva mai niente dopo che si era buttato sul divano a guardare la televisione. Ma i suoi passi diretti verso la mia camera mi fecero gelare tutto dentro. Pensieri, desideri, emozioni. Tutto rimase immobile, in attesa. In attesa della sentenza che conoscevo in anticipo. In attesa come quelli che conoscono già il loro destino, molto prima che gli si riveli. La porta della camera si aprì di colpo e comparve lui, con le labbra ancora umide di birra, una bottiglia mezza vuota e lo sguardo torvo e arrossato: «Allora, è stato bello vedere tuo fratello?» Tutto mi aspettavo, tranne quello. «Hai comprato le cose che ha chiesto tua madre?» «Sì, sono passata in farmacia e…» «Meno male. Voglio che tutto sia impeccabile quando domani arriveranno. Faremo finta che sia una specie di reinizio, d’accordo?» «Reinizio?» «Sì, non sei tu quella che passa la vita incollata ai libri? Non hai mai letto questa parola? Re-i-ni-zio!!!» Oltre a essere torvo e arrossato, il suo sguardo ora aveva assunto anche un’espressione rabbiosa, e io mi irrigidii, tentando di trovare la risposta perfetta. «So cosa vuol dire, certo che lo so. D’accordo, papà. Domani sarà tutto impeccabile, promesso.»


La sua mano parve allentare la pressione sulla bottiglia di birra e io cominciai a pensare che il conflitto imminente si sarebbe potuto risolvere così. «Ho già fatto il lettino del bambino…» «Pedro, si chiama Pedro!» «Sì, ho già fatto il lettino di Pedro, ho preparato i vestitini e ho messo sul comò le cose che ho preso in farmacia. È tutto pronto per riceverlo», mi corressi, «per il reinizio.» Lui mi guardò, in cerca di qualche traccia di ironia che lo facesse arrabbiare, ma non trovò niente. La mia espressione era di pura sottomissione. «Vediamo se riusciamo a sembrare finalmente una famiglia. Senza tante stronzate.» “Una famiglia? Sei proprio stupido. Una famiglia? Come le famiglie dei temi dei miei compagni? Quelle che vanno al parco e al museo e al cinema e cenano intorno a un tavolo, ridendo e chiacchierando allo stesso tempo? Solo tu ci puoi credere, stupido che non sei altro.” «Mi hai sentito?!» «Sì, papà. Mi piacerebbe tanto che fossimo una famiglia.» «Allora fai uno sforzo e levami di torno quella faccia disgustata! Domani voglio solo sorrisi.» Non aspettò la mia risposta e se ne andò, lasciando la porta spalancata. Per quanto desiderassi il silenzio e la falsa sensazione di sicurezza che la porta chiusa pareva offrire, non osai toccarla. Mi tolsi le calze pesanti e m’infilai sotto le lenzuola gelate, tentando di riordinare la confusione che provavo. Tentando di trovare un senso alle braccia di mia madre sul mio corpo quel pomeriggio. Tentando di prolungare la sensazione di conforto che mi avevano dato. E mio padre? Cos’era quella storia di volere che fossimo una famiglia e di chiedermelo come se fossi io la colpevole se non lo sembravamo? Poi dovevo pensare al bimbo, a quello strano essere che


l’indomani mattina avrebbe cominciato a vivere sotto il mio tetto. Che non piangesse, per favore, che non disturbasse, che non sconvolgesse l’ordine prestabilito, era su questo che mi concentravo. Era questo che importava ora piÚ di tutto il resto. Quel bimbo non poteva farsi notare e fu quello che trasmisi con il pensiero al mio fratellino. Anche se separati da decine di isolati e pareti di cemento, sapevo che non c’erano muri capaci di bloccare la trasmissione del mio pensiero. Lui sarebbe stato in grado di sentirmi.


2 LUÍSA E PEDRO

E così, Pedro e mia madre tornarono a casa in un pomeriggio piovoso e gelido di gennaio e io tentai di convincermi con tutte le forze che era davvero un nuovo inizio. Mio padre sorrideva con mio fratello tra le braccia, mia madre non urlava, né si agitava per tutto e con tutti e mio fratello aveva ascoltato la mia richiesta e non aveva pianto la sua prima notte. Da lui avevo udito solo qualche accenno di singhiozzo, timidi tentativi di pianto, subito placati da mia madre con il cibo che produceva in quantità industriali nelle sue spropositate mammelle. Aiutai a fargli il primo bagnetto, sotto lo sguardo ansioso dei miei genitori, e sentii la sua pelle scivolosa sotto le mie mani un po’ incerte. Continuavo a parlargli silenziosamente, chiedendogli di non farmi stare male, di aiutarmi a mantenere quel nuovo inizio, quella impercettibile parvenza di felicità, e lui mi ascoltava, obbediente, all’apparenza raggiante sotto le mie mani bagnate e insicure. I primi giorni riuscii a evitare l’inevitabile e a fingere di non sentire mia madre piangere, di non notare il suo sguardo sempre più distante e la crescente assenza della sua voce quando mio padre le rivolgeva la parola. I primi giorni fu facile mantenere quel nuovo inizio, perché mio padre sembrava davvero cambiato. Circondava mia madre di premure, parlandole con una dolcezza che non gli conoscevo. Accarezzandole i capelli e dicendole che doveva


reagire, che non era la fine del mondo, che il bambino sarebbe cresciuto presto e avrebbe dato meno da fare. Non mi strillava, e io facevo gli scongiuri, nel buio della mia camera, perché tutto funzionasse e i miei genitori si trasformassero, come per magia, in una coppia di genitori uguali a quelli di António, il mio compagno di classe, che nei temi raccontava dei fine settimana bellissimi, con giardini, cinema, corse in bicicletta. I miei genitori si sarebbero trasformati nei genitori di António e mi avrebbero accompagnato a scuola insieme, sempre con un sorriso, domandandomi com’era andata la giornata, e fatto il solletico solo per il gusto di farmi ridere. Facevo gli scongiuri perché mia madre credesse, come lo credevo io, alla possibilità di essere una famiglia per davvero, senza tante stronzate, come aveva detto mio padre. Lei avrebbe smesso di essere triste, doveva smettere di essere triste e cominciare finalmente a volerci bene, perché solo così saremmo potuti essere una famiglia felice. Ma i giorni continuavano a passare e mia madre iniziò a scomparire, finché restò ben poco della mamma forte e nervosa che conoscevo. Non rispondeva più strillando quando mio padre bofonchiava, malgrado lui bofonchiasse sempre meno, per paura di scagliarla definitivamente in qualche luogo inaccessibile, e anche questo mi spaventava. Vedere mio padre timoroso mi disorientava, perché non immaginavo che anche lui potesse essere così, impaurito e sottomesso, proprio com’ero io tante volte davanti a lui. Mio padre aveva paura, come un comune mortale, e la sua fragilità mi terrorizzava più ancora della sua ferocia. E, in mezzo a tutto questo, ai miei scongiuri e alla mie richieste di magia, al nervosismo di mio padre e di mia madre, Pedro cominciò a piangere. Forse perché avevo smesso di chiedergli tutte le sere di non farlo, preoccupata com’ero di chiedere una famiglia senza


tante stronzate, forse perché intuiva che stava per succedere qualcosa di molto grave e la sua mancanza di esperienza in queste cose gli offuscava la capacità di bloccare la paura. Forse soltanto perché tutti i bambini finiscono per piangere, prima o poi, per quanto le sorelle gli mandino messaggi telepatici. Pedro cominciò a piangere e il suo pianto riempì tutti gli angoli silenziosi della casa, tutti i pensieri celati, tutte le lacrime trattenute a stento. Il suo pianto fu una vera e propria tempesta, di quelle che non danno tregua e mandano tutto all’aria. Piangeva dalla mattina alla sera. Le mammelle di mia madre si rimpicciolirono di nuovo, si prosciugarono insieme al resto del suo corpo, e lei non poté più far tacere quel pianto con quel latte che, ai miei occhi, pareva avesse il potere di azzittire il più piagnucoloso dei bambini, come una specie di fonte inesauribile. E questo fece piangere anche lei. Mio padre riprese a bere birra sin dal mattino e questo la fece piangere ancor di più, fino a che il pianto s’impossessò completamente della nostra casa. Piangevano tutti. Mio padre piangeva di rabbia, mentre urlava contro mia madre e prendeva a calci la culla di Pedro, tentando di farlo tacere. Mia madre piangeva di tristezza, perché lui urlava con lei e perché non riusciva a essere una buona madre. Pedro piangeva perché sì, o per non essere diverso. Soltanto io non piangevo, perché sapevo che, se avessi pianto, niente sarebbe più tornato indietro e il nostro reinizio sarebbe stato solo il ritorno alla vecchia vita, che non volevo ricordare, e tantomeno ricominciare. Non potevo piangere, dovevo essere forte per mia madre, per mio padre, per il bambino. Dipendeva da me l’equilibrio domestico, dipendeva da me la felicità della mia famiglia, perciò lottai per quel reinizio nel modo migliore che conoscevo, scomparendo e facendo sì che tutto quello che ci circondava comportasse il minimo sforzo possibile per tutti. Era l’unica cosa che sapevo fare e lo feci in maniera esempla-


re. Non c’era niente fuori posto, nessuna richiesta inevasa. Facevo i compiti la sera tardi, per non restare indietro nelle faccende domestiche, e tornavo il prima possibile, correndo dalla fermata dell’autobus a casa, con la premura di quelli che amano rincasare, anche se non era quello il motivo. Era perché non volevo che tutto terminasse. Ma tutto ciò che feci non bastò perché mia madre mi prendesse di nuovo fra le sue braccia, o la smettesse di sentirsi inadeguata nel suo ruolo materno. Non bastò perché tutti la smettessero di piangere. Anzi, al contrario, ogni volta che mi vedeva raccogliere la biancheria sporca da terra, o aiutarla a entrare nella vasca da bagno per togliersi quel cattivo odore ormai penetrato nel suo corpo depresso, piangeva ancora di più. Mi guardava e scoppiava a piangere, come se il fatto di vedermi impegnata in quelle cose fosse la dimostrazione vivente del suo irrimediabile fallimento come madre. Mio padre mi sgridava perché la facevo piangere e Pedro piangeva di nuovo. Un pianto dolente, supplice, che tutti tentavamo stoicamente di ignorare. Fino a che un pomeriggio lei se ne andò. Senza saluti né giustificazioni. Fece una valigia, la stessa vecchia valigia puzzolente di muffa che si era portata in ospedale, dentro cui mise un paio di mutande, due paia di collant, un paio di jeans e un CD di Joni Mitchell. Poi mi costrinse a sfilarmi il maglione che avevo indosso, un maglione consumato che aveva fatto lei stessa, annusò quel che poteva esserci da annusare in quel vecchio pezzo di stoffa e la infilò in valigia, riservandole un angolo libero. Poi sfilò la tutina del bambino, la annusò e la posò sulla mia maglia. Un bagaglio sconclusionato, che mi spaventò più che mai. Chiuse la valigia, ci lanciò un’occhiata, con lo sguardo più vacuo e più intenso del mondo e, senza dire una parola, sbatté la porta, lasciandomi sola con il bambino, visto che mio padre aveva rimediato un lavoro temporaneo, e arrivava quasi sempre alla sera.


Mia madre ci lasciò, senza salutarci e senza dire il perché se ne andava. Mia madre ci lasciò, perché era stufa. Stufa di noi, stufa di me. Mia madre ci lasciò, perché noi non facemmo in modo che volesse restare. Mia madre ci lasciò, e quella era l’unica frase che trovava spazio per essere pronunciata dentro di me. Mi martellò nella testa per molti anni, finché non riuscii più a pronunciarla, finché si consumò e si trasformò in un cencio verbale, senza colore, senza nitidezza, morta. Guardai mio fratello, il cui sguardo si era puntato di nuovo sulla mia fragile ombra, e gli dissi, senza parole, con il solo potere della mia mente: “È tutta colpa nostra, piccolo”. E Pedro scoppiò a piangere. Pianse con tutta l’energia che ancora aveva, pianse per me, per lui e per la fine della nostra famiglia senza tante stronzate, che era esistita per il periodo esatto di trenta giorni. Pianse per la fine di quel nuovo inizio che non era riuscito a iniziare veramente. Andava sempre così con le cose belle, ormai dovevo saperlo. Duravano quanto bastava perché ne sentissi il sapore, a volte soltanto l’odore, e per procurarmi un’altra nostalgia. Era stato così con quell’abbraccio di mia madre, adesso era così con il nostro reinizio fallito. Sarebbe stato sempre così, sempre. Perciò dovevo chiudermi davanti alle cose belle, non lasciarle entrare, per poi non dovermi rattristare. Le cose belle non lo erano mai per sempre, e questo ormai lo sapevo da molto, molto tempo. Mia madre ci aveva lasciato ed era tutta colpa nostra. Ma da quel giorno non mi sarei più lasciata ingannare. Le cose belle capitavano sempre agli altri.


So che, tante volte, le persone che circondano chi scrive tentano di rivedersi, in un esercizio un po’ vano, in quello che è stato scritto, ritenendo di identificarsi, o di essere stati di ispirazione al racconto, ma non è questo il caso. La mia unica ispirazione è stata Rita, e comunque solo per ciò che riguarda il modo in cui Luísa affronta la malattia, con onestà e franchezza, non sottraendosi mai alle domande più complicate. Tutti i personaggi e la trama di questa storia sono puramente inventati. Ana Casaca luglio 2014


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